Il mondo visto da Gela
di Maria Rosa Cutrufelli


Maria Rosa Cutrufelli

«Vigliacca se quell'anno non era stato duro: stragi, attentati, agguati ai militanti di sinistra, morti a Milano e a Pisa negli scontri con la polizia, il commissario Luigi Calabresi assassinato, l'editore compagno, Feltrinelli, saltato in aria per un'esplosione su un traliccio dalle parti di Segrate, sicuramente per colpa della Cia, tutti quei voti persi alle elezioni, e poi Andreotti, la svolta a destra del suo nuovo governo, la gente che dormiva fuori casa per la paura di un colpo di stato... Cazzo, il golpe: persino da suo padre, un vecchio socialista, Alberto ne aveva sentito parlare con timore».

Quell'anno era il 1972 e Alberto, il protagonista del romanzo di Bruno Arpaia imperniato proprio su questo periodo storico (Il passato davanti a noi, ed. Guanda), lo riassume efficacemente: un anno convulso, vissuto col fiato sospeso, un anno di recessione e di scontri di piazza, aperto da una crisi istituzionale senza precedenti. È infatti la prima volta nella storia della Repubblica che il parlamento non porta a termine la legislatura e a febbraio il presidente, Giovanni Leone, decide di anticipare le elezioni: all'epoca, la cosa fece impressione.

Per la verità furono parecchie le cose che ci fecero impressione in quel 1972, anno che registrò numerosi "primati". Nella vita pubblica e, per molti giovani, anche in quella personale. Per quanto mi riguarda, fu l'anno della svolta. O meglio del Grande Ritorno: lasciai la mia città d'adozione, Bologna, lasciai il lavoro, gli amici, le compagne di Lotta femminista (così si chiamava il nostro gruppo, il primo nato a Bologna) e tornai in Sicilia.

Vivevo, come tanti e tante della mia stessa età, immersa in una militanza totale. Eravamo già ex: ex-sessantottini. Ma questo piccolo prefisso che ci consegnava al passato, per quanto prossimo, non ci aveva affatto tolto quella nostra "vecchia" e grande fame di militanza - parola oggi alquanto fuori moda e che allora, pur avendo un significato vago e differente per ciascuno, conteneva un'idea di fondo comune a un'intera generazione. Perché "militanza" significava, molto semplicemente, che tutti quanti eravamo impegnati, in un modo o nell'altro, a mette­re in discussione il potere costituito, ovunque esso si manifestasse o si nascondesse. E tutti eravamo convinti che il cambiamento passasse attraverso i nostri stessi progetti di vita. Insomma avevamo ben presente quella celeberrima frase di Marcuse: «La repressione è un filo continuo e senza stacchi e va dalla società alla famiglia e dalla famiglia al sesso, tre facce dello stesso fenomeno». Questo era il nostro pane quotidiano. Ma la forza dell'entusiasmo andava di pari passo con l'ingenuità. «Politicamente eravamo molto ingenui, al­lora. E questa penso sia stata una caratteristica di tutto il movimento del sessantotto. C'era molta fiducia negli altri. Avevamo una mentalità molto aperta, ricettiva. Eravamo portati ad accogliere favorevolmente ogni novità, senza pensare in maniera dietrologica». Parole di Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate rosse, al giornalista Giovanni Fasanella (Che cosa sono le Br, ed. Bur). E in effetti era proprio così. Ma nel 1972 la generazione della "politica creativa" perse definitivamente ciò che restava della sua innocenza e le strade di molti cominciarono a separarsi in maniera irrevocabile. Fu l'anno delle scelte.

Anch'io, naturalmente, feci la mia. Una scelta in cui le suggestioni politiche si mischiavano a impulsi personali e profondi. Ero donna e guardavo il mondo con gli occhi di un rinato femminismo, ma ero anche una donna del sud: la mia sfida era doppia. Abitavo a Bologna da quando avevo nove anni, però la Sicilia restava il luogo dell'origine. Dell'appartenenza. Prima o poi dovevo farci i conti. E quell'anno mi sembrò che fosse arrivato il momento.

Erano molto in voga, d'altronde, le "migrazioni politiche". Ormai non era soltanto il partito Comunista a mandare dirigenti nazionali nelle federazioni dell'isola, anche i gruppi extra-parlamentari (da Potere operaio a Lotta continua) spedivano giù i loro a organizzare e reclutare "indigeni". Un motivo di più per tornare e vedere con i miei occhi cosa stesse accadendo in "periferia".

