Donne insieme per un mondo altro

di Eleonora Cirant


 


Paola Gandolfi

 



L'assemblea, che si è svolta sabato 17 e domenica 18 maggio alla Casa del popolo di Ponte a Greve, Firenze, è stata una tappa nel percorso verso la giornata femminista entro il Social forum europeo che si terrà in novembre a Parigi; lo scopo di questo primo incontro, a cui hanno partecipato circa 200-250 donne, era avviare un processo di conoscenza reciproca, di messa a fuoco di obiettivi, di elaborazione collettiva di contenuti e strategie.
Le giornate si sono articolate secondo questo programma: sabato mattina, relazioni introduttive in assemblea plenaria; sabato pomeriggio, gruppi tematici/workshop (Pace e guerra - Lavoro domestico e di cura, migrazioni e crisi del welfare - Istruzione, lavoro, precarietà - I razzismi nella società della disuguaglianza - Corpo - Ambiente - Danzaterapia); domenica mattina, restituzione dei gruppi all'assemblea plenaria.

Nell'ambito di questa due-giorni, una trentina di donne tra i 20 e i 30 anni circa si sono riunite in più riprese, dando vita al progetto di costituire - da qui a Parigi - una rete che abbia come filo conduttore la condizione di precarietà delle giovani donne, nel lavoro e più in generale nei diversi aspetti della vita. La proposta viene da una rete di collettivi (La mela di Eva, Mafalda, Matrio-ska, Le Api) di giovani donne, nati nel contesto dei Giovani comunisti nei mesi precedenti o seguenti Genova 2001. Aderiscono al progetto altri gruppi (Sconvegno, Nextgenderation) e singole donne.
Non a caso la maggioranza delle donne che hanno aderito alla proposta di rete giovanile hanno partecipato anche al gruppo tematico su lavoro-istruzione-precarietà, uno dei gruppi più consistenti per presenza numerica.
Nel corso di tale gruppo tematico si delineano i tratti del volto femminile del lavoro atipico, si propongono strumenti di elaborazione, si affronta la questione del referendum sull'articolo 18; a più riprese ci si inceppa e ci si fraintende sul linguaggio e sui concetti: è comprensibile, data la magmaticità e la complessità del tema; la fase di trasformazione che stiamo vivendo nei rapporti di produzione-riproduzione, rende ancora più scivoloso e problematico l'uso dei termini e delle categorie.

