DENARO, DESIDERIO.
ANDROCENTRISMO (1)

Gianandrea Franchi

 

I

Ciò che distingue da ogni altra la forma sociale chiamata capitalismo è il suo organizzarsi intorno al dominio della ricchezza astratta, il cui valore è posto in termini monetari. Il denaro è quindi la misura del valore sociale. La ricchezza monetaria, però, si alimenta del concreto dispendio dell’energia vitale dei corpi degli uomini e delle donne che producono oggetti il cui valore è definito in denaro: le merci. Ma, inoltre, si nutre anche dell’insostituibile “lavoro ombra” e dell’attività, delegata prevalentemente alle donne, che riproducono e curano la vita in modi che il potere economico non può permettersi di riconoscere, pena il fallimento della stessa economia monetaria. Lo scopo del capitalista - oggi più che mai - non è, però, la ricchezza materiale prodotta dal lavoro concreto, da cui, peraltro, non può prescindere. E’ la ricchezza monetaria. “Ci spremono e poi se ne vanno”, constatava uno degli operai in lotta contro la chiusura della Electrolux, di fronte alla sede italiana della multinazionale. L’economia (capitalistica: ma non ne esiste un’altra, perché non si chiamerebbe economia) è sussunzione di tutte le forme e modi di vita, umana, non umana e ambientale, più che alla stessa produzione di merci, al denaro come dispositivo di comando sulla vita e forma generale delle relazioni interumane e ambientali.

La peculiarità del denaro sta nel suo rapporto con il desiderio. 
Il desiderio è l’effetto della condizione ontologica dell’essere umano, per cui la relazione con gli altri precede e fonda quella con se stesso. Da ciò, la primordiale esigenza culturale di essere riconosciuto e di riconoscere l’altro. La nozione di desiderio indica anche il carattere temporale e storico della soggettività, la pro-tensione rischiosa verso il futuro. Intendo dunque con ‘desiderio’ il rapporto singolare di ciascuno con la costitutiva dimensione relazionale e temporale della propria soggettività. E’ questa dimensione a renderlo illimitato: non è desiderio di questa o di quella cosa, ma in ultima analisi di amore, cioè di essere. Il desiderio di cose, di oggetti, è derivato e trasposto rispetto al desiderio di relazione.
Il sociologo francese Maurice Halbwachs osserva che la caratteristica generale del denaro sta nell’aumentare. A differenza della ricchezza concreta, che ha pur sempre a che fare con limiti di fruizione, la ricchezza in denaro tende intrinsecamente all’illimitato. Nella sua Filosofia del denaro, Simmel coglie efficacemente questo aspetto importante:
Il denaro può psicologicamente diventare un valore assoluto in quanto non deve temere il proprio dissolversi nel relativo”; “Soltanto il denaro non contiene … quella misura interna che costituisce un limite del desiderio dell’oggetto”, (Simmel, 347, 473). 
Al desiderio il denaro offre il piano inclinato della sua illimitatezza, tipica delle serie quantitative, che è riduzione della qualità alla quantità: il principio dell’astrazione (dal corpo, dal vivente). Hayek definisce astratta quella norma che “debba applicarsi a un numero ignoto di casi futuri”: dove appare la funzione dell’astrazione quale mezzo di rassicurazione per il futuro (Dardot e Laval, 264). E’ qui uno dei punti di giunzione del fondamentale rapporto del denaro con il tempo: con il futuro, con l’imprevedibile, con il rischio. Secondo Jeremy Bentham,
il rapporto al tempo non è assolutamente naturale … l’avvenire è una creazione istituzionale: dipende prima di tutto dalla sicurezza, senza di cui non è possibile concepire nessuna speranza di godimento futuro” (Dardot e Laval, 126).
Sicurezza significa sine cura, senza preoccupazione. Ma cura si declina anche come curarsi di sé, dell’altro. La traduzione inglese di cura, care, mi ricorda il motto di don Milani: I care, io mi preoccupo, di me, degli altri, del mondo in cui vivo, me ne occupo, ho cura di esso. Il denaro toglie la cura, delega a una sorta di meccanismo, cioè a un sistema di ripetizione allargata, riduzione della qualità alla quantità: il futuro sarà teoricamente come il presente. Il tempo diviene processo lineare di aumento di quantità, che esorcizza la qualità, il corpo, l’imprevisto, il rischio. A modo suo, ricorda la funzione rassicurante che ha la ripetizione: il battito del cuore materno sul feto, la nenia, la ninnananna. Gli automatismi sono necessari per vivere - ciò che Bourdieu chiama gli habitus -, la quotidianità è piena di automatismi. Rassicurano chi è in condizioni di particolare fragilità: gli anziani, i malati, le persone sofferenti (2). La possibilità di ripetere assicura continuità – l’orologio. Il meccanicismo settecentesco considerava la natura come un grande orologio. Senza una continuità, cadremmo nel caos, ma l’eccesso di dispositivi di continuità tende a soffocare l’esistenza. Il dominio culturale del denaro assolutizza la ripetizione quantitativa, ne fa l’unica sua dimensione. L’astrazione è una forma di ordine spinto a un’estrema riduzione della complessità. *Secondo Arjun Appadurai, oggi “il segno diacritico emergente [è] il dominio di tecniche e mentalità orientate alla manipolazione del rischio o alla resistenza a esso, intesa come manipolazione statistica di qualsiasi e di tutte le incertezze della vita” (Appadurai, 10).
In tal senso, il denaro è anche un dispositivo immunitario, simile a quelle forme di immunità che si rivolgono contro il corpo e lo uccidono. Ma si tratta di un dispositivo che attira ed eccita il desiderio con il carattere illimitato della sua quantificazione.
Il segreto del denaro è il rapporto sottile con quella dimensione fondativa dell’esistenza e della vita che è il tempo, in quanto ne sposa il duplice carattere di istantaneità e di durata. Lo nota, con molta finezza, ancora Simmel:
Questa duplice esigenza, apparentemente contraddittoria, in base alla quale ogni momento della vita deve essere nello stesso tempo assolutamente definitivo e assolutamente non definitivo, scaturisce dalla più profonda interiorità in cui l’anima dà forma al proprio rapporto con la vita e trova, abbastanza curiosamente, un appagamento, in un certo senso ironico, nel denaro, nella più esteriore formazione dello spirito, più esteriore perché al di là di tutte le sue qualità e di tutta la sua intensità” (Simmel, 339).