E fra le donne, in particolare. Non credevo affatto allo stereotipo della donna meridionale "arretrata" e facilmente manipolabile, un'eterna "vedova bianca" consumatrice delle rimesse degli emigranti: una specie di parassita sociale.

Perciò andai. E scelsi Gela, benché non fosse la mia città, per un motivo semplicissimo: era uno dei "poli di sviluppo" della Sicilia. Lì c'era la classe operaia. Lì il sogno del progresso industriale mostrava le prime crepe. Il mare e i campi erano già inquinati e la raffineria - la "cattedrale nel deserto" - determinava i ritmi della vita quotidiana del paese. A volte la sera, quando le fiamme delle torce improvvisamente arrossavano il cielo e l'aria si riempiva di un odore acido, la gente per strada smetteva di parlare e si guardava con ansia.

Fu così che vissi il 1972 di sbieco, dai "margini" di un'Italia concitata e confusa nonostante la netta vittoria della dicci alle elezioni (vittoria che confermava la "centralità" di questo partito nonché la paura degli "opposti estremismi", efficace slogan elettorale che sintetizzò un'epoca).

E forse anche per questa circostanza, perché abitavo lontano da quello che veniva considerato il "centro" del paese politico e del potere economico, il 1972 mi parve un anno misterioso, fuori misura, oltre che inquietante. Le cose sul "continente" accadevano con una rapidità che sconcertava, gli avvenimenti si accavallavano, era difficile districarsi fra una notizia e l'altra.

Però a tutti era chiaro che davvero l'Italia, al sud come al nord, stava vivendo un anno di primati.

A cominciare da quel fenomeno poco descritto e ancor meno analizzato che potremmo chiamare "latitanza di massa". A un certo punto qualcuno giunse a dire che, nella sinistra extra-parlamentare, ormai c'erano più giovani in latitanza che militanti. Era in par­te la risposta alle "manette facili". Alle grandi retate. Il 15 aprile, per esempio, Rumor fece scattare una vasta operazione di polizia. Risultato: 163.000 persone controllate, 469 ar­restate, alcune per possesso di armi, la stragrande maggioranza per possesso di "mezzi di propaganda eversiva", cioè volantini, opuscoli e via discorrendo. Insomma gli arresti piovevano a raffica e per i motivi più vari: per interruzione di pubblico comizio come per renitenza alla leva. Il carcere era a quei tempi la pena per chi rifiutasse il servizio militare, e soltanto alla fine dell'anno (altro primato storico) il senato approverà in via definitiva la legge che introduce l'obiezione di coscienza. Ma il fatto forse più singolare è che le case, nel 1972, si aprivano facilmente per offrire riparo a questi latitanti. Forse era la paura del "golpe bianco" (quella evocata dal protagonista del romanzo di Arpaia) che faceva aprire le porte più insospettate (e anche su questo fenomeno, sorprendente "pendant", della latitanza diffusa poco o niente si è scritto). È vero che però di rado e solo in ambiti ristretti si parlava di "clandestinità", condizio­ne ancora oscura, una scelta praticata da pochi e che all'epoca per lo più veniva identificata con quel "lavoro illegale" di cui si sussurrava qua e là. La latitanza perciò era una cosa. La clandestinità un'altra. La prima era a volte un caso. Veniva spesso considerata una necessità. Una dura, inevitabile necessità per sfuggire agli arresti. La seconda era una voca­zione: una "libera" scelta. Due mondi diversi, per il momento. E tuttavia già contigui. Che già s'intrecciavano.

Ecco come Franceschini racconta il suo in­gresso definitivo nella clandestinità: «Ricordo che un fine settimana tornai a Reggio e mio padre mi disse: "È arrivata una lettera, devi partire per il militare"... La lettera mi invitava a presentarmi al Car di Barletta entro tre giorni. Prima di partire, feci il giro dei parenti e de­gli amici di famiglia, per salutarli. Mi diedero tutti dei soldi... Il giorno della partenza, andai alla stazione. Ma invece di prendere il treno per Bari, salii su quello per Milano».

A ripensarci oggi, quello fu decisamente l'anno in cui tutto sembrava accadere per la prima volta. È la prima volta che il marchio sconosciuto della stella a cinque punte assume un grande rilievo. E fa la sua comparsa il tre di marzo, quando Idalgo Macchiarini, dirigente della Siemens, viene sequestrato, fotografato con un cartello al petto, e rilasciato poche ore più tardi. È la prima volta che le Brigate rosse, firma ancora sconosciuta ai più, rivendicano un "sequestro politico".

