FEMMINILE DEL DIVINO NELL’OPERA DI MOMOLINA MARCONI


a cura di Anna De Nardis


Il mio interesse per la figura di Momolina Marconi è nato e si è rafforzato con la lettura dei suoi scritti scoperti, a volte fortuitamente, a volte dopo lunghe ricerche, in varie tappe. Il motivo dell’incontro con la materia da lei trattata proveniva dalla mia ricerca, di carattere personale, sulle proprietà delle erbe officinali che, in una visione integrata della salute, non vengono separate dalle valenze simboliche e religiose che il loro uso ha avuto nella nostra cultura antica e che ancora oggi perdurano in certi riti tradizionali associati alle festività cattoliche. Il collegamento della maggior parte delle comuni piante medicinali con figure divine femminili mi ha portato ad approfondire il carattere sacro della rappresentazione della Natura, espresso in area mediterranea attraverso i culti della Grande Dea.

Leggere il saggio di M. Marconi dedicato a Kirke, la Signora polifarmakos per eccellenza, e successivamente ‘Il santuario di Hera alla foce del Sele’, in cui si fa una comparazione tra le piante sacre alla dea e il loro uso nella farmacopea antica, mi ha fatto percepire una dimensione viva e vitale proveniente dal nostro passato in cui la cura della vita biologica, la ritualità magica, la ricerca spirituale si intrecciano e si connettono e, soprattutto, possono essere dette e agite con modalità femminili.

La prima pubblicazione della Marconi, di cui ho notizia, risale al 1939, le ultime ai primi anni Novanta; gli spunti di riflessione e gli approfondimenti da lei offerti sono tanti e hanno stimolato in me il desiderio di conoscere la complessità della persona che ha scritto quelle pagine e la rete di rapporti, umani e culturali, in cui si è trovata inserita in un periodo caratterizzato da tanti e decisivi cambiamenti storici. Grazie ad una avventurosa ricerca, compiuta dalla dott.ssa Daniela Mazzoni, cultrice di rituali celtici, abbiamo potuto avere molti contatti con la studiosa ed un bell’incontro presso la residenza in cui vive: abbiamo conosciuto una figura dalla grande energia intellettuale che si pone con serenità e rispetto di fronte al suo essere donna; una persona di fede cattolica che sembra guardare alle diverse espressioni religiose con uguale deferenza, purché queste lascino rivelarsi la dimensione femminile.

Sarebbe stato bello ricostruire il percorso culturale e, perché no?, la sua storia umana, ma il riserbo da lei mostrato e una inspiegabile coltre di silenzio caduta su di lei rendono difficoltoso conoscere le vicende, le relazioni, la tensione emotiva che hanno caratterizzato la sua vita di studiosa.

Il rifiuto di raccontarsi è da lei stessa motivato dall’umiltà nei confronti del Maestro — maestro anche di umiltà — Uberto Pestalozza, a cui la cultura europea è debitrice di aver intuito il profondo significato della divinità femminile mediterranea — venerata già dal paleolitico superiore —, di averla dissotterrata dalle stratificazioni patriarcali della religione indoeuropea e di averla, attraverso un erudito lavoro filologico, riportata alla luce senza veli, così come la tradizione più antica l’aveva rappresentata. Ma la dedizione e l’umiltà della professoressa Marconi — dallo stesso Pestalozza chiamata sua ‘compagna di ricerca’ [1] — non giustificano la dimenticanza, nel mondo della cultura e da parte di certa editoria attenta a tematiche non convenzionali, di una personalità che, sia nelle manifestazioni personali, sia attraverso gli scritti, si presenta ricca e stimolante.

Per conoscere il lavoro della studiosa che, per molti aspetti, può essere accostata a J.E. Harrison e a M. Gimbutas, occorre cercare le sue pubblicazioni una ad una sugli annali delle riviste a cui ha collaborato durante la sua lunga attività. Probabilmente la sua collocazione nella cultura italiana ha risentito della collaborazione con Pestalozza, che fu rettore dell’università Statale di Milano negli ultimi anni del periodo fascista [2], o è dovuta ad altri fattori che si possono intuire ma non ci risultano del tutto chiari. Tuttavia ora che anche in Italia riemerge l’interesse per la religione della Dea, non può rimanere in ombra la ricerca di M. Marconi, che si fonda su una chiara autonomia di pensiero — pensiero di donna consapevolmente espresso in tutta la sua opera — e arricchisce di senso la conoscenza del femminile divino che vive nelle nostre radici culturali.

