www.firenzeprimumvivere.wordpress.com

Da : “Inchiesta operaia e lavoro di riproduzione”
di Alisa Del Re - 30 giugno 2013 -




Dalla metà degli anni ’80 si è avuta una macroscopica ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale. È stata probabilmente una risposta al movimento femminista, che ha espresso il rifiuto del lavoro domestico da parte di molte donne, con un loro ingresso massiccio nell’area del lavoro salariato. Fa eccezione l’Europa dell’Est, dove lo smantellamento del socialismo reale ha provocato invece un aumento della disoccupazione femminile, a malapena compensata dai processi migratori di cui le donne sono state protagoniste in questi anni.
Oggi il processo di salarizzazione è in atto, ma in termini diversi da quelli ipotizzati e più complessi. Oggi in moltissimi casi abbiamo due donne, due lavori, ma un solo salario da condividere. La cura delle persone dipendenti si paga, i servizi costano. D’altronde perché il sistema funzioni bisogna da un lato che l’immissione di nuova FL nel mercato sia competitiva (e le donne con il gender pay gap sono i soggetti ideali) dall’altro che chi sostituisce parte del lavoro gratuito erogato precedentemente nella riproduzione delle persone sia disposto a lavorare con un salario inferiore ai prezzi di mercato di altri lavori analoghi (lavoro nero, immigrati più o meno regolari, lavoro nei servizi pagato meno di altri lavori).
Inoltre nel mercato generale del lavoro l’emergere di forme contrattuali atipiche, l’aumento del part-time o delle assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio (necessità?) di molte donne di conciliare maternità, cura e lavoro salariato.

Il secondo punto è la femminilizzazione del lavoro salariato. Evidentemente, se tutta la struttura sociale, se tutte le relazioni, se tutte le possibilità di socializzazione sono basate sul lavoro di riproduzione delle persone con le sue qualità intrinseche, è necessario che ce ne facciamo una ragione e che ne imponiamo la rilevanza. Le donne sono l’elemento centrale a cui viene richiesto questo tipo di lavoro di riproduzione, in tutte le sue forme, gratuito o salariato.
La domanda è: per le loro qualità connaturate? Non credo proprio. Sicuramente c’è un addestramento, spesso dovuto a condizioni di dipendenza economica o di subordinazione sociale che permettono di sviluppare la sindrome dello schiavo, che consiste nell’elevata sensibilità ai bisogni del padrone, attenzione e cura, capacità di rispondere con affetto e devozione. Quando da questo dipende la propria sopravvivenza, è chiaro che il coinvolgimento è totale.
Quando si accudiscono famigliari o si lavora in settori come quello della cura si presume che gli individui manifestino una serie di comportamenti, motivazioni e competenze speciali; l’atteggiamento che ci si aspetta è quello della protezione, della cooperazione, dell’emotività e dell’altruismo. Se c’è un’aspettativa sociale, spesso si risponde a questa.
Si dà per scontato che si debba emanare affetto ed empatia. Quindi, da un lato c’è una condizione soggettiva che ci obbliga a essere empatici e attenti ai bisogni altrui, dall’altro c’è una convenzione sociale per cui ci si aspettano determinati atteggiamenti da alcuni soggetti specifici. In breve, queste qualità che chiamiamo femminili, così generalizzate tra le donne o almeno che ci si attende appartengano alle donne, forse non sono innate, forse non appartengono esclusivamente alle donne, forse sono frutto della loro collocazione sociale e dei ruoli loro imposti storicamente.
Ma queste qualità “femminili” oggi sono richieste a largo raggio nel mercato, perché la società è diventata una società di servizi, la produzione di merci si è rarefatta, richiedendo sempre di più competenze che esulano dalla forza fisica e dalla rigidità degli atti ripetitivi.
Come dice Kathi Weeks nell’intervista fatta da Anna Curcio su UniNomade1, “in fabbrica esisteva una disciplina. I lavoratori erano accuratamente diretti e controllati e quindi non era un problema se non si identificavano con il lavoro. Ma nel lavoro di cura, nel commercio o nei servizi e in tutte quelle altre forme di lavoro che costellano l’universo postfordista non c’è un analogo modello di controllo e monitoraggio”. La richiesta dell’immissione qualitativa di fattori emotivi e socializzanti, motivazionali ed affettivi risponde all’esigenza di controllo sul lavoro e sulla produttività altrimenti di difficile realizzazione. Sono caratteristiche, vorrei sottolinearlo, che non sono contrattualizzabili (come si fa a mettere in un contratto l’attenzione, la sensibilità, l’interesse?) e che implicano la necessità di una individualizzazione del rapporto di lavoro (questa esigenza la si ritrova nella richiesta diffusa da parte dei sindacati padronali di passaggio da una contrattazione nazionale ad una contrattazione aziendale, per non dire individuale).

In ogni caso il processo di “femminilizzazione del lavoro” richiede a tutti i lavoratori/trici queste qualità che diventano “costitutive” del lavoro in una società della conoscenza e della “relazione”.

Una delle caratteristiche, che però voglio sottolineare, della femminilizzazione del lavoro, oltre alla richiesta di attitudini empatiche, è la modificazione dell’uso del tempo. Il tempo da lineare diventa processuale, cioè vi entrano più cose contemporaneamente senza gerarchie.
Chi si occupa di riproduzione delle persone è abituato a trasferirsi da un tempo all’altro della vita quotidiana, una madre lo sa. Vi sono infatti tempi diversi nella cura, alcuni comprimibili, altri che si possono spostare, altri ancora che non hanno possibilità di dilazione.
Salta la dicotomia tra tempo pubblico e tempo privato, tra il tempo del corpo e i tempi sociali, in un’urgenza – come dice Carmen Leccardi2 – “capace di erodere le possibilità di controllo da parte degli individui costretti a misurarsi con un tratto epocale di incertezza e di ingovernabilità del futuro”. Le donne sono addestrate a questi tempi non lineari, su piani diversi. Ora vengono trasferiti all’addestramento di tutti i lavoratori.