Poi succede un fatto strano. Il cinque di agosto, nei dintorni di Trieste, venti chili di esplosivo fanno saltare in aria una raffineria. Un'azione spettacolare e di grande successo: vanno in fumo oltre 250.000 tonnellate di greggio e i danni sono di 2,5 bilioni di dollari. Ma tutto ciò non è opera di gruppi nostrani. È invece l'esordio di un nuovo terrorismo. Internazionale. I sospetti della polizia cadono infatti su colui che in seguito diventerà il leader di Settembre nero in Francia: Mohammed Boudia, un intellettuale algerino quarantenne. Bello. Colto. Uomo di grande fascino, a quanto pare. Il Mossad, secondo Simon Reeve (Un giorno in settembre, ed. Bompiani), era talmente solleticato dalle sue gesta sessuali da soprannominarlo "Barbablù" (spediva le sue fidanzate in Israele con i vestiti impregnati di sostanze chimiche che le trasformavano in vere e pro­prie "bombe ambulanti").

Mohammed Boudia, guarda caso, è anche uno degli uomini coinvolti in quell'episodio che, proprio nel settembre del 1972, segnerà una svolta nella storia del terrorismo interna­zionale: l'attacco alle Olimpiadi di Monaco, da cui prenderà avvio (fra l'altro) una lunga e tragica vicenda di sangue rievocata di recente in un film di Spielberg.

Impossibile dimenticare i giorni di Monaco.
Furono uno spartiacque. Un segnale preciso che mostrava, a chi aveva occhi per vedere, come stesse cambiando l'orizzonte politico.

A Gela io scordai le fiamme del petrolchimico e le riunioni con le compagne del collettivo femminista (manco a dirlo: il primo in Sicilia) e rimasi incollata alla tivvù per seguire lo svolgersi delle varie fasi del dramma, trasmesso in diretta televisiva. Non ero una patita della televisione, preferivo la carta stampata, ma questa volta si trattava di uno spettacolo davvero sconvolgente. Senza contare la novità assoluta, imprevedibile, a livello d'informazione giornalistica. E non solo per l'Italia: mai prima d'allora si era visto un attacco terroristico in diretta mondiale.

Per noi italiani, in verità, era una duplice "prima volta". Nel senso che il governo aveva deciso di sperimentare la tivvù a colori proprio in coincidenza con le Olimpiadi. Un'iniziativa non gradita dai repubblicani: un disdicevole "incentivo alle spese voluttuarie", dissero, e minacciarono di uscire dalla compagine governativa. Anche il partito Comunista espresse giudizi molto duri a questo proposito, così la tivvù a colori finì insieme ai giochi olimpici e restò fino al 1975 un sogno proibito.
Quell'anno, in conclusione, non so quanti riuscirono a vedere il raid di Monaco sopra uno schermo a colori. Io lo vidi in bianco e nero e fu più che sufficiente. Ne discussi a lungo con amici e compagni. Ne parlammo a non finire anche nel collettivo delle donne.

L'episodio, con il suo bilancio finale di diciotto morti (tutti gli atleti israeliani presi in ostaggio, più cinque fedayn, un poliziotto e un pilota d'elicottero), divise trasversalmente la sinistra istituzionale e no. L'Unità parlò subito di «criminale impresa di un commando terrorista», e nella stessa direzione andò anche il quotidiano di Lotta continua. Il manifesto fece dei distinguo e scrisse: «Di fronte ad alcuni atti terroristici messi in atto dalla resistenza palestinese, noi abbiamo sempre assunto una posizione fortemente critica, sul piano dei principi e su quello dell'efficacia politica. Quello di ieri è però di natura diversa... la sua ispirazione è differente. Non è un atto di vendetta e violenza cieca. È un'azione di guerra rivolta non a colpire vittime innocenti, ma ad imporre, senza necessario spargimento di sangue, una trattativa per il rilascio di duecento delle migliaia di prigionieri arabi».

Ma il risultato finale di tutto ciò fu che quelle Olimpiadi, volute dal cancelliere tedesco per riscattare il ricordo delle Olimpiadi naziste del 1936, invece di consacrare il ritorno della Germania nell'area dei paesi demo­cratici, si conclusero con un altro massacro di ebrei su suolo tedesco, non lontano dal campo di concentramento di Dachau.

Fu dopo Monaco che il dibattito sulla violenza e sull'insurrezione armata, allora molto in voga all'interno di gruppi, gruppuscoli e sotto-gruppi, mi apparve come una retorica pericolosa, capace di condurre a tragiche derive. Una retorica lontana anni luce, peraltro, dalla pratica politica e dalle teorie che andavamo affinando nel collettivo delle donne. E poi davvero Gela (e forse l'intero meridione), nonostante continuassero a scendervi in pellegrinaggio politico sia Lotta continua sia Potere operaio (per non parlare dei marxisti-leninisti), aveva una storia tutta sua. Una storia che sempre, in qualche modo, in qualche misura, divergeva da quella nazionale.