Raffaella (Mela di Eva) delinea gli aspetti della discriminazione di genere insita nel precariato: le atipiche guadagnano meno degli atipici; sono precarie per tutto l'arco della vita lavorativa, mentre i maschi lo sono solo per la fase di ingresso nel mondo lavorativo; le atipiche, a differenza degli atipici, fanno il doppio lavoro (produttivo e riproduttivo), chiedono più dei maschi il part-time, mentre i servizi sociali destinati alla cura vanno scomparendo.
Se il panorama del mercato del lavoro precario è desolante, è ancora più deprimente ascoltare le compagne sindacaliste: Cristina (Cub) racconta di come sia difficile agire la questione di genere dentro il sindacato, e riflette: "sulla produzione le donne lasciano la parola all'uomo, proprio perché la vivono come un riempitivo rispetto al tempo della riproduzione". Silvia (Sincobas) conferma: "spesso gli uomini esercitano un corporativismo di genere (ad esempio quando nei contratti ripartiscono le ore di cassintegrazione scaricandole tutte sulle donne, che tanto fanno riferimento allo stipendio del marito)". E Caterina (Coord. donne CGIL-NIDIL ) rincara la dose: "E' un momento di grande debolezza delle donne nel sindacato, collegato alla debolezza del movimento delle donne"; manca la presenza di donne giovani, perché allearsi con altre donne rimanda loro un'immagine di debolezza, anziché di forza, anche se sposarsi o rimare incinte provoca l'esclusione dal mercato del lavoro (stiamo tornando agli anni '50); anche se si registra un aumento delle molestie sessuali sul lavoro, anche se i differenziali retributivi sono altissimi (le donne guadagnano quasi la metà degli uomini).
Cielo fosco e tempestoso anche per quanto riguarda istruzione - università; Cristina (Rete NextGenderAtion ) pone in primo piano il problema della mancanza di conflitto e perdita di pressione politica nel contesto studentesco, che si è indebolito ma è anche stato oggetto di cambiamenti strutturali; la Dichiarazione di Bologna, sottoscritta da tutti i ministri dell'educazione europei, sta plasmando la politica universitaria su tre assi: l'autonomia dai finanziamenti pubblici, la necessità di stare dentro le logiche di mercato, la competitività tra istituti misurata in capacità di attrarre studenti; c'è un altro punto, l'interscambiabilità dei titoli nei paesi europei, che potrebbe essere a nostro vantaggio, ma discrimina pesantemente i cittadini e le cittadine che vivono e lavorano in Europa senza avere riconosciuto il proprio titolo di studio. Anche gli studi di genere rispondono alle esigenze di mercato (vedi la competizione fra le ricercatrici per accaparrarsi i fondi), e spesso sono gli uomini che creano nicchie di mercato per studentesse con "gusti particolari". In ogni caso, secondo Cristina la strategia per incidere non può essere agita solo in ambito di movimento, ma anche dentro le istituzioni, per poterne ottenere il massimo numero di informazioni, e in modo trasversale
Alidina (Cobas scuola) riprende l'analisi di Cristina per allargarla a tutto il sistema della formazione, dicendo in modo netto che il progetto del governo è di dividere il Paese in due classi sociali. Questo anche grazie al bombardamento ideologico al quale sono sottoposte le famiglie, secondo cui non si trova lavoro perché la scuola non forma abbastanza… al contrario: è proprio la conoscenza che porta ad una maggiore richiesta di diritti!
Sul piano delle strategie, le ragazze del collettivo Mafalda rivendicano come punto fermo il diritto al salario sociale per le/gli studenti, Le api temono che inserendosi nei meccanismi istituzionali in qualche modo li si legittimi, intendono la propria azione come "il mettere la sabbia negli ingranaggi, non adattandosi alle piccole nicchie", e insistono sulla precarietà come specificità delle giovani donne: perché tale condizione investe tutti gli aspetti della vita, e per il fatto che l'unica condizione lavorativa sperimentata è quella precaria. Il gruppo Sconvegno descrive il proprio percorso di autoinchiesta sul tema del lavoro, e come sia sfociato in un progetto di inchiesta politica, attraverso cui, da un lato, entrare in contatto con altri gruppi/singole impegnate nella ricerca di cambiamento, dall'altro affrontare la complessità in modo critico e senza dare per scontato nulla; il gruppo diffonde un questionario per sondare condizioni e contraddizioni, autopercezioni e formazione dell'identità lavorativa, strategie di resistenza al sistema (individuali o collettive o entrambe).

