
Camille Claudel
Quando si parla di crisi della politica o della partecipazione, nella
stragrande maggioranza dei casi si fa riferimento alla crisi dello stato,
delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati, o in generale delle arene
in cui la gente potrebbe imparare ad esprimersi e a confrontarsi. Si fa
riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle
organizzazioni o, al limite, alla scomparsa di soggetti politici definiti,
di grandi narrazioni capaci di unire e trascinare le persone. Di conseguenza
si propongono riforme, interventi, operazioni d'ingegneria politica, nuove
aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto e di rispondere
agli elementi di crisi. Nessuna di queste operazioni tuttavia sembra veramente
in grado, di per sé, di rinnovare la scena o di invertire il segno
depressivo che ha investito lo spazio politico. Anzi, l'investimento simbolico
assai diffuso sulla politica come spazio della decisione, del potere o
addirittura del comando, contrasta singolarmente con la tendenza all'omogeneizzazione
degli schieramenti, degli immaginari e perfino delle scelte strategiche
oggi così manifesta e con la natura conservativa del sistema politico.
Ho
sempre trovato stimolante - per comprendere le basi di questa ripetitività
della politica - la critica femminista del dualismo pubblico/privato su
cui si è strutturata la società e le relazioni tra i sessi.
Attraverso questa contrapposizione fondamentale, infatti, come ha notato
Jessica Benjamin, "un intero ambito di attività umane,
specificatamente la nutrizione, la riproduzione, l'amore e le cure, che
nella storia della società moderna divennero destino delle donne,
furono con ciò escluse dalla considerazione morale e politica e
confinate nel regno di natura" (Benjamin, 1991, pp. 211-212). In
altre parole tutto il sapere, le sensibilità e l'intelligenza legati
all'esperienza delle relazioni fondamentali non trova generalmente eco
nello spazio politico. Questo naturalmente ha avuto delle conseguenze
importanti sul piano della vita politica.
La relazione, la dipendenza, la mediazione sono il fondamento stesso della
vita. Riconoscere la centralità delle relazioni nella polis, non
porterebbe solamente a valorizzare saperi e competenze tradizionalmente
femminili ma permetterebbe anche di arrivare a concepire più facilmente
un tipo di azione politica basata sull'idea e sulla pratica della mediazione
nelle relazioni piuttosto che sul potere e su un agire strumentale. La
concezione strumentale dell'azione politica, tipica della cultura politica
maschile, tende a reificare i valori e i desideri di cambiamento sociale,
trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile.
La struttura dell'azione strumentale è infatti tipica dei rapporti
tra persona e cosa, persona e oggetto, ovvero di quell'agire produttivo
che come ha notato Hannah Arendt (1993), rimanda alla concezione
e all'esperienza dell'homo faber. Le persone, in questo tipico modo di
agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per
realizzare i nostri progetti razionali.
Viceversa, nell'idea di Hannah Arendt l'azione politica riposa
sulla pluralità, sul rapporto diretto tra persona e persona. In
questa idea di azione politica la relazione non è soltanto un mezzo
ma è ciò che da il senso e l'orientamento. È nei
fatti la vera fonte della trasformazione perché attraverso l'interazione
può dar luogo a qualcosa di nuovo, d'imprevisto, d'inatteso. Il
nostro desiderio di trasformazione sociale non è più predefinito
ma si va costruendo attraverso la relazione con altre persone. In altre
parole, l'obiettivo della nostra azione non è più ricercato
all'esterno delle nostre relazioni e delle modalità stesse con
cui agiamo quotidianamente, ma al contrario nell'attualità del
nostro entrare in relazione ed agire insieme ad altri. Riconoscere questo
fatto è difficile soprattutto per gli uomini. Come ha notato Victor
J. Seidler, "come uomini, possiamo scoprire di essere più
concentrati nelle nostre attività che nelle nostre relazioni, visto
che troviamo più facile applicare nel nostro comportamento regole
e principi universali, piuttosto che rispondere in modo individualmente
attento ai bisogni degli altri. É come se il prezzo che siamo stati
costretti a pagare per il potere che abbiamo nella società, fosse
quello della cecità e dell'insensibilità nei nostri rapporti
personali" (Seidler, 1992, p. 58).