Anche il nostro femminismo, là, in quel "polo di sviluppo" che restava un'isola nell'isola, era alquanto particolare. Piuttosto pragmatico, anche se ci piaceva molto discutere (e scrivere) del concetto di onore e del mito della virilità, su cui pensavamo (e io lo penso ancora) che si fondasse il patriarcato siciliano. E poi riunioni di autocoscienza a sfare, naturalmente. Che però alternavamo ad assemblee di caseggiato nei quartieri bracciantili, riuscendo a coinvolgere donne che mai, in vita loro, ave­vano aperto casa a un estraneo.

Sull'aborto, in quegli incontri, prendevano parola tutte. Non c'era donna, casalinga, lavorante in nero o coadiuvante nei lavori dei campi, che non volesse uscire dalla clandestinità delle pratiche abortive. Eppure era uno di quei temi su cui dovevamo ancora litigare con tutti i "politici", dal partito Comunista in giù. In quel periodo tuttavia Noi donne, che allora era un settimanale a grande diffusione, cominciò ad aprirsi al femminismo. In un certo senso, fece da apripista all'Udi (che ne era la proprietaria) favorendo la discussione tra le nuove femministe e le "vecchie" dirigenti dell'organizzazione legate alla sinistra tradizionale. Così iniziai a scrivere per il giornale. Anzi, divenni la "corrispondente dalla Sicilia" (gratis, è chiaro: per amore della causa). Fu una bella esperienza. Per me, che oltretutto acquistai pratica giornalistica. Per il gruppo delle femministe gelesi, che poté contare su un canale di comunicazione nazionale. E anche per Noi donne, che ebbe le sue cronache dal sud. E una femminista militante in redazione.

Sempre in quell'anno uscirono alcuni testi importanti, che aiutarono il nostro dibattito. Testi finalmente scritti o curati da italiane. Qualche traduzione di libri americani o comunque stranieri si era già avuta, ma fu nel 1972 che entrarono in libreria i primi saggi dichiaratamente femministi (o dichiaratamente "sul" femminismo) con firme italiane in copertina. I primi, e la specificazione è d'obbligo, non auto-prodotti: gli scritti di Lonzi, ad esempio, erano già in commercio, ma pubblicati dal suo stesso gruppo di Rivolta femminile. Questi invece erano stampati da editori ve­ri e propri. Editori coraggiosi. Che scommise­ro sulla capacità d'attrazione del femminismo (e almeno questa fu una scommessa vinta).

Così a febbraio uscì presso l'editore Bertani una raccolta di saggi e documenti a cura di Lidia Menapace. Titolo: Per un movimento politico di liberazione della donna. Nell'introduzione Menapace scrive: «I documenti qui tradotti non sono ignoti e non rappresentano neppure tutte le componenti del nuovo femminismo: ne sono però un significativo spaccato, servono per allargare la conoscenza dei testi, e per cercare di dare una definizione del fenomeno del rinascente femminismo». In appendice, erano raccolti gli interventi usciti su il manifesto attorno alla cosiddetta "questione femminile" (un gergo d'altri tempi, che tramonterà molto rapidamente).

A marzo, con l'editore Mazzotta, esce invece La coscienza di sfruttata. Saggio teorico scritto da un gruppo di quattro italiane (più un uomo). Fu uno dei libri più letti del primo femminismo nostrano. Vi si parlava della "crisi del dominio maschile", si definivano le donne come "una casta", ci si interrogava sull'emancipazione, si faceva il punto sulla forza-lavoro femminile e sul lavoro domestico, si discuteva della "dimensione psicoanalitica". Dall'introduzione: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di lotte individuali, sedimentate nella nostra coscienza, che ora stanno emergendo come dato collettivo: stiamo riscoprendo l'importanza di ripartire da noi, di ritrovare, dal particolare della nostra esperienza, ciò che è generale nell'esperienza di tutte le donne, ciò che ogni donna ha in comune con l'altra, il punto più interno che per tutte è così vivo e doloroso».

