Corpi non cavie: le donne dicono no
di Elena Del Grosso


Debora Hirsch


Si parla molto di scienza in questi ultimi tempi. Probabilmente la campagna referendaria sulla legge 40 ha dato un'accelerazione a questo desiderio di conoscenza scientifica che al di là di tutto rappresenta un non trascurabile momento di crescita collettiva.

Tra i quattro quesiti referendari quello che sicuramente la gente ha trovato più difficile nel dare una risposta era quello riguardante la libertà della ricerca scientifica. Non è argomento di cui la gente ha mai avuto esperienza. I mezzi di divulgazione di massa facevano a gara per reperire "gli esperti" e le esperte (poche) in grado di fornire quegli elementi di chiarezza utili per colmare questo vuoto. La gente ha risposto seguendo le gerarchie vaticane.

Si è dimostrato che: a) l'informazione scientifica è una condizione necessaria ma non sufficiente per una reale partecipazione democratica alla scienza; b) c'è una dimensione etica che la società chiede alla scienza; c) ai fattori esterni che vincolano la libertà di ricerca scientifica, storicamente rappresentati dal potere politico economico militare, dobbiamo aggiungere quello delle religioni e relative chiese.

Su quest'ultimo punto molti uomini e soprattutto le donne, di scienza e non solo, non erano impreparati.

Negli anni '70 scienziati, epistemologi e storici della scienza evidenziavano come la ricerca scientifica risentisse del contesto sociale e come il progresso della scienza fosse legato alle trasformazioni produttive.

La riflessione femminista sulla scienza, nel dipanare l'intreccio delle influenze tra norme culturali metafore e sviluppo tecnico, metteva in evidenza come e perché, dove e quando i valori del patriarcato avevano conformato lo sviluppo della scienza moderna. Allo stesso modo intravedevano con le nuove biotecnologie la possibilità che, con politiche pubbliche regressive, potessero minacciare attraverso forme di manipolazione, di descrizione e di controllo dei corpi non solo la sopravvivenza dell'umanità intera, ma anche di produrre nell'immediato nuove forme di stigmatizzazioni e discriminazioni sociali come quelle genetiche.

Mai come oggi siamo di fronte ad un pensiero unico dominante: in nome dell'intoccabilità del mito del progresso la scelta tecnologica sembra l'unica possibile. La scienza entra nelle nostre case e costruisce un senso comune che alimenta sostiene ed amplifica una visione dogmatica della scienza ed una credenza fideistica nella sua capacità di innovazione e di progresso. Non solo. Le biotecnologie al pari delle tecnologie informatiche vengono presentate - e lo sono - come i settori di punta della nuova economia di mercato. Non a caso i paesi asiatici emergenti vi hanno posto le basi della loro crescita economica.

La retorica che circonda le biotecnologie in linea con una visione liberistica, in cui la scelta e la responsabilità individuale assumono un ruolo centrale, punta a costruire un'immagine di sé, del proprio corpo, manipolabile a proprio piacimento e in maniera illimitata. Nelle nostre società opulente, il nuovo feticcio, il Santo Graal, è il gene. Ed il suo costituente principale, il DNA, diventa la sostanza miracolosa in grado di determinare tutto di noi: bellezza salute sentimenti comportamenti ma anche ricchezza e povertà. E se alle possibilità aperte dalla manipolazione genetica aggiungiamo quelle della medicina rigenerativa, il sogno di Dorian Gray dell'eterna giovinezza, dell'elisir di lunga vita entra nell'immaginario collettivo. Robert Sinsheimer uno degli organizzatori del progetto Genoma umano nel giustificare le forti risorse finanziarie che un tale tipo di ricerca richiedeva ebbe a dire che «la conoscenza del Genoma Umano ci avrebbe detto chi siamo noi» e che «il destino ora ha un nome (DNA) ed è nelle nostre mani».

"Non si gioca a fare Dio" è la risposta che il potere religioso ed i nuovi teo-con politici gli hanno dato, anche e soprattutto in Italia. Durante la campagna referendaria quelle di noi che, come donne, da anni ragionano in maniera critica sulla scienza e sulle sue ricadute sul sociale, si sono dovute reprimere molto nel difendere a tutto campo la ricerca delle cellule staminali embrionali, in nome della libertà di ricerca scientifica. Sappiamo bene che su questi tipi di ricerca si stanno giocando brevetti e privatizzazione di saperi da parte anche dei diversi potentati economici che lavorano in Italia, di cui il San Raffaele di Milano è parte in causa.

I ragionamenti che da anni andiamo facendo sulla manipolazione della vita in generale e nello specifico sulle biopolitiche che attraversano, tagliano e ridisegnano i nostri corpi, non sono stati dimenticati durante la campagna referendaria. Sono però stati messi momentaneamente da parte in nome di una minaccia proveniente direttamente dalle gerarchie vaticane, che mettevano e mettono in discussione anche e soprattutto le conquiste delle donne negli ultimi trent'anni. Prima fra tutte il diritto all'autodeterminazione in tema di maternità e aborto.

Quando si parla di libertà di ricerca scientifica è ovvio che il pensiero va ad una libertà piena e assoluta. Come le lettere e le arti, la scienza deve essere libera di esprimersi senza condizionamenti o vincoli di alcun tipo. La nostra Costituzione sancisce tale libertà. In realtà quando si parla di ricerca scientifica la questione della sua libertà è molto più complessa.

L'appiattimento della biologia - come studio sistematico dei viventi, nel loro essere e divenire - sulle biotecnologie, indipendentemente dalle differenze di velocità che c'è tra produzione di conoscenza e quella di tecnologia, provoca una riduzione dei livelli di conoscenza e quindi grandi pattern di ignoranza. E questo potrebbe avere un grande impatto sia sulla salute di ciascuno di noi sia sull'ambiente.

"Si manipola la vita senza conoscerla": lo hanno detto in molti. La conferenza di Asilomar nel 1975 rispondeva a questa esigenza. Conoscenza e ignoranza possono determinare sviluppo e sottosviluppo, ricchezza e povertà, sfruttamento delle risorse e dei saperi, biopirateria e privatizzazione dei saperi, perdita di cittadinanza.

Le politiche di ricerca scientifica di questi ultimi anni, sia pubbliche che private, vanno nella direzione della scelta tecnologica. Basti guardare negli ultimi Programmi quadro della Comunità europea per rendersi conto dello slittamento continuo di enormi risorse economiche e umane dalla ricerca di base e pubblica verso il settore applicativo di tipo privatistico industriale.

La ricerca scientifica non è sacra ed intoccabile. A partire dalle incrinature che si sono aperte tra scienza e società, dopo i vari disastri ambientali che mettono a rischio la vita sul pianeta, le donne chiedono alla scienza di ripensare se stessa. Chiedono di pensare se ancora vuole essere bene comune e patrimonio dell'umanità o bene privato da scambiare.

Partire dalla vita della gente, dal quotidiano è quello che le donne chiedono per colmare la distanza che c'è tra l'esperienza reale e gli schemi concettuali dominanti. La solidarietà è un valore che permette di superare i confini posti dalle specifiche appartenenze o identità. Quello che le donne soprattutto chiedono è di rendere democratico e partecipativo il processo di produzione del sapere scientifico. Il rischio altrimenti è che le grandi religioni, compresa quella del mercato, rimangano da sole a decidere e a determinare esplicitamente o implicitamente il "frame" della conoscenza scientifica intorno alla natura, alla società nel suo insieme di menti e di corpi.
 

questo articolo è apparso su Liberazione del 4 settembre 2005