Quello che tenterò di fare, dunque, non è ricostruire l’attività intellettuale e di insegnamento della docente — né seguirò lo sviluppo cronologico delle sue pubblicazioni — ma un excursus attraverso i suoi scritti per mettere in luce la peculiarità della rielaborazione e della narrazione delle storie sacre da lei studiate e illustrare la molteplicità di aspetti della Potnia mediterranea che il suo sguardo di ricercatrice e di donna è riuscito a cogliere e la sua scrittura riesce a trasmetterci.

Lascio aperti i problemi di carattere storico che mi ha posto la lettura dei suoi testi: da una parte la difficoltà ad inquadrare i suoi presupposti culturali in rapporto alle istituzioni fasciste, dall’altra l’incapacità di comprendere la mancanza di attenzione, da parte di intellettuali — in particolare delle donne — che all’epoca si sarebbero definiti ‘democratici e progressisti’, alla sua percezione, chiara fin dagli anni cinquanta, del conflitto uomo—donna che è possibile leggere nella mitologia ellenica. Infatti, fin dalle prime pubblicazioni, si nota il rapporto di M. Marconi con l’ambiente culturale europeo nel suo complesso, con espliciti riferimenti ai lavori della Harrison — personalità anch’essa singolare e autonoma, citata spesso anche da Pestalozza —; inoltre sembrano avere un particolare significato le sottolineature del carattere pacifico delle migrazioni dei popoli nell’area mediterranea. A partire dagli anni cinquanta si fa esplicita nel suo lavoro la consapevolezza del conflitto culturale che nasce con l’arrivo delle ultime ondate di indoeuropei, i “barbari” dori, mentre già in precedenza era stata riesaminata la figura di Morgana la maga, che viene presentata come ultima espressione della Signora delle piante, circondata da una comunità di donne. Sono alcuni elementi che, ricondotti ai momenti storici in cui sono venuti alla luce, suscitano vari interrogativi e che si presentano oggi di particolare attualità.

 Lo studio da parte di M. Marconi della religione mediterranea attraverso l’analisi delle figure femminili tramandate dalla letteratura e dall’iconografia principalmente greche e latine prosegue, nei contenuti e nel metodo di ricerca, quello di Pestalozza: l’idea centrale comune è che “Gaia, le molte figure di dee che meglio la esprimono o magari appena in modo vago la riecheggiano e le stesse anonime donne cui non è dato sopravvivere che nell’eternità del femminino, tutte dicono — ciascuna con la propria vicenda, cioè secondo la propria parte — la sacertà della terra come l’hanno sentita i Mediterranei” [3]. Ma la sensibilità e la partecipazione con cui vengono analizzate le modalità del sentire il femminile nel divino — e quindi in se stesse— delle popolazioni pre-indoeuropee, diventano in certi passi vera e propria empatia con le figure divine, forse per inconsapevole identificazione con le “anonime donne” attraverso cui la Potnia si manifestava, così che, a tratti, la Dea riacquista nelle riflessioni della studiosa una vitalità tale da superare i limiti dello spazio e del tempo (cosa d’altro canto propria della dimensione mitica) e diventa sorgente di arricchimento spirituale e stimolo di trasformazione intellettuale anche per le donne del nostro tempo.

A questo proposito vorrei citare un passo di J.E. Harrison, ai cui scritti fanno spesso riferimento sia Pestalozza che M. Marconi, perché le sue parole possono chiarire il senso —credo comune ai tre studiosi— di leggere le esperienze sacre:

Sono arrivata a vedere nell’istinto religioso un nuovo valore. Si tratta forse del tentativo istintivo e inconscio di fare ciò che Bergson indica come meta cosciente della filosofia attraverso l’intero apparato di scienza che l’accompagna: apprendere la vita come una, indivisibile e tuttavia in perenne cambiamento e movimento. (...) Ma così come sento il valore dell’impulso religioso, altrettanto acutamente avverto il pericolo e il quasi ineluttabile esito di ogni credo e dogma. [4]

Se una chiave interpretativa si può cercare, senza però che diventi uno schema che sicuramente non rispecchierebbe il pensiero della studiosa, questa ce la offre il suo lavoro sulla Teogonia esiodea: Gaia è mostrata come archetipo divino (“Senza la parola evocatrice, senza il gesto creatore di un dio, fu il Chaos e poi fu Gaia”) [5]  nonché misura delle relazioni tra i sessi. Infatti “è nella Teogonia la rivelazione dell’ambiente ginecocratico mediterraneo, dove la donna — signora ma non regina — si vale non d’impero ma d’arte, non di scettro, ma di consiglio, non d’impulso ma di veggente intuito; lei che invoca giustizia ma non si macchia le mani di sangue, che fa le armi ma non la guerra, che guida come destino la violenza cieca dei maschi, che soprattutto esprime da sé la vita — prima ancora che l’amore — e la nutre e la educa e la difende nelle sue creature.”[6]

