«Mostro l'incontro fra israeliani e palestinesi
Chi ha paura del mio documentario?»


Intervista di Federico Raponi alla regista Barbara Cupisti

barbara cupisti
Barbara Cupisti


Un David di Donatello, evidentemente, non basta. Malgrado la statuetta per il miglior documentario assegnatale quest'anno grazie a Madri , la regista Barbara Cupisti non è riuscita a distribuire nelle sale, o quantomeno a far trasmettere sul piccolo schermo, questo lavoro prodotto dalla Rai frutto dell'incontro con le donne israeliane e palestinesi che insieme cercano di costruire la pace nella Ong "Parents circle".

Analogamente Vietato sognare, l'opera successiva che racconta di ex soldati di Tzahal e militanti armati palestinesi ora impegnati nel progetto unitario "Combatants for Peace", è bloccato nonostante sia stato richiesto da diversi festival internazionali. Ma lei non si dà per vinta. Cineasta per vocazione, prima di passare dietro la macchina da presa Cupisti è stata danzatrice, attrice di teatro, tv, cinema e conduttrice di programmi televisivi culturali. Ora, Vietato sognare è stato selezionato dal festival di Dubai: un bel risultato per una donna, occidentale, che parla del conflitto israelo-palestinese in un paese arabo. Il SalinaDocFest è stata l'occasione per incontrarla.

Le Ong "Parents Circle" e "Combatants for Peace" sono rispettate da entrambi i fronti. La prima perché il lutto è sacro per tutti, l'altra perché a costituirla sono ex combattenti…
Sono anche le organizzazioni non governative più conosciute. Per "Combatants for Peace", il fatto di essere formata da ex combattenti le assicura un grado di attenzione diverso. Perché, sia nella realtà israeliana che in quella palestinese, se sei pacifista vieni considerato un traditore.
Invece, se a portare un messaggio di quel tipo sono persone che prima hanno combattuto e poi strada facendo hanno deciso di intraprendere la via della non violenza, godono di una certa credibilità: in questa regione essere impegnati a difendere il proprio paese è considerato un onore e un dovere. Dall'una e dall'altra parte. Gli "anarchici contro il muro", ad esempio, pur manifestando contro la costruzione della barriera di separazione, hanno rifiutato il servizio militare, hanno fatto mesi di carcere e pertanto vengono visti come vigliacchi. Da parte palestinese invece, se non hai fatto la prima o la seconda Intifada o non hai fatto parte di un corpo combattente, ti possono vedere come un collaboratore.

Tra le due popolazioni c'è un'idea chiara sulla soluzione del conflitto?
La gente non ha più voglia di guerra. A parte gli estremisti, che esistono ovunque, la grande maggioranza vuole vivere, e tranquillamente. C'è una grande divisione tra il sentire della gente e le volontà della politica. Logicamente, il senso di identità nazionale appartiene a tutti, in modo particolare quando si vive in un paese occupato, o in uno occupante.
Ali, il protagonista palestinese del film Vietato sognare, dice: «Per Israele, la fine dell'occupazione significherebbe vivere una vita senza paura, per la Palestina sarebbe come iniziare a vivere». Nella situazione attuale i ragazzi non possono progettare un futuro. Da una parte, devono fare tre anni di servizio militare e possono finire nei Territori Occupati o in Libano, e chi li garantisce che torneranno a casa? Inoltre, ogni anno, devono tornare a indossare la divisa per tre mesi. E' devastante, quando questi giovani tornano dalla leva c'è chi si droga, chi si dà all'alcool, chi se ne va a Goah, in India.
Dall'altra parte invece non hanno più nulla, non possono uscire dalle loro città, non hanno diritti. Ci sono ragazzini palestinesi che sono già vecchi, morti dentro. Uno dei problemi più grossi, e in Vietato sognare l'ho affrontato, è quello dei "settlement". Nell'enclave palestinese non esiste una continuità territoriale, tra un sobborgo e l'altro ci sono gli insediamenti israeliani a macchia di leopardo. Per andare da un posto all'altro, se normalmente ci impiegheresti mezz'ora, adesso ci metti quattro ore, se tutto va bene.
Inoltre i militari spesso sono in imbarazzo di fronte ai coloni, i più estremisti fra la popolazione occupante: a Hebron ci hanno detto: «Siamo qui per proteggere loro ma dobbiamo scortare quegli altri (i bambini palestinesi che, nel tragitto verso la scuola, vengono aggrediti dai "settler", ndr ) è una situazione paradossale».

