LABORATORI DI DEMOCRAZIA E QUESTIONI DI RAPPRESENTANZA

di Paola Melchiori

 
Milano, 14 gennaio 2006

Se vogliamo rendere stabile la determinazione espressa nell’organizzare “il 14 gennaio”, in vista di una ripresa di parola pubblica del femminismo e della continuità che tutte auspichiamo, dobbiamo anche affrontare qualche nodo dolente, oltre che gioire del ritrovato spirito degli anni settanta. Come possiamo usare oggi quello “spirito”?

In questo senso mi pare utile guardare al 14 gennaio non tanto rispetto ai contenuti, già ampiamente discussi, ma come a un modello politico organizzativo. Si tratta, infatti, di un esperimento, riuscito, di collaborazione e sinergia tra “movimento” più o meno sommerso, e due “istituzioni “ cruciali come i media e un sindacato. Lo sforzo congiunto di diverse componenti ha saputo, sulla base di amicizia e stima personale, sia usare una forza istituzionale sia tenere insieme attorno a un punto comune tanti approcci potenzialmente conflittuali e contradditori.

Mi sono trovata a ricordare l’esperienza dei Caucus delle donne, straordinari laboratori di invenzione di democrazia, che hanno accompagnato tutte le Conferenze ONU degli anni 80/90.  Si trattava di spazi molto conflittuali, (basti pensare alle differenze, di potere e collocazione Nord-Sud, in un movimento davvero internazionale) ma capaci di sostenere contemporaneamente trattative, lobby di delegazioni ufficiali, azioni fulminee di “disturbo”, mediazioni impensabili, parziali, precarie, ma efficaci, forme di rappresentanza e contrattazione, rapporti coi media, nonché un serrato, mai pacificato e straordinariamente ricco e profondo confronto interno.

Come, appunto, il 14 gennaio.

Certo, siamo contente, ma anche preoccupate. Quante volte abbiamo visto in piazza masse che fanno dell’Italia un caso internazionale, con numeri che nessun altro paese al mondo può neppure sognare. Esse sono state spesso non solo tranquillamente ignorate dai vari poteri, ma anche rapidamente fatte rifluire in un sociale, certo diffuso, ma anche sommerso. Vi hanno contribuito una combinazione di ostilità delle forze organizzate, incapacità di gestire le differenze interne,  difficoltà di inventarsi una modalità di rappresentanza capace di esprimere le nuove forme di democrazia cui molti di questi movimenti sono alla ricerca.

E’ questa una questione che si pone anche per noi, si ripone anzi, e differentemente dagli anni ’70, quando pensavamo di poter fare a meno di un riflesso istituzionale della nostra politica, affidandoci completamente alla forza del movimento e alla nostra autonomia di pensiero e di organizzazione. Sottovalutavamo, come sappiamo più o meno amaramente oggi, che spazio pubblico è spazio mediatico, ma anche presa di decisione pesante sulla regolamentazione dei contesti in cui viviamo. Non possiamo perciò evitare, oggi, la questione del come tenere insieme o far giocare positivamente e non autodistruttivamente le nostre differenze, né la questione delle forme di rappresentanza.  Non illudiamoci. Da destra o da sinistra, non c’è nessuna intenzione di aprire al femminismo lo spazio pubblico. Il patriarcato, per usare una reminiscenza di Bourdieu degli anni 70, tiene saldamente le istituzioni della sua auto-riproduzione. Basta guardare la patetica vicenda delle quote rosa da un lato, la lezione di quel luogo di “estrema sinistra” che sono i Social Forum, dove gli spazi sono contrattati al coltello, o i resoconti dei media di questi giorni sulla presenza delle donne a Bamako: canti, balli, treccine, alcune invenzioni micro-sociali. I dibattiti aperti da e su Liberazione sono davvero una rara eccezione, anche se, non so quanto significativamente, non riguardano da vicino questo tema. 

Continuare o riprendere i fili degli anni 70, significa lavorare su quel modello che ha funzionato “spontaneamente” per la manifestazione.  Riprendere le pratiche di invenzione democratica, centrate sulle differenze, inventate da quel movimento, giocarle nella rappresentanza e nello spazio pubblico. Lasciamo la pateticità delle quote rosa al loro destino o usiamole completamente dentro un progetto più ampio, che serva ad articolare un‘analisi e delle proposte sulle questioni fondamentali dove oggi il patriarcato si attesta. Altrimenti la tendenza a riempire lo spazio pubblico di donne, possibilmente di destra, confonderà ulteriormente la situazione.

Perché non dovrebbe essere possibile formare dei gruppi di lavoro attorno a poche essenziali questioni, (autodeterminazione dei soggetti femminili; il lavoro, dal precariato al sommerso del lavoro di cura; insicurezza e militarizzazione delle menti e dei corpi nel libero mercato, tanto per tentarne alcuni) da portare come base per un programma e un patto elettorale di movimento?

Non si tratta di reinventare tutto da zero, molte analisi sono già abbozzate. Bisogna però avere il coraggio di rischiare su una serie di questioni.

Uno. Il patriarcato come asse fondante di lettura. Solo così possiamo rendere completa l’analisi della globalizzazione, evidenziare i nessi che legano la mascolinità messa in questione alle nuove forme di guerra, capire l’attacco delle istituzioni religiose e fondamentaliste contro le donne nel contesto del liberismo economico, etc.

Due. Identificare quei temi in grado di unire le nostre differenze, ad esempio trovare nessi comuni e non solo contrapposizioni tra un’analisi della normatività eterosessuale-familiare e le analisi proposte dai gruppi lesbici.

Infine, è importante identificare con chiarezza le persone disposte a portare avanti questi temi anche in uno spazio pubblico istituzionale, con un qualche patto esplicito e continuativo. Coloro che rispondono un patto di questo genere sarebbero vincolate nel bene e nel male ad una "accountability", che le renderebbe meno libere, ma anche le toglierebbe dalla solitudine in cui piombano appena elette. Potrebbero sperimentare qualche forma di collaborazione organizzata tra varie posizioni, un barlume di rappresentanza condivisa, rafforzarsi contro i molti ostacoli già sperimentati, come la salda presa dei partiti sulle proprie elette (di iniziative politiche trasversali ai partiti ne abbiamo viste ben poche in questi anni); affrontare la ferocia dello spazio pubblico con le donne che propongono davvero una prospettiva diversa. Sappiamo che appena si supera il limite invisibile che colloca le donne in quel recinto di minoranza che raccoglie insieme donne –bambini- handicappati, esse sono fatte a pezzi sia dai media sia dai loro colleghi. Nei superegualitari paesi nordici dove le donne nello spazio pubblico sono quasi il mitico 50%, si insegna alle giovani appena elette come reggere le tecniche di soppressione cui andranno incontro, come sopportare la distruzione mediatica della vita personale, nonché l’ostilità dei colleghi di partito.

Questo significherebbe davvero riprendere il filo degli anni settanta e ripensare la democrazia alla luce di una politica delle differenze, a partire dalla differenza di sesso, politica estremamente attuale, appena iniziata, di cui mai abbiamo tratto tutte le potenzialità.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 31 gennaio 2006