 

Alcune considerazioni

Se la riproduzione delle persone è un settore fondante della vita, l’analisi delle sue componenti – cioè l’inchiesta – è complessa, perché lavoro e piacere si intersecano e si sovrappongono, come servizi e amore, affetto e fatica. Le persone addette alla riproduzione svolgono ruoli altrettanto complessi, coinvolgenti e dotati di grandi ambiguità rispetto a possibilità di cambiamento.
La grande domanda a cui io non so rispondere è: della riproduzione dell’individuo cosa possiamo mettere in comune, cosa possiamo socializzare, e cosa resta di privato, di intimo, di non delegabile al lavoro salariato o a forme innovative di cooperazione?
Nella società della conoscenza possiamo pensare di rimettere al centro del nostro orizzonte i bisogni degli individui, della carne e dei sentimenti? Non si tratta di mortificare l’ingegno a favore del corpo e degli affetti, si tratta di riconoscerne laicamente l’indissolubilità e di costituire una funzionalità diversa: non la carne, il corpo, la vita, il benessere in funzione dell’ingegno (produzione, invenzione, conoscenza), ma esattamente l’inverso.
L’obiettivo politico ed etico dovrebbe essere la responsabilità verso la buona vita per ciascuno, con tempi di vita che abbiano un riconoscimento sociale. Io direi che cercare di risolvere questo problema ci pone di fronte a una scelta obbligata, che rivoluziona l’orizzonte del rapporto produzione-riproduzione capovolgendone le priorità: riproduzione delle persone come senso prioritario da dare all’attività umana. La ricerca della buona vita (mi piace evocare la “buona vita”, citata in alcune costituzioni dell’America del Sud, molto di più della felicità, perché la buona vita ha dentro di sé la riproduzione) richiede non solo un reddito di cittadinanza (una ridistribuzione della ricchezza prodotta che soddisfi i bisogni della vita), ma anche cooperazione sociale per la riproduzione, per il lavoro elementare, una progettualità per inventare forme di convivenza accettabili al di fuori e contro i tempi e gli spazi del lavoro salariato, costruendo nuove forme di relazione e di socializzazione. Per elaborare un qualsiasi progetto in merito bisogna smetterla di pensare a un soggetto astratto e perfettamente autonomo.
Questo implicherebbe un paradosso, che diventa evidente nelle situazioni in cui i rapporti di dipendenza, di affetto e di autorità sono leggibili solo assumendo la parzialità e la concretezza del punto di vista che ci fa riconoscere relazioni complesse in rapporto ai bisogni e alla loro soddisfazione. Penso al rapporto madre-figlio, infermiera-paziente, ecc.: qui l’autonomia dell’individuo crolla completamente, c’è autorità, c’è riproduzione, c’è dipendenza, c’è bisogno. Infatti non è solo questione dei rivendicare dei diritti, ma anche di riconoscere dei bisogni. Il diritto tende a negare che siamo tutti reciprocamente dipendenti da qualcuno e accentua la dipendenza di persone che sono diverse, perché il riferimento principale è l’individuo autonomo. Infatti, noi assistiamo al paradosso di politiche del lavoro, sociali e famigliari che operano con una concezione dell’individuo indipendente, cioè di colui che opera sul mercato del lavoro libero da impegni famigliari. In realtà, la possibilità stessa di questo individuo di agire sul mercato (mi ricollego qui a quello che ho detto all’inizio) dipende dal lavoro di cura, dal lavoro riproduttivo di qualcuna che, viceversa, è concepita come dipendente, sovente dal salario altrui.

Diversamente dalle teoriche del dono3, non mi pare possibile tornare a valorizzare la gratuità dello scambio. E nemmeno valorizzare a mezzo denaro quelle attività misconosciute che vengono messe sotto il termine “cura”. La posta in gioco non è nemmeno quella di trovare misure di inclusione, di considerare le donne come uno specifico: si tratta invece di prendere in considerazione le caratteristiche della vita e della memoria storica di donne, per produrre un’idea di società per intero, a partire dalla loro posizione strategica e dalla complessità di questa loro vita.
L’inchiesta operaia prevedeva il contatto e la conoscenza con i soggetti della produzione per la costruzione di un progetto politico e organizzativo.
Oggi le donne dimostrano che un altro mondo è possibile, senza che si passi per la necessità di una costruzione della conoscenza dei rapporti di sfruttamento: tutto è evidente, basta volerlo vedere, basta il “partire da sé”.
Secondo Alain Touraine “Le donne sono, per così dire, avvantaggiate perché oggi fare politica significa riconciliare pubblico e privato. Le rivendicazioni femminili sono globali, hanno un discorso inclusivo.”4

 

NOTE

1 “La riproduzione del possibile. Oltre il lavoro, oltre la famiglia” intervista di Anna Curcio a Kathi Weeks in http://www.uninomade.org

2 Leccardi C. (2009) Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell'accelerazione, Roma, Laterza, p. 8.

3 Per tutte: Vaughan G. (1997) For Giving. A Feminist Criticism of Exchange, Austin, Plain View Press.

4 Cfr. la Repubblica 30 luglio 2012, p. 21.

 

Suggerimenti di lettura

 

29-10-2014

 

home