Infine a dicembre esce, con l'editore torinese Musolini, L'offensiva primo quaderno di Lotta femminista, unico gruppo a carattere nazionale. Anzi internazionale, legato a collettivi inglesi, statunitensi e francesi. E presente in molte città italiane, fra cui Padova, Ferrara, Bologna, Roma e Gela, per l'appunto. Il quaderno contiene i documenti di un seminario internazionale, tenuto qualche mese prima alla facoltà di magistero, a Roma, e interrotto in modo alquanto brusco. Il fatto viene così riportato nella lettera inviata da Lotta femminista al rettore e ristampata per l'occasione: «Il giorno 7 luglio 1972 si teneva un seminario organizzato da Lotta femminista sull'occupazione femminile, aperto solo a donne in conformità alle necessità organizzative di tale gruppo e del movimento femminista complessivo. Uomini genericamente auto-definitisi "compagni", non tollerando che le donne pretendessero di definire autonomamente il proprio sfruttamento e le proprie forme di lotta, hanno materialmente impedito che tale seminario si svolgesse... Ci organizziamo da sole perché ci serve e ci garantisce. Definiamo da sole il nostro sfruttamento e le nostre lotte. Se tutto questo fa sfondare la porta, tirarci addosso preservativi pieni d'acqua, rompere i vetri delle finestre, picchiarci e ferirci, risponderemo colpo su colpo».

Eh già, non correva buon sangue in quel 1972 tra femministe e uomini della sinistra, parlamentare o extra. Nonostante le cosiddette "donne della doppia militanza" tentassero di gettare un ponte fra le une e gli altri.

Anche a Gela il clima era quello: sospetto reciproco, furibonde zuffe politiche, e i dirigenti locali del partito Comunista che c'inseguivano nei viottoli sterrati dei quartieri popolari. Vita da militanti... Ma poi ci si ritrovava - con alcuni, per lo più coetanei - a discutere appassionatamente di certi film che quell'anno ci toccavano in maniera diretta. Toccavano proprio noi. Noi siciliani.

Il caso Mattei, innanzi tutto. Il film di Rosi interpretato da Gian Maria Volontè. Un giallo politico. Che presentava Enrico Mattei come l'eroe della battaglia contro le "sette sorelle", le multinazionali del petrolio. Ma in nome di chi o di che cosa aveva combattuto e perso la vita Enrico Mattei? Così si chiedevano alcuni giovani comunisti, che lavoravano come tecnici nella raffineria. In nome di un progresso senza sviluppo?

Il secondo film era tutt'altra cosa. Il padrino, di Francis Ford Coppola: la mafia narrata come un poema epico. Una saga. Un mito. Un film che ci met­teva a disagio. Che ci affascinava con la sua macchina narrativa e ci sgomentava per quel suo modo di affrontare la realtà mafiosa. Però anche a noi purtroppo mancavano le parole giuste. Non riuscivamo ad affrontare fino in fondo quel disagio. Perché si parlava poco di mafia, nel 1972. Ecco perché. E soprattutto se ne parlava in modo approssimativo. Eppure, in aprile, era uscito su "Storia illustrata" un bellissimo saggio a firma di Leonardo Sciascia. Dove si diceva a chiare lettere una cosa che ancora molti siciliani, anche in buona fe­de, facevano fatica ad accettare. E cioè che la mafia non era un "atteggiamento di spavalderia individuale" e che non si poteva equipara­re ai fatti di delinquenza associata che avveni­vano in altre parti d'Italia o del mondo. E scriveva: «Alcuni credono che applicando la parola alla cosa - la parola mafia o l'espres­sione, venuta in uso in questi ultimi anni, di Cosa nostra - si tenda a creare una distinzione razzistica, un pregiudizio nei riguardi di tutta la popolazione siciliana, da cui discen­dono la denigrazione, la diffidenza, l'irrisione... È ingiusto, dicono costoro, che una banda di rapinatori sia considerata una semplice banda di rapinatori a Milano o a Marsiglia o a Londra e invece una "cosca mafiosa" a Palermo... Bisogna dunque, dicono questi di­fensori del buon nome della Sicilia, togliere la parola alla cosa, guardare alla cosa per come si presenta nei limiti dell'esecuzione, al fatto criminale in sé. Ma la parola mafia è stata ap­plicata alla cosa, o la cosa ha preso quel no­me, in forza di una distinzione qualitativa che i fatti criminali assumono in Sicilia rispetto a quelli di altre regioni, di altri paesi».

Questa è la verità, scriveva. Perciò è giusto dire "mafia" alla mafia. Se vogliamo capire. E provvedere.
Grande, scomodo Sciascia.

 

 

Questo scritto è stato pubblicato in “70 gli anni in cui il futuro è cominciato” n.3/1972. 
In edicola con Liberazione del 22 febbraio 2007.