D’altro canto non può essere che Gaia all’origine della religione mediterranea perché la Natura, le cui forze essa personifica, è sempre al centro dello scenario in cui si svolgono le storie mitiche e si rivela maestra e guida spirituale fin dagli esordi della civiltà: “Ha provveduto per tempo la natura a rivelare al maschio (....) che il suo essere è tutt’uno con il suo essere maschio; che è poi ovvia esperienza ontologica vissuta dall’uomo arcaico a tutte le latitudini. E dalla donna. (...) La natura che ha donato la donna di una carica ontologica più segreta ma tanto più forte, se ha fatto di ciascuna una potenziale prodigiosa matrice. Da tale sperimentata realtà l’esigenza, anche per la donna, d’una copertura (nel quadro rientra la frasca di Eva) (...) messa lì a celare e a proteggere il ‘mana’ della femminilità (...), ma per disvelarlo lasciandone diffondere all’intorno la sacra forza benedicente in un momento ben preciso e necessario; nel mito come nel rituale” [7].

E il corpo della donna è pertanto simulacro della dea e può catalizzare la sua potenza più profonda, non solo quando la sacerdotessa compie i riti segreti della religione agraria o quando la “piccola potnia” —così Pestalozza chiama la donna dei Mediterranei— evoca la presenza di Demetra celebrando le nozze sacre sul campo tre volte arato, ma in tutti quei momenti della vita, in cui si opera nel nome e nel rispetto della dea [8].

E se il mistero della donna e quindi della donna—dea ha “trovato nei Mediterranei dei banditori adoranti, preparati essi come nessun altro popolo da una civiltà ‘solare’ a sapere cogliere essenzialmente nella donna il valore dell’esperienza nuziale, esperienza ch’essa vive in un’intensità di segreto, in una vastità di echi remoti e prossimi, a lei sola possibili” [9], la Potnia non risulta per questo assoggettata al dio che l’accompagna, a volte teriomorfo, spesso nato da lei in virtù di quella autonomia generativa che si riscontra non solo nelle divinità più arcaiche, ma anche in alcune dee dell’Olimpo.

Né il potere della dea è limitato alla sfera della riproduzione e protezione della vita nei tre regni intersecantesi; infatti “noi sappiamo che la prima Signora dell’oracolo di Delfi fu proprio Gaia, la madre comune degli uomini e delle cose. Riesce quindi facilmente comprensibile il fatto che il centro del culto oracolare fosse l’omfalos, che si lega fisiologicamente bene con la maternità della Terra”[10]. Inoltre essa è “signora degli uomini nel senso più lato della parola: signora non del loro vivere soltanto, ma anche del loro morire”. Nel culto eleusino la dea è duale, perché la meter, già Kore, generò Kore a sua volta. E “se l’una, la meter, promuove l’abbondanza del raccolto consumando uno ieros gamos al sole, nel campo tre volte arato, l’altra, la Kore, si fa sposa nel regno catactonico di Hades, regno che essa, con questo ieros gamos, apre divinamente ai fedeli”. “La figlia passa a nozze in un regno che non è di qui, per farsi datrice di tutt’altro bene. Il suo ieros gamos, fonte di una grazia nuova, soteriologica, tocca gli uomini solo perché destinati a morire. Da questa grazia appunto nasce la religione del mistero” [11].

In poche, intensissime pagine M. Marconi delinea la trasformazione che la religione mediterranea subisce con l’arrivo delle popolazioni indoeuropee.

“Il passaggio dalla civiltà mediterranea a quella micenea non è né brusco né buio; l’avvento dei Micenei non porta un’età nuova, ma un’età che continua e rimaneggia come può un’eredità troppo ricca per poter essere tutta goduta o tutta cancellata (...). Così la vita religiosa e sociale in Omero (...) continua per consuetudine a riconoscere la superiorità della donna, anche della Donna con la maiuscola, sia essa Hera o Athena, e perfino dell’adultera, Helene o Afrodite. (...) Un passaggio spiccatamente brusco e buio si sente invece con l’avvento dei Dori, barbari senza remissione. (...)

La donna non più in quello stato di grazia come la riconobbero i Mediterranei e come ancora la sentivano gli Achei, perché non più intesa nell’unico suo modo di essere, si perde in due tristi possibilità: fattrice o etera; chiusa la prima in una silenziosa modestia, ingaggiata la seconda nella vita pubblica a cimentarsi con uomini di primo piano in un gioco che non è solo gioco amoroso; gioco complesso, esigente uno splendore che vinca la stessa bellezza: lo splendore di Aspasia nell’Atene di Pericle.