Chi ha denaro si sente in certa misura sicuro, o meno insicuro, nei confronti del rischio connesso con l’imprevedibilità dell’esistenza. Il denaro dà una garanzia di continuità nel tempo. Questa garanzia non è affatto meramente ‘economica’, ma si riflette sull’autorappresentazione del soggetto e su quella che gli altri gli rimandano. Se è vero che “il nucleo del Sé consiste in schemi di regolazione comportamentale e affettiva che garantiscono continuità all’esperienza” (cit. in F. de Zulueta, p. 179), possiamo capire meglio l’efficacia antropologica del denaro.
Il denaro ha un carattere di promessa, di rimando al futuro, al possibile. Il denaro, anzi, disegna la differenza tra possibile e impossibile. Evidentemente, per chi non ha denaro, la soglia del possibile si abbassa fino allo zero: pensiamo ai migranti o anche alle condizioni drammatiche di non poche persone, in numero sempre crescente, anche nel nostro paese. Non solo in termini reali, anche - e soprattutto - in termini d’immaginario, di capacità d’immaginare un futuro sottratto al dominio del denaro.
Considerando la distinzione di Appadurai fra “etica della probabilità” e “etica della possibilità”, il denaro avrebbe a che fare con la prima, mentre la seconda rimanderebbe a ciò che chiama il “lavoro dell’immaginazione” da cui dipende “la politica della speranza”. Il denaro, però, colonizza profondamente il lavoro dell’immaginazione cui appartiene l’elaborazione di emozioni fondamentali, quali speranza e fiduci (3). Chi ha denaro ha speranza per il suo futuro e dà fiducia al prossimo: si coglie qui il rapporto del denaro con la relazione intersoggettiva e con il tempo, accennata prima. La relazione e il tempo sono il quadro entro cui si formano e agiscono le emozioni, i corpi con il loro orizzonte comune, i luoghi, dai quali si formano gradualmente per astrazione il territorio, lo spazio geopolitico, lo spazio in generale.