Nel corso del workshop l'attenzione è alta, l'ascolto attento, eppure non mancano, come dicevo, gli scivoloni semantici: slittamenti che evidenziano la mancanza di un uso condiviso dei significati che hanno a che fare con l'identità e la percezione delle soggettività al lavoro.
Lidia (Marcia mondiale delle donne) tocca il tema delle strategie di sopravvivenza: quelle individuali spesso vanno nel senso opposto di quelle collettive, e il problema è proprio costruire strategie che da un lato condividano strumenti collettivi (es. il sindacato) e dall'altro una riflessione che si muova sullo specifico del genere; la proposta, in vista del percorso verso Parigi, è di costituire un workshop sulle strategie.
Chiara (Sconvegno) sollecita una riflessione sulla perdita di tutti i confini netti (tra tempi/modi/luoghi) e lancia un paio di provocazioni: ci definiamo precarie o flessibili? Il lavoro di produzione e quello di riproduzione li viviamo come ambiti separati? L'ipotesi in questo caso è che nei due termini (flessibilità e precarietà) si manifestino diversi immaginari, e diverse modalità di percepire il proprio ruolo lavorativo; la proposta è di indagare queste percezioni e questi ruoli, destrutturare le categorie e capire quali margini di ambivalenza ci siano nel nostro rapporto con le trasformazioni del lavoro.
Sulla proposta di ragionamento tra flessibilità e precarietà si apre uno scambio di opinioni, e qui forse emergono più chiaramente le differenze nell'uso dei termini e nella percezione del loro significato. Per Nadia (Marcia mondiale) è pericoloso confondere i due livelli, quello della realtà e dell'immaginario; il primo è quello in cui i padroni usano in piena libertà la forza lavoro, la quale non ha alcun margine di agire a proprio vantaggio la flessibilità; il secondo è la realtà come la vorremmo, cioè una flessibilità non imposta; eppure nel corso del ragionamento Nadia nota che è importante indagare come si costruiscano soggettivamente le identità lavorative nella percezione individuale, e come questa coscienza di sé influisca nelle condizioni in cui si lavora, avvicinandosi in questo modo all'ambivalenza di cui parlava Chiara.
Martina (Le Api) non vede contrapposizione tra flessibilità e precarietà, dato che una flessibilità buona non esiste. Piuttosto, sarebbe bello se si potesse parlare di un soggetto precario unico - per condivisione di un vissuto, un tipo di condizione, una consapevolezza - ma che all'interno preveda le differenze (ad esempio, italiane e migranti condividono la condizione di precarietà ma non quella di cittadinanza). Barbara (Mafalda) ritiene che sia centrale partire dalla complessità ("se chiediamo ad uno studente precario se vuole che il suo lavoro diventi a tempo indeterminato, ci dirà di no"), tenendo conto di un processo di precarizzazione che investe tutti i diritti, nel quale il rapporto di lavoro prende la forma del ricatto.
Linda (Forum donne PRC Roma), che condivide la necessità di ridefinire termini e categorie, segnala che le giovani operatrici di un call center, rispondendo ad un'inchiesta, non definivano se stesse lavoratrici, e propone l'ipotesi di uno scarto esistente tra un modello di lavoro tramandato alla sua generazione (fra i 30 e i 40), e un mondo del lavoro che nella realtà completamente diverso; nell'impatto tra il modello e la realtà non abbiamo strumenti sufficienti: l'ipotesi contiene la necessità di andare oltre un certo modello lavorista (caro alla sinistra) - per il quale cittadino e lavoratore coincidono - da mettere in discussione se non vogliamo trovarci in una lotta anacronistica con un modello di capitalismo in via di estinzione.
Angela, (Fiom, Piaggio) rivendica il lavoro come dignità e distingue in "lavoro buono" - a tempo indeterminato - da quello non buono - precario - mentre Angelina (CGIL) sottolinea che il mercato del lavoro è diventato strutturalmente flessibile, e che nella cultura non esiste più la categoria di lavoro salariato.
Per quanto riguarda il referendum, l'indicazione delle partecipanti al workshop è netta: votare sì. Nella mattinata di domenica, quando il gruppo di lavoro si è riunito per discutere la relazione riassuntiva da presentare in plenaria, è stato proposto un documento, elaborato in precedenza da alcuni dei collettivi presenti, proprio sull'articolo 18.
Potete leggerlo sul sito womenews.net, sul quale trovate anche le relazioni riassuntive dei gruppi di lavoro, i materiali diffusi prima dell'evento, i dati per iscriversi alla lista di discussione.
La prossima tappa del percorso che si è avviato a Firenze, sarà a Genova, nelle date del 19-21 luglio, in occasione della mobilitazione per le giornate di Genova 2001.

Questo articolo è stato pubblicato su Delt@, Anno I, n. 88 del 28 maggio 2003.
"Donne insieme per un mondo altro" è il nome che si è data l'assemblea nazionale convocata e sottoscritta da un lungo elenco di collettivi, gruppi, associazioni, di cui Delt@ ha dato notizia nei giorni scorsi.
Per completezza d'informazione si puo' consultare il portale indymedia che offre una cronaca articolata dell'assemblea e un bel reportage fotografico .