E la dea della città? Il mito la ricorda alle origini ospite di Eretteo nel palazzo principesco simile a quei di Creta, signora nel senso più lato del termine, Teleia, la perfetta che rende perfetto. Ma a un certo momento il mito s’impenna per rifarsi alle origini di Athena, e alla maniera achea ne viene fuori quella mostruosità che è Zeus partoriente dal capo la figlia già in armi. Questo dio, teleios a modo suo e solo per sé, significa in sostanza guerra guerreggiata alla donna in nome degli Arioeuropei invasori. La donna c’è tuttavia, ma anche qui splendida da perderci in bellezza” [12].

Se si tiene presente la materia trattata dalla studiosa che, insieme col ‘maestro’, ha voluto liberare dalle incrostazioni patriarcali —“L’interesse sta nella materia in sé, non nel mio lavoro”, mi disse  in un colloquio — diventa alquanto banale sottolineare l’attenzione che M. Marconi ha rivolto al conflitto uomo—donna in tutta la sua attività; interessa invece notare come il suo atteggiamento partecipe, pur in un contesto di lavoro meticoloso ed erudito, consente di proiettare la comprensione del mito nell’analisi delle relazioni storiche, di cui lei stessa si pone, se pur con discrezione, come soggetto partecipe. “... In questo mito — scrive a commento di quanto citato sopra — che corre a ritroso la storia di Athena e vuole darle una nascita (...), io vedo un preludio lontano, appena accennato ma già significante, di quello che verrà poi fra gli uomini. La Signora nel senso più lato del termine qui è già mutila per essere nata — e quale nascita — e già imbrigliata in una storia che accentua in lei i toni di figlia (senza madre) del proprio padre e di vergine che si prova, essa pure più splendida che bella, in cimenti di intelligenza, di forza, di prestigio. Questo dunque il mito che prepara di lunga, di lunghissima mano l’età di Pericle” [13].

(Qui Momolina vede anche un destino per le donne occidentali contemporanee?)

Tuttavia, accanto alla nuova, perdura — e come vitale — la vecchia storia di Athena, (...) la dea che trionfa nella sua teleiotes (non si dimentichi che in Elide le donne la invocavano meter). Così il sostrato mediterraneo rivendicava col suo perdurare di miti intatti la forma e l’essenza originaria della dea” [14].

 Ma quali la forma e l’essenza che i popoli che si sono affacciati sul ‘Mare di mezzo’ hanno percepito della divinità e M. Marconi ci ha dato di conoscere?

La Dea ci mostra mille volti, si presenta frammentata in aspetti particolari, ma conserva le caratteristiche e le prerogative della grande Signora. Vediamone alcuni aspetti.

 E’ la hera che torna alla luce dal santuario alla foce del Sele: attraverso i reperti riemersi dagli scavi, “statuette Kourotrofoi e insieme colombe, melagrane, mele, fichi, mandorle, gigli si scopre tutto un intimo mondo religioso che dà significato e valore a questi fittili, di per sé umile e modesta cosa” [15] ; un culto della vita che si rigenera in tutte le sue forme. “E’ lecito supporre che (…) anche all’Heraion che ci interessa, soprattutto in determinate ricorrenze, giungessero lunghe processioni di spose desiderose di prole, di madri che mettevano sé e i propri figli sotto la protezione di Hera; e come ricordo e insieme come offerta, lasciassero nel tempio un umile fittile, rappresentante la divina signora nell’atteggiamento di madre amorevole — e perché non una mortale? — o, più semplicemente, presentassero uno speciale frutto, un fiore caratteristico, ricco di una segreta realtà” [16]. Il giglio, in particolare, “nasce proprio dalla terra fecondata dal latte di Hera che aveva nutrito nel sonno Heracles bambino per conferirgli l’immortalità… il giglio è il fiore preferito di Hera... è il suo antos anteon (fior dei fiori) in quanto è germinato da lei stessa, nella specifica sua funzione materna, in quanto è il vivo segno della sua inesausta maternità... Ora, tenendo presente il grande posto e l’alto significato che proprio il giglio ha nel mondo minoico, tanto che la dea minoica se ne compiace come di cosa specialmente sua, si viene a legare intimamente a questa la personalità di Hera, per la comunanza di concezioni che in entrambe si colgono, onde una volta in più mi è lecito riconnettere al mondo minoico o, più genericamente, al mondo mediterraneo la dea che in questo studio mi occupa” [17].