Il denaro costituisce una forma di assicurazione e di controllo dell’imprevedibilità del tempo, in parte fantasticata ma in parte ben reale. Ogni società, ogni civiltà, ogni forma di potere deve cercar di istituire un qualche controllo sul tempo. Il potere, in quanto controllo sulla vita, è controllo sul tempo. Controllare il tempo, gestire il tempo di una società, vuol dire agire sull’immaginario, cui è legato il nostro rapporto con il futuro. Questo è un altro importantissimo elemento del potere del denaro. Il denaro contiene in-finite possibilità di possesso. “Possedere una cosa significa che essa non oppone alcuna resistenza alla mia volontà …. Se dico a un uomo che ‘lo possiedo’, ciò significa che egli cede alla mia volontà” (Simmel, 461). Il possesso appare “come la sfera e l’espressione dell’io” (Simmel) (4), di un ‘io’ ben individuato secondo il genere. Chi ha molto denaro crede di possedere il mondo e lo possiede davvero, finché si tratta del mondo delle merci, che tende a essere (e quasi è) tutto il nostro mondo.La dinamica storica del capitalismo consiste in “un processo permanente di appropriazione di beni comuni, di una colonizzazione progressiva di tutte le sfere del vivente, comprese quelle «private»” (R. Petrella).
Il denaro induce
una relazione perversa con l’oggetto fondato sull’illusione immaginaria del godimento totale. Tutto si equivale, si converte in moneta, si negozia. Ma se tutto sembra possibile, allora tutto è ambiguo, tutto è sospetto perché non ci sono leggi per nessuno” (Dardot e Laval, 462).
La legge è sempre la legge del più forte sul mercato, come oggi l’esautoramento delle democrazie formali ci mette sotto gli occhi, se siamo ancora capaci di vedere e non solo di guardare.


 
II

Mi sembra importante capire il rapporto fra il denaro, così inteso, e l’androcentrismo, ovvero la costante antropologica per cui l’essere umano di genere maschile si è im-posto come il modello dell’umano, ponendo il genere femminile in posizione ontologicamente inferiore e iniziando in tal modo una dinamica di gerarchizzazione degli esseri umani. Da questa dinamica discende anche un’altra costante antropologica, il razzismo. Androcentrismo e razzismo vanno insieme, ma il primo è la matrice del secondo. 
Alcuni strumenti concettuali di tipo psicoanalitico aiutano a capire un passaggio di cui la psicoanalisi più di ogni altro campo di ricerca ha fatto comprendere la  crucialità e che si può enunciare così: l’uomo ha inventato il potere come surrogato dell’amore - se chiamiamo ‘amore’ il bisogno primario dell’essere umano, il bisogno-desiderio di essere riconosciuto che implica, a sua volta, quello di riconoscere. In altri termini: il potere come surrogato dell’ontologia relazionale dell’essere umano. Il potere, infatti, fa le stesse cose dell’amore, ma al contrario. Nella sua forma di denaro, esso lega gli individui con “un interesse completamente esprimibile in termini monetari(5) (Simmel).
Lo psicoanalista Jan Suttie, severo e precoce critico della concezione freudiana dei Trieben, ritiene che dobbiamo
prendere in seria considerazione l’ipotesi che il bambino possa recare in sé sin dall’inizio tanto la capacità quanto la volontà d’amore, e che nell’angoscia di separazione e nelle proteste rabbiose egli si stia incamminando verso due possibili direzioni: nel primo caso aspira a recuperare quel rapporto d’amore nel quale non esistevano competizione, rancore o sospetto …, nel secondo caso, il bambino mostra invece di rinunciare a questo tipo di relazione amorosa spontanea a favore di una relazione alternativa basata, questa volta, sul potere” (Suttie, 44).