E in Italia, riguardo alla mancata distribuzione di "Madri" e al blocco di "Vietato sognare", di cosa c'è paura?
Rispetto a Madri, non riesco a spiegarmelo. In alcuni posti è stato proiettato grazie all'Ucca, ed è anche uscito in dvd. Ma la cosa pazzesca è che, pur essendo stato prodotto dalla Rai, non è mai passato in televisione nonostante mi sia stato detto più volte che avrebbero fatto di tutto per programmarlo.
L'aspetto abbastanza sconvolgente è che il film ha vinto il David di Donatello e questo poteva essere utilissimo per il suo lancio. In quanto alla distribuzione cinematografica, non è stata mai presa in considerazione. Dopo il Festival di Venezia dell'anno scorso si è avuto qualche accenno in quel senso, ma è stato stoppato immediatamente. Scusante? Il documentario in Italia non ha pubblico, gli esercenti non lo vogliono perché costerebbe troppo investire in pubblicità e il rischio sarebbe troppo alto. La paura c'è, credo, perché non è così semplice far vedere le cose da un'angolazione diversa rispetto a quanto siamo abituati.
Il mio documentario Madri è duro, forse, ma non è di parte. Io racconto ciò che vedo, faccio parlare le persone. Sono una persona libera, pensante, posso cambiare idea - e lo faccio - continuamente. Quello che non faccio mai, nel mio lavoro, è dare soluzioni, filtrare o spiegare. Lo detesto. Lascio che le cose si spieghino da sole, e che le persone, a seconda della propria cultura e sensibilità, prendano ciò che vogliono prendere. In questa maniera ci si avvicina sentendo e riconoscendo un dolore che tutti possiamo provare, un dolore universale. Allora si riescono a capire cose che normalmente ci sfuggono.
Per Vietato sognare la situazione è più complicata. Non ho potuto metterci dentro tutto quello che volevo e ho dovuto lottare con le unghie e con i denti per poter mantenere almeno questa versione. E' più doloroso dell'altro perché ti fa sentire l'impotenza di bambini che crescono nell'odio e nella paura e di un israeliano e un palestinese che girano il mondo - da soli - a fare conferenze, uno costretto a stare a New York perché in Israele non può più far nulla, mentre l'altro finisce continuamente in galera.

C'è qualche speranza che vengano mostrati?
Il Festival di Dubai ha selezionato "Vietato sognare" e forse questo mi rimette in gioco, ma per ora non credo abbia possibilità di uscire in Italia. Nel mio documentario le persone si sono raccontate per essere ascoltate, e quindi per me è un dovere morale, mi batterò fino alla fine perché venga visto. Non ne faccio un discorso di pregio artistico, perché se volessi film girati e costruiti bene farei altro. Parlo di valore di documento. Può essere stracriticato, però serve a far sentire le ragioni dell'altro, che secondo me è la cosa più importante.

Proseguirà sulla via del documentario?
Bisogna vedere se me lo fanno fare, anche perché il terzo progetto - che era già stato finanziato, con 6 mesi di sopralluoghi già fatti - è stato bloccato prima di cominciare. Nel frattempo ho aperto un piccola società di produzione negli Stati Uniti. Comunque, se continuerò, voglio mescolare ancora di più il documentario con la fiction.

"Vietato sognare" affronta il rimosso da entrambe le parti: stando ai loro racconti, gli israeliani tengono lontano il conflitto, i palestinesi imparano presto a non affrontare i problemi…
Questo ti fa capire come si vive lì, e quanto questa situazione ti infetti mentalmente, anche quando te ne vai altrove. Elik, il protagonista israeliano, è dovuto andare a studiare letteratura ebraica del ‘900 negli Stati Uniti, è un ragazzo perennemente in fuga. E come lui tanti altri che vivono a New York.
L'insegnante israeliana - e Premio Sakharov - Nurit Peled, insieme ad un professore palestinese, ha fatto uno studio sui libri di testo palestinesi e israeliani per far capire quanto l'ignoranza venga dall'educazione impartita. In Israele, gli studenti crescono senza sapere cosa c'è oltre il muro, nei loro libri, i Territori Occupati sono considerate zone desertiche abitate solo da nomadi o pastori. Mettiti perciò nei panni di diciottenni che, dopo sei mesi di addestramento nel deserto, si ritrovano con un M-16 in mano a presidiare città affollate da persone di cui hanno una fifa cane. Uno shock.

Quella terra le è piaciuta al punto di acquistarne un pezzo…
Ne sono orgogliosissima. Qui in Italia non sono proprietaria di nulla, sono così per principio. L'unica cosa che ho comprato è un pezzo di terra nel villaggio palestinese di Beit Omar, vicino ad Hebron.
Uno dei motivi per cui l'ho fatto è che se uno straniero compra un terreno, quel terreno non può essere confiscato né ci possono passare muri di separazione. E' una forma di resistenza non violenta.



da Liberazione del 21/10/2008

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