Ma il fiore non ha un significato puramente simbolico: “...Vi è però un altro motivo da tener presente: la Grande Dea, appunto nella sua qualità di Madre, ama il giglio e lo coltiva per l’uso che essa può farne nella terapeutica quotidiana.” [18] Altro attributo che si evidenzia tra i tanti e che rafforza il significato del fiore prediletto è “la melagrana... che la dea porta in una mano nella statua cultuale di Argo, come asserisce Pausania, il quale aggiunge di non volerne spiegare il ‘mistico significato’; ma a noi riesce ben chiaro solo che si pensi alla ricchezza dei granelli purpurei, che si intravedono attraverso l’aprirsi della corteccia, quando il frutto è maturo. Esso è, in forma vegetale, lo stesso grembo fecondo della dea madre e materna, che ha in sé innumerevoli possibilità di vita.” [19]

D’altro canto nella letteratura Hera è chiamata akraia — montana, in quanto molti luoghi del suo culto si elevano su colli e pendii — e insieme anteia, tanto che perfino il suo connubio con Giove avviene su un letto di “erba tenera e loto rugiadoso e croco e giacinto morbido e folto.” [20] Quindi possiamo “senza dubbio immaginare nel bosco folto e opaco [alle foci del Sele] una radura dove appunto la dea coltivava le sue erbe, i suoi fiori caratteristici e quel giglio soprattutto, di cui è fama che si compiacesse, tanto che le madri e le spose italiche, memori e grate, ne lasciavano nelle favisse colme copie fittili in gran numero, come testimonianza del bene ricevuto e come ricordo per la grazia che attendevano.” [21]

La radura, il prato, il giardino, sono luoghi prediletti dalla divinità mediterranea e, nell’antica concezione che non pone soluzione di continuità fra i diversi regni della natura, esprimono essi stessi la sua potenza generativa.

“...Se Europe o Atalanta, Persefone o Calipso,— espressioni tutte della grande dea — tornano ogni volta alla nostra mente come uscenti dalla natura in rigoglio e oramai non possiamo immaginare più Calipso senza l’ombra dei pioppi degli ontani dei fragranti cipressi che ricoprono la sua isola in fiore, né Europe senza quel suo campo smaltato di narcisi, di giacinti, di viole, di serpilli, Hecate come Artemis, come Hygieia, come Hera, come Bona Dea, Feronia, Diana, Flora e tante ancora, vantano tutte un loro giardino segreto, ricco di semplici, possente d’annosi tronchi.” [22]  Dice esplicitamente Flora: “est mihi fecundus dotalibus hortus in agris.” [23]  Tra i numerosi fiori che lo adornano Ovidio ricorda il fiore nato in Laconia dal sangue di Hyacinthus, il fiore che è la metamorfosi di Crocos, il fiore nato dal sangue di Attis, cioè la viola purpurea, il fiore nato dal sangue di Adon, cioè l’anemone rosso e finalmente un fiore originario dagli arva Olenia, il cui tocco comunica la fecondità...” [24].

I fiori rappresentano i paredri della dea e non a caso la descrizione dell’hortus di Flora rievoca miti che dalla Colchide e dall’Anatolia percorrono tutta l’area mediterranea. “Come per miracolo s’accendono dal Lazio alla Colchide i giardini segreti e meravigliosi. Ecco quello di Diana — tutto un bosco — presso il lago di Nemi; ecco il lucus o meglio i luci Feroniae, sparsi tra Luni e il Circeo; ecco l’herbarium di semplici nel tempio di Bona Dea, rivelatore di un hortus lì accanto; ecco l’hortus di Hera presso il Sele; ecco il suo leimon sul Citerone; ecco gli altri suoi giardini di Argolide e forse di Creta o l’altro presso le Esperidi; ecco i kepoi di Hygieia sanatrice, ecco quelli di Artemis che ci riportano in Laconia o in Asia minore; mentre con Hecate e con Circe torniamo in Colchide.” [25]

 Da uno stadio più arcaico, ma in stretta relazione col mondo religioso ora descritto, M. Marconi fa tornare, nella sua duplice forma umana e zoomorfa, melissa, la dea nutrice, che a buon diritto ha la signoria sugli stessi luoghi eletti a dimora dalle sorelle più giovani: “Melissa dunque si confonde con una primitiva Potnia fiton kai anteon, ed è bello immaginare questa divina creatura alata portarsi qua e là con gli sciami nel verde tenero dei prati fioriti.” [26]