Alle radici del potere e della violenza, precisa la psicoanalista anglo-spagnola de Zulueta
“c’è soprattutto la disumanizzazione dell’’’altro’; questo processo sembra quasi intrinseco alla differenziazione dei ruoli maschile e femminile che esiste nelle culture patriarcali. Il risultato è che i maschi diventano uomini a spese dell’altro femmina. L’inevitabile conseguenza di un sistema culturale di questo genere è la creazione dello stampo psicologico dell’abuso sessuale e del razzismo” (de Zulueta, 381). 
La disumanizzazione dell’altro sembra fortemente radicata e diffusa nelle culture (ma non in tutte quelle conosciute). E’ la comprensione del carattere relazionale della soggettività a mostrarci che il ‘potere’ viene dopo ‘l’amore’ e ne è il sostituto – ricorda un poco il neoplatonismo, per cui il bene è l’essere e il male é solo una sua diminuizione - : “ricerchiamo il potere come tramite per l’amore, e non l’amore come tramite per il potere” (Suttie, 41).
L’essenza del potere è il possesso, inteso in senso lato come controllo della vita. Il denaro è l’attuale forma dominante di potere. Il potere è la caratteristica antropologica del desiderio maschile come desiderio di possesso, di controllo e dominio sulla vita cioè sulle sue fonti. Questo si vede in tutte le varie articolazioni storiche del patriarcato e, con estrema chiarezza, nei regimi autoritari novecenteschi, in particolare nel loro rapporto con la famiglia (cfr. Paul Ginsborg). Mi pare che si possa considerare la storia della prima metà del Novecento come una gigantesca e terribile crisi del patriarcato, cioè della base antropologica dell’autorità e del potere e quindi della forma del sociale.
Il potere patriarcale era ancora troppo rigido rispetto alla potente dinamica dell’industrializzazione, troppo limitato da gerarchie inamovibili, da culture e confini. Il denaro, la cui potenza va oltre il patriarcato propriamente detto, garantisce l’illimitatezza del possesso. Ma l’onda lunghissima della dinamica storica che porta al Capitalismo nasce arcaicamente come dinamica di potere dell’uomo sulla donna, il cui estremo è il capitalismo finanziario, cioè il denaro che genera denaro. La formula suprema dell’androcentrismo è l’essere umano, anzi la vita, come capitale. Lo dimostra bene la diffusione della cosiddetta ‘economia dei big data’, l’uso commerciale dei dati personali del web: “in fondo è la nostra vita che diventa merce di scambio”, dice lo studioso di tecnologie della sorveglianza David Lyon(6).
Un’altra caratteristica fondamentale del denaro ci aiuta a capire le ragioni della sua potenza. Il denaro è la forma astratta dello scambio, ma lo scambio è relazione. Se la relazione è il cuore ontologico della dimensione umana (e anche ‘postumana’, per dirla alla Rosi Braidotti), il denaro vi scivola dentro come un liquido corrosivo, rendendola astratta, impersonale. E’ l’operatore che più facilmente trasforma il desiderio di relazione, in ultima analisi d’amore, in desiderio di possesso, di potere, sulla vita. “Possediamo completamente soltanto il denaro” (Simmel, 469).