 In terra italica è la complessa figura di diana, il cui culto, come quello di Bona Dea, era riservato originariamente alle donne: dea silvestre, legata al nemus, alla silva, al lucus, viene rappresentata, come divinità similari della società minoico—micenea e come la grande dea sumero—akkadica, armata di arco e faretra. “Ma la dea propriamente cacciatrice non è che una forma intimamente connessa con la Potnia, in quanto questa, che protegge e vigila il mondo animale, s’intende bene come si presentasse armata piuttosto per difenderlo che per aggredirlo”. E come dea lucifera, porta la torcia accesa “per perlustrare le selve durante le ore notturne, per allontanare dal suo cammino, con la virtù apotropaica del fuoco ogni maligna influenza, e per spargere d’ogni intorno germi di fecondità.” [27]  Diana però non porta in sé solo questi specifici aspetti di signora degli animali: da un rilievo di bronzo si mostra “seduta all’aperto sotto un albero dal grosso tronco, riceve da braccia materne un piccolo in fasce mentre sotto il suo seggio sta un agile cerbiatto, unico e significativo segno, in questa scena, in cui essa spicca essenzialmente come dea kourotrofos, della sua signoria sugli animali.” [28]  In questa immagine la dea si manifesta nella sua natura di dispensatrice di salute e cura: per questo la nutrice Paperia incide su una cuspide di lancia la propria devozione a Diana. Così, nel mito di Diana e Ippolito, scaturito da una sintesi letteraria della coppia Diana—Virbio con la coppia Artemide—Ippolito, quest’ultimo fu richiamato in vita “Poeoniis revocatum herbis et amore Dianae [29].

 

Queste dee, signore della salute e della fecondità, estendono la loro potenza anche nel regno dei defunti, proprio in virtù della loro caratteristica di dispensatrici e protettrici della vita. Questo il significato dell’unione di Persefone con Ade. Per M. Marconi la vicenda del ratto di Kore è “cosa poco significante”. Il centro del mito è la “fonte viva di grazia”, rappresentata dalle nozze divine che “son sacre non solo per via dei protagonisti, ma perché emanano una forza, un fluido che fa bene ai viventi, che dà vita alla vita.” [30]  Demetra, con Jasion consuma un vero sacramento per la prosperità della terra, la figlia, sposa in un altro regno, dispensa una grazia nuova, soteriologica: “la dea che — come tale — ignora la morte (...) entra viva nell’altro regno; viva e splendida, in abito da sposa, per le sue sacre nozze. Non dunque la dea, ma la kore che è in lei, quella può, quella deve morire: morire per poi risorgere integra...” [31].

E ancora: “Il gioco delle parti tra madre e figlia, tra la vergine e la donna è tanto strettamente legato, da non potersi più scindere, senza andare contro la religione stessa della dea duale; la quale religione poggia su un identico sacrificio sacramentale, il cui valore tuttavia lo completa e lo perfeziona Persefone.” [32]

 

Infine, kirke, “dea tanto famosa e pur tanto oscura”: “entrò nel poema d’Omero, ma solo per un momento della sua storia, storia che doveva pur esistere, perché ce la rivelano a tratti notizie brevi, meno noti episodi giunti fino a noi.” [33]  La “magnifica iddia”, venerata in tutto il mondo mediterraneo e fino all’Indo, se fanno fede i toponimi che incorporano il suo nome e le leggende che la ricordano madre di popoli, è polifarmakos perché figlia di Helios. Spiega M. Marconi: “Helios fu dai mediterranei di buon ora sentito come fattore di vita, operante accanto alla grande dea, la vera Potnia del mondo universo, di cui egli era paredro. Il passaggio poi da paredro a padre (...) non è difficile da spiegare. Sdoppiandosi la grande dea in altrettante personalità divine rispondenti a un determinato inconfondibile nome, e mantenendo esse, tra le molteplici virtù iniziali, quella di farmakides, ecco che Helios fu sentito come padre non più solo della produzione vegetale, ma di loro stesse, che con i vegetali avevano tanta familiarità, erano — sempre per virtù di Helios — depositarie del segreto nascosto in ogni corolla, in ogni frutto, in ogni radice.” [34]

Per quanto legata alla divinità solare, Circe è caratterizzata soprattutto come dea della terra. Non solo per la sua appartenenza a ben due luoghi denominati Aia (Aia “sarebbe la terra, la terra irrigua, la terra fertile, intimamente legata alla vita e all’arte della dea”) che fanno di lei Aiaia, “la dea legata alla terra, quindi la dea farmakis che dalla terra appunto — oltre che da sé —trae i poteri della sua arte, l’esplicazione della sua scienza”, ma soprattutto perché possiede, in Colchide, il Kirkaion pedion, un cimitero caratteristico, visitato da Giasone secondo il racconto di Apollonio Rodio. “Questo carattere del sacro campo di Circe getta sulla figlia di Helios una nuova luce. Circe appare qui sotto un aspetto che non le conoscevamo ancora, quale signora del mondo dei defunti, non già tuttavia in un senso circoscritto ed esclusivo e quindi tetro e pauroso, bensì in connessione diretta ed inscindibile con l’aspetto corrispondente di dea della vita universa, per cui germina la terra e scorrono le acque fecondatrici del suolo. Dea della vita, essa domina le leggi della vita, di cui è però necessario arcano correttivo la morte, onde essa diviene la dea dei morti in quanto è la dea dei viventi e viceversa. E se le spoglie degli uomini vengono appese agli alti rami degli alberi, i corpi inanimati delle donne, dai cui grembi tante vite erano uscite alla luce, la dea vuole che riposino in grembo alla terra Madre, cioè nel suo grembo medesimo, inesauribilmente fecondo.” [35]