III

Il denaro è dunque sempre di più il dispositivo di potere per eccellenza. Il potere non è mai puramente costrittivo e repressivo. E’ prima di tutto produttivo di soggettività e di relazioni sociali, come, fra altri, ci ha ben mostrato Michel Foucault. Si intende ‘produttivo’ di soggettività nel senso che il soggetto acquisisce la sua forma identitaria dentro dispositivi di potere, appunto identificandovisi. Il potere è messa in forma. Abbiamo visto che è prima di tutto potere sulla vita: espressione del bisogno elementare originario di controllare la propria vita e quindi le sue fonti. Immagine centrale del potere è stata a lungo la divinità, come ci mostra in maniera pregnante la lotta fra iconofilia e iconoclastia. 
Concretamente, potere sulla vita fu, da tempi remoti, potere sulla riproducibilità della vita, cioè sulla riproduttrice della vita, su colei che era necessariamente attraversata dal filo della vita, se questa doveva continuare e propagarsi: crescete e moltiplicatevi. Ritengo che dal potere sulla donna derivi l’etimologia concreta di possesso, da cui proprietà. Il carattere produttivo del potere è legato a questa importanza della ri-produzione. Base dell’arcaico potere patriarcale era controllare la ri-produzione di as-soggettati al padre.
E qui avanza anche la forma sociale della proprietà. La proprietà ha sempre avuto a che fare con il potere sulla vita. Nell’antichità possedere la terra voleva dire, al di là del proprio campicello, possedere schiavi, come mostra l’Economico di Senofonte. Nel medioevo, la proprietà per eccellenza, il feudo, era direttamente connessa con il potere politico, derivato dal re, che era un potere sugli uomini che vi abitavano: la terra non era separabile da chi ci viveva sopra e la lavorava. Con il capitalismo, proprietà privata in senso eminente diventa la proprietà di ciò che serve ad organizzare un’attività produttiva, che vuol dire proprietà non di persone, come nello schiavismo, ma della capacità-possibilità di consumare forza-lavoro.
Possesso deriva da potis, padrone, che deriva da potens, che può, e sedere, risiedere. Possedere è risiedere nel proprio possesso, identificarsi con il possedere. Potere è possesso nel senso in cui si dice anche oggi possedere una donna, che vuol dire anima e corpo, non solo sessualmente – non si possiede una sex-worker -, possederne la soggettività, averla a disposizione, com’era del pater familias. Il potere è potere sulla vita: tu sei mia! Anche il figlio era in pieno potere del pater familias: era suo. Il potere mostrava un eminente carattere ri-produttivo. Da questo possesso originario deriva la proprietà di ‘beni’, che sono però in funzione del possesso e del potere, altrimenti avrebbero dei limiti, mentre caratteristica del potere ‘economico’ è l’illimitatezza.
C’è da aggiungere, però, una notazione importante. Se questo tipo di possesso è, come ritengo, la matrice dell’individuo possessivo e quindi del possesso e della proprietà, è evidente che esso ha anche una qualità assolutamente peculiare, perché la donna è colei che genera anche l’uomo. E’ un possesso quindi complicato e sfuggente, colmo di ambigue emozioni, divenuto sempre più complesso ed elaborato nella modernità, perdendo (in parte) gli aspetti più crudi, mentre aveva grande sviluppo quella dimensione affettiva fondamentale e concettualmente inestricabile che Lea Melandri chiama il sogno d’amore, il quale, come dice Paul Ricoeur, ci tiene in “preda alla nostra infanzia”.
Il possesso quindi implica una complessità rimossa o denegata che lo accompagna e lo agita sempre. E’ il possesso di qualcosa d’impossedibile. Su questa tensione agisce la caratteristica peculiare del denaro: la sua potenza d’astrazione reale che rende illimitato il desiderio di possedere. Possiamo chiamare il denaro un operatore del desiderio, in quanto lo stacca dai corpi, dalle cose. Trasforma il desiderio ontologico di riconoscimento, cioè di relazioni, così evidente nell’infante e nel bambino, che dalle relazioni vengono a umanità, in desiderio illimitato e vuoto, il quale diviene desiderio di una rappresentazione astratta e mortifera della vita.
Se l’homo patriarchalis è duro a morire, anche nelle società cosiddette sviluppate, l’homo oeconomicus è il suo disinibito successore, immensamente più elastico, perché indifferente e spesso promotore di ogni cambiamento dei costumi, purché porti denaro. Il nocciolo non cambia, l’uomo si definisce come competitore.

Anche nella modernità, la proprietà non è mai la semplice proprietà di ‘beni’, ma prima di tutto una forma di relazione personale e sociale. Secondo John Locke,  il fondamento della proprietà di beni è la proprietà di se stessi (self-ownership): la soggettività è posta in termini di possesso del proprio corpo, inteso, come quarant’anni prima aveva proposto Cartesio, quale oggetto separato dalla mente (il corpo-macchina, che l’anatomia aveva scoperto). Qui c’è, con la preilluministica efficacia delle idee chiare e distinte, una rappresentazione maschile del rapporto soggettività/corpo, ben diversa dalla percezione storica femminile del corpo generante e accudente. Il corpo maschile, come qualcosa che si possiede, di cui si ha la proprietà giuridica e che si utilizza. Forse la persecuzione della stregoneria è legato alla persecuzione di un corpo riluttante a entrare negli schemi del corpo anatomico, del corpo cartesiano.
Nelle notizie dei media, le donne sono principalmente mostrate come quelle che hanno famiglie e sentimenti e sessualità e corpi e problemi. Gli uomini sono mostrati come quelli che hanno autorità e status da esperti e potere e conoscenza e denaro” (E. G. Graff, tratto dal blog di Maria G. Di Rienzo).
E’ questa rappresentazione antropologica maschile che orienta l’economia politica, divenuta poi scienza economica, che oggettiva come un dato indiscutibile, fino a tentar di matematizzarla, una condizione umana basata sull’appetitus possessivo individuale. 