L’aspetto ctonio di Circe rende ragione delle argomentazioni di M. Marconi a proposito della “paternità” di Helios, se si tiene conto che la cosmogonia mediterranea attribuisce alla Terra una posizione preminente: è dalla Terra che Helios si leva al mattino, per ritornarvi al tramonto e recuperare le energie necessarie al viaggio giornaliero. “Egli trae dalle profondità del grembo della Terra Madre, dalle immense riserve di fuoco, ch’ella vi alimenta, le ignee energie, che percorrendo la volta celeste restituirà a lei dalle altezze dell’etere in torrenti di luce e calore.” [36]

La maga non è altro che una delle innumerevoli personificazioni della Dea Terra, madre degli dei e degli uomini, quale è celebrata nella tradizione omerica e orfica; pertanto l’essere divenuta figlia di Helios risulta da vicende posteriori all’antica genealogia. “E se i lupi e i leoni che Circe rinserra nei recinti del palazzo di Aiaia furono uomini (...), è legittimo supporre che non fossero questi i soli animali in dimestichezza con la dea, possiamo supporre ch’essa, in qualità di Potnia mediterranea, vivesse famigliarmente con le fiere che s’intanano nelle forre boscose, con gli uccelli che nidificano sugli annosi tronchi della selva o nelle anse stagnanti dei fiumi, con la vasta famiglia zoomorfa che — lontana e spesso ostile all’uomo — si fa docile e mansueta al gesto, allo sguardo della dea. Restituiremmo in tal modo quell’originario e più completo potere che si andò smorzando nell‘unica visione della dea—maga circondata dalle sue vittime occasionali, e vedremmo davvero in lei la primitiva Potnia Kirke. [37]

Dea della terra, signora degli animali, Circe domina la natura selvaggia e misteriosa in virtù delle sue arti magiche e salutari, accompagnata in questo da altre “divine creature femminee” perché “per quanto risaliamo con la nostra indagine indietro nel tempo, c’incontriamo con insistenza in una dea — si chiami Circe o Pasifae o Medea o Hecate o Agamede o Mestra o comunque si voglia — che conosce a fondo le segrete proprietà delle piante.” [38]  E “se Circe o Elena si compiacquero in prevalenza di incantesimi e magie, anche in Artemis, Hera e Diana — fedeli alla loro prima essenza — rispuntano sovente, sotto la cedevole patina classica, le antichissime dee che ai succhi ai balsami ai filtri, vale a dire alle segrete prodigiose virtù del mondo vegetale, attingevano i motivi della loro imperiosa autonomia. Chè il potere magico è parte integrale della divinità mediterranea e sentito dai suoi adoratori come elemento essenziale del divino.” [39]

Circe (o Medea, o Elena, o Ecate) è la divinità che continua a vivere nelle ‘donne di potere’ fino al Medioevo; e se è discutibile l’intreccio tra la storia di Diana e leggende della celtica Viviana, non per questo dobbiamo pensare che la memoria delle antiche dee sia spenta: “sottraiamo un momento la maga a questa identificazione forzata, togliamole il chitone che non è suo, e rendiamole la lunga veste trapunta d’oro; lasciamola soprattutto libera di muoversi, di agire come vorrà, e l’identificazione la ritroveremo ugualmente, ma fresca, questa volta, e spontanea perché frutto di vita vera, di vita vissuta.” [40]

E così Morgana la dea manifesta il suo splendore divino alla donna moderna Momolina Marconi; queste le parole con cui la ierofania è celebrata:

“Mi piace (...) pensare la bella tra le belle negli ozi meridiani dell’isola, accompagnata da ministre sagaci e come lei belle, intenta con loro a cogliere e intrecciar fiori, non più per scopi letali o salutari, ma solo per comporne leggiadre corone; in questo momento ogni artificio cede di fronte all’immediato godimento della natura, e la maga e le sue ministre si fanno semplici e buone come non mai.” [41]

 Spero di aver tratteggiato sufficientemente il mondo magico—religioso di cui la Marconi ci ha resi partecipi; un mondo in cui divine creature femminee simboleggiano la Vita in tutte le sue manifestazioni, in cui la morte, se pur oscura, è un passaggio che ci riporta nel grembo della Dea, in cui la metamorfosi non è intervento straordinario che dèi bizzarri operano talvolta per salvare, talvolta per punire creature umane, ma espressione stessa della realtà, quando questa non viene parcellizzata, ma appresa nella complessità del suo evolversi; in cui, infine, troviamo espressioni di “femminea ben accordata solidarietà”.

Al termine di questo viaggio attraverso lo spazio e il tempo, che ci porta alle radici della nostra cultura e ci mostra come queste siano saldamente intrecciate con altre radici di culture considerate distanti da noi, un solo commento da aggiungere a tutto quello che ci è stato insegnato: non siamo senza madri.

Grazie, professoressa!

Bibliografia

 


Note

[1] ‘Mitforscherin’ è il termine usato; M. Marconi sostituì il Maestro quando questi lasciò la cattedra di Storia delle Religioni a Milano.

[2] Pier Angelo Carozzi in Pestalozza, Eterno femminino mediterraneo, Neri Pozza 1996, Vicenza, pag.143.

[3] M. Marconi, Ricordo di un Maestro, Acme, 20 (1967) Milano.

[4] J.E. Harrison, Themis, Napoli, La città del Sole, 1996 (Introduzione).

[5] M. Marconi, Il mito di Gaia nella Teogonia esiodea, Acme, V (1952), Milano, p. 561.

[6] M. Marconi, Il mito di Gaia …, cit., p. 572.

[7] M. Marconi, in Mythos, Scripta in honorem Marii Untersteiner, Genova, 1970.

[8] Si vedano: M. Marconi, Sul mistero dei misteri eleusini, Studi e Materiali di Storia delle Religioni, XXII, (1949-’50), Milano, p. 153; U. Pestalozza, Le Tharghelia ateniesi, in Religione Mediterranea: vecchi e nuovi studi, Fratelli Bocca, Milano, 1951.

[9] M. Marconi, Mito e civiltà, Acme, IV, (1951), Milano, p. 327.

[10] M. Marconi, Melissa, dea cretese, Athenaeum, Pavia, 1940.

[11] M. Marconi, Sul mistero dei misteri eleusini, cit., p. 151.

[12] M. Marconi, Mito e civiltà, cit., p. 329.

[13] M. Marconi, Mito e civiltà, cit., pp. 329-330.

[14] M. Marconi, Mito e civiltà, cit., p. 330.

[15] M. Marconi, Il santuario di Hera alla foce del Sele, in Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere – Rendiconti di Lettere 72/2, Milano, 1938-’39, p. 443.

[16] M. Marconi, ibidem, p. 443.

[17] M. Marconi, ibidem, p. 447.

[18] M. Marconi, ibidem, p. 445.

[19] M. Marconi, ibidem, p. 451.

[20] Iliade, XIV, vv. 347 ss.

[21] M. Marconi, Il santuario di Hera alla foce del Sele, cit., p. 454.

[22] M. Marconi, Kirke, in Studi e materiali di storia delle religioni, Milano, 18, 1942, p.49

[23] Ovidio, Fasti, V, vv. 209 ss.

[24] M. Marconi, Il santuario di Hera…, cit., p. 455.

[25] M. Marconi, Kirke, cit., p. 49.

[26] M. Marconi, Melissa dea cretese, in Athenoeum, Pavia, 1940.

[27] M. Marconi, Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale, Principato, Milano, 1930.

[28] M. Marconi ibidem.

[29] M. Marconi, ibidem.

[30] M. Marconi, Sul mistero dei misteri eleusini, cit., pag. 151.

[31] M. Marconi, ibidem, p. 152.

[32] Marconi, ibidem, p.152

[33] M. Marconi, Kirke, cit., p. 37.

[34] M. Marconi, ibidem, p. 39.

[35] M. Marconi, ibidem, p.51. Su questo aspetto, il pensiero dell’autrice coincide con i risultati delle ricerche di M. Gimbutas (si veda, in particolare, Il linguaggio della Dea, Vicenza, N. Pozza, 1997).

[36] U. Pestalozza, Eterno femminino mediterraneo, Neri Pozza, Vicenza, 1996, p. 23.

[37] M. Marconi, Kirke, cit., p. 54.

[38] M. Marconi, Da Circe a Morgana, Reale Ist. Lombardo di Sc. e Lett., 74/2, Milano, 1940-’41, p. 533.

[39] M. Marconi, ibidem, p. 542.

[40] M. Marconi, ibidem, p. 556.

[41] M. Marconi, Da Circe a Morgana, cit., p. 569.