Rispetto alle altre forme di potere, la peculiare potenza del denaro sta dunque nella sua astrazione. Il matrimonio patriarcale, la schiavitù, lo Stato premoderno, sono forme concrete di potere, potere sui corpi. Ciò mette in gioco emozioni, produce rapporti complessi e coinvolgenti, anche nelle forme più violente, più crudeli, come il rapporto fra torturatore e torturato, che non a caso può assumere modalità erotiche (viceversa il rapporto erotico può assumere forme di tortura).
Il denaro invece, come forma più generale di potere, prescinde dal singolo, anche da chi lo possiede. Non coinvolge chi lo agisce e chi lo subisce nell’asimmetria dello scambio. Al contrario, porta all’indifferenza nei confronti del singolare. Perciò è tanto più efficace e generalizzabile. Denega completamente la complessità cui prima alludevo, parlando del sogno d’amore.
Una relazione che passa attraverso il denaro assume la forma dello scambio mercantile. Equipara qualunque relazione a merce, cioè a mero valore di scambio. Il valore d’uso concreto di ciò in cui il valore di scambio s’incorpora è secondario. Il valore di scambio toglie l’anima, anche quando è proprio l’anima che si vuol comprare (nel prezioso significato aristotelico di forma della materia, cioè di singolo corpo vivente). La mercificazione degli esseri umani è più generalizzabile di altre forme di subordinazione. Bisogna però precisare un aspetto di questa mercificazione del lavoro e tendenzialmente di ogni attività. Non significa che essa avvenga nelle varie forme dello Stato di diritto a democrazia rappresentativa. Queste forme di società sono il frutto di compromessi fra capitale e lavoro, dovuto alla capacità del secondo quantomeno di condizionare il primo, come è avvenuto prevalentemente in Europa. Dove mancano la forza e la capacità condizionante dei lavoratori il potere dei detentori di capitale si diffonde inesorabilmente, sino a forme di vero e proprio schiavismo, come avviene anche sotto i nostri occhi ‘distratti’. Un elemento di novità degli ultimi decenni è dato dalla valorizzazione monetaria della ricchezza sociale, mediante dispositivi finanziari, ma anche appropriandosi di ciò che dovrebbe essere un ‘bene comune’, come, fra l’altro, salute e istruzione.
Di per sé il capitale è indifferente a qualunque condizione sociale, fosse anche il lager, la parità tra uomo e donna, il matrimonio omosessuale, la famiglia di tipo indiano o islamico, i diritti delle sex-workers o la tratta del sesso, purché inseriti nel flusso che produce denaro. C’è poi la funzione ideologica cui assolve il denaro, in quanto mezzo di scambio ed equivalente generale, occultando efficacemente – si potrebbe dire rimovendo o denegando – la realtà dello scambio ineguale fra lavoro e capitale. Su questo occultamento si regge l’immaginario del ‘libero mercato’, come forma dominante di socialità, cui è sotteso tutto il tessuto emotivo-corporeo del fondamentale plesso potere-possesso-proprietà.

Il denaro è dunque forma astratta di potere, nel preciso significato di “astrazione reale”, ovvero di capacità di produrre dispositivi di comando che, mentre generalizzano la subordinazione, astraggono dei rapporti concreti sui quali si basa la vita. Tra subordinazione e astrazione c’è un rapporto diretto: ogni atto di subordinazione implica un’astrazione dalla concretezza singolare del subordinato.
Produrre astrazione reale significa porre i rapporti concreti fra esseri umani, fra esseri umani e altri viventi, fra esseri umani e matrice ambientale, in termini che prescindono dalla loro singolarità, individualità, peculiarità; in termini puramente funzionali a uno scopo a essi esterno e determinato da chi questa astrazione produce, da chi detiene il denaro, il cui scopo peraltro è, monotonamente, quello di produrre sempre più denaro (avvenga ciò mediante produzione di beni, di servizi o di denaro che produce denaro). Così un lager nazista è ‘economicamente’ irrazionale perché il suo scopo è solo la distruzione di esseri umani, mentre lo sfruttamento di tipo coloniale, fino allo sterminio d’intere popolazioni (da qui la contrapposizione tra liberismo e nazismo, Churchill e Hitler) o una fabbrica di tipo ‘indiano’ o ‘cinese’ (tanto per intenderci), di cui si sente parlare solo quando scoppiano disastri, rientra nella razionalità del calcolo di costi e profitti.
Per dare una facile immagine al concetto di astrazione reale, uscendo dall’ ’economia’ in senso stretto (ma in realtà non ne usciamo), pensiamo al ragazzotto in divisa che, seduto comodamente in un ufficio dietro un computer, gestisce i micidiali droni come in un videogioco. Questo tipo di guerra non è meno violenta di quella dell’assalto alla baionetta, ma è molto più corruttrice perché basata sull’indifferenza, che è l’effetto più grave dell’annientamento della relazione. In fondo, siamo alla banalità del male di Arendt, in forma più tecnologicamente sofisticata rispetto ai tempi di Eichmann. Tutto sommato, l’immagine di cui sopra sfiora quella della famigliola, a cena davanti alla televisione, che assiste a scene di guerra o di bambini dalla pelle scura mezzi morti di fame.

Marx indicava, molto efficacemente, la peculiare violenza della società capitalistica o di mercato con la pregnante nozione, non metaforica, di ‘prostituzione generalizzata’:
La prostituzione è soltanto un’espressione particolare della generale prostituzione dell’operaio e poiché la prostituzione è un rapporto non solo di chi è prostituito ma altresì di chi prostituisce – la cui abiezione è ancora più grande – rientra in questa categoria anche il capitalista” (Marx, 322 n.) (7).
Il carattere sessuale di questa metafora non è casuale ma sostanziale. Quasi sessant’anni dopo, Georg Simmel ritorna sulla questione, mettendo in rilievo il rapporto fra il carattere di genere dell’atto sessuale prostituivo, in cui “le differenze individuali appaiono eliminate” e il carattere astratto del denaro, che “esclude qualsiasi rapporto affettivo”, prescinde da ogni rapporto concreto, con ciò determinando “un’analogia fatale tra il denaro e la prostituzione” (Simmel, 537). Nell’astrazione del denaro permane un sottile odore di sesso.

Il carattere duplice e complementare d’astrazione reale e di azione efficace del denaro sull’immaginario sono come le due branche di una morsa che sta soffocando la vita.
Il denaro è dunque la forma pura e generale del possesso, che ha nel rapporto di possesso dell’uomo sulla donna la sua forma originaria, come dimostra ancora oggi lo stupro di guerra, anche al fine di mettere incinta la vittima per impossessarsi del nascituro, ma che può riguardare anche uomini vinti, umiliati come donne (ricordiamoci di Abu Grhaib). Il denaro è il sistema logico del potere/possesso/proprietà divenuto la forma generale di relazione.
Il dominio del denaro riproduce il modello antropologico dell’individuo possessivo, che è insieme seriale e antagonista nei confronti di tutti gli altri individui - individuo e non singolo. Il denaro generalizza l’ingeneralizzabile: la singolarità dell’individuo e con ciò la toglie, riducendola a serialità.
Nella sua riflessione sul “carattere sessista dell’economia”, Ivan Illich parla del “carattere possessivo” come “tratto comune essenziale dell’individuo, base di tutto il pensiero democratico moderno” che si esprime come “individualismo invidioso” (Illich, 40-41); mentre Dardot e Laval ribadiscono che “è l’antropologia dell’homo oeconomicus che fornirà la chiave universale, il fondamento ultimo della grande costruzione normativa della società moderna” (Dardot, Laval, 113). Antropologia squisitamente maschile.

Nella letteratura questo aspetto del denaro ha prodotto la figura dell’avaro, che accumula per accumulare, per fantasticare sulla ricchezza come onnipossibilità. Tale fantasticare è realizzato dal finanziere che scambia continuamente denaro (elettronico), provocando con stratosferica indifferenza danni vitali a intere popolazioni e territori, non certo per i mediocri piaceri di un’esistenza nel lusso, che non può superare i limiti del godimento fisico. La potenza del denaro è politica, è il potere politico per eccellenza, il governo possessivo di una polis allargata a tutto il mondo.
Il potere è la forma antropologica androcentrica di riconoscimento basata sulla competizione e sulla gerarchia

La forma originaria, la matrice antropologica, del possedere sarebbe dunque il possesso dell’uomo sulla donna, che ri-produce la vita. La radice del desiderio di possesso non è il possesso di beni ma il possesso di esseri umani, anzi il possesso della vita, e quindi di chi specialmente riproduce la vita.
Oggi, la pervasività dei modi di possesso della vita fa venire in mente la freudiana pulsione di morte. Ritengo che il rapporto potere/possesso acquisti luce se pensiamo che il rapporto uomo/donna ne sia la forma originaria. E’ storicamente dimostrabile il passaggio - sufficientemente documentato dallo studio sul campo delle poche società rimaste almeno fino a buona parte del Novecento – dalle società di caccia e raccolta, in cui c’era parità effettiva fra uomo e donna e non esisteva il dispositivo di un potere separato, alle società agricole, in cui compaiono, contemporaneamente, e la subordinazione della donna e la fissazione di un potere separato: a mostrare che i due aspetti vanno insieme.

Fino a che rimarrà dominante l’antropologia sociale del denaro o capitalismo, ogni azione per pari opportunità di genere e sessuale rimarrà all’interno della sfera androcentrica, anche considerando che oggi lo stato del mondo evolve verso forme di governance sempre più elitarie.
E allora - ci disperiamo?
Una critica radicale non porta mai alla disperazione chi non si vuol nutrire di fantasie proiettive o di imagination combleuse (Simone Weil). Piuttosto è la mancanza di pensiero critico che porta a forme di disperazione, più o meno rimossa, che si esprimono nella ricerca ossessiva delle più varie forme d’identità. Kierkegaard diceva che il più disperato è colui che non sa di esserlo. Appadurai tpropone una formula abbastanza efficace: “un giusto equilibrio fra utopia e disperazione”.
Il discorso per me si sposta sul terreno del senso. Il senso è l’ambito in cui la singola esistenza e la storia collettiva cercano questo equilibrio - instabile, però, mai compiuto. ‘Senso’, inteso come direzione da dare alla propria esistenza. L’unico modo per dare senso alla propria esistenza è l’azione collettiva pensante, con pochi o molti, immaginando-pensando possibilità alternative di mondo, indipendentemente dalle probabilità di realizzazione; partendo con uno sguardo locale, rivolto cioè  a persone e luoghi singoli. E’ anche l’unico modo per incontrare gli altri, per dar corpo alla propria costitutiva relazionalità, in termini non d’evasione e di misera privacy.
Questo atteggiamento etico-politico, nei momenti bui come questo lungo presente, deve privilegiare l’etica sulla politica, ovvero agire, nei limiti delle proprie capacità e possibilità, indipendentemente dalle condizioni date, pur tenendone conto. L’etica politica si misura nel rapporto fra questa ‘indipendenza’ e questo ‘tener conto’ delle circostanze storiche.

BIBLIOGRAFIA

Appadurai A., Il futuro come fatto culturale, Cortina, Milano 2013

Dardot P. e Laval Ch., La nuova ragione del mondo, Derive e Approdi, Roma  2013.

de Zulueta F., Dal dolore alla violenza, Cortina editore, Milano 2009.

Ginsborg P., Famiglia Novecento, Einaudi, Torino 2013.

Halbwachs M., Esquisse d’une psychologie des classes sociales, 1938.

Illich I., Genere 1984, Neri Pozza 2013.

Marx K., Manoscritti economico-filosofici del ’44, Editori Riuniti 1976.

Mondzain M.-J., Image, icõne, economie, Seuil, Paris 1996

Petrella R., “Impostura mondiale. Impoverimento e uguaglianza nel mondo negli ultimi 40 anni”, banningpoverty.org

Simmel G., Filosofia del denaro, U.T.E.T., Torino 1984.

Suttie J. D., le origini dell’amore  e dell’odio, Centro Scientifico Editore, Torino 2007 (ed. orig. 1935).

 

(1) Uso il termine ‘androcentrismo’ (che prendo da Pierre Bourdieu) perché rimanda a un’area semantica più vasta di ‘patriarcato’.
(2) Cfr. Elvio Fachinelli, La freccia ferma, edizioni L’erba voglio, Milano 1979.
(3) Sul dollaro cartaceo campeggia la scritta “In God we trust”.
(4) Ancora Simmel nota, in relazione agli antichi testi dei Veda, “la profonda relazione tra possesso e procreazione”.
(5) Notare che l’etimo letterale di inter-esse mette in evidenza la relazione.
(6) Intervista al “Manifesto”, 28 febbraio 2014.
(7) Oggi dobbiamo allargare le parole ‘operaio’ e ‘capitalista’ a molteplici attività, non comprese nel significato tradizionale di queste classificazioni sociali.

11-3-2014