Il dualismo pubblico/privato vela dunque un'altra opposizione ben più
profonda e radicata nella tradizione politica occidentale, quella tra
sé e il mondo. Nell'arena politica si affacciano soggetti "neutri"
e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare
il mondo. Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte
ad un mondo esterno, una specie di brutta scenografia che esiste "là
fuori" e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola
in base ai propri giudizi e calcoli. Invano si cercherebbe nei discorsi
degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca
il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l'esistenza
di altri esseri. Così come invano si cercherebbe di leggere un
volto o un atteggiamento che riveli in filigrana il riflesso di un'autentica
ricerca esistenziale. Al contrario, l'inclinazione a voler cambiare il
mondo corrisponde il più delle volte alla monoliticità dell'essere,
all'indisponibilità del lavoro su di sé, alla mancanza di
una visione relazionale e di un movimento profondo che procede trasformando
in un flusso continuo il rapporto tra sé, gli altri, i contesti
in cui si vive, la realtà più ampia cui in qualche modo
si partecipa.
La tensione verso la trasformazione sociale in connessione con una rigidità
e una chiusura dell'essere crea dunque continuamente scacchi e contraddizioni
e, in generale, l'impossibilità di realizzare mutamenti profondi.
Non è solo una questione di resistenza o di attrito, ma anche della
povertà di un progetto politico razionalistico che non si nutre
continuamente del patrimonio di relazioni, esperienze, storie, vissuti,
sensibilità, competenze, desideri diffusi e socializzati. La ricerca
esistenziale e relazionale sta in effetti alla politica come l'acqua sta
alla terra: è necessaria per rendere fertile il terreno e per far
nascere ogni forma di vita.
"Vivere pienamente, verso l'esterno come verso l'interno - diceva
Etty Hillesum -, non sacrificare nulla della realtà esterna
a beneficio di quella interna e viceversa: considera tutto ciò
come un bel compito per te stessa" (Hillesum, 1987, p.45). Non si
tratta solamente di un compito per l'individuo ma di una necessità
della politica. Una politica viva affonda le radici nella ricerca, si
nutre dell'esperienza, fa tesoro delle relazioni, scommette sull'arricchimento
che può venire dal mettersi in discussione.
In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non
è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione.
Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico
e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri. Da questo punto
di vista, oltre al dualismo tra pubblico e privato e all'opposizione tra
sé e mondo, la politica maschile si fonda su un'opposizione tra
politica e passioni esistenziali.
In un libro intitolato Che cosa vuole una donna? Alessandra
Bocchetti scriveva significativamente: "Ciascuno deve far politica
per sé e a partire da sé, mettendo in gioco quel poco o
tanto di saggezza, di esperienza di cui è capace. Certo un politico
di sinistra si sente un po' smarrito di fronte ad un'idea del genere,
perché ha sempre avuto l'idea di fare politica per gli altri, per
gli oppressi, per i senza parola. E nella sua testa in un certo senso
la politica, alla fine, è una conseguenza della sofferenza. Invece
la politica sarebbe necessaria anche se tutti fossero felici. Perché
la politica è una qualità della condizione umana" (Bocchetti,
1995, p. 108)
Effettivamente la rinuncia alla ricerca e all'esperienza esistenziale
delle persone si riflette nella povertà della politica. La professionalizzazione
della politica e il suo appiattimento in tecnica di gestione e amministrazione,
per un verso nasconde le effettive emozioni che circolano tra i politici
- il godimento del potere, il piacere che deriva dal disporre degli altri,
dal riconoscimento, dalla deferenza, il narcisismo, la gloria, il sentimento
di onnipotenza e d'immortalità - e per un altro verso impedisce
di portare nella politica una complessità emotiva ed esistenziale
che invece potrebbe contribuire a migliorare la qualità della vita
collettiva.
Non c'è un tentativo di dar spazio a ciò che si porta dentro
di sé di vivente e non c'è un tentativo di mettere in relazione
il proprio desiderio di fare esperienza della vita con il desiderio di
fare esperienza del mondo e di contribuire ad una trasformazione sociale
in senso più umano.
Il fatto è che i desideri sono dappertutto eppure non c'è
desiderio autentico. Certo, la società in cui viviamo è
potente proprio perché fa leva sui desideri. L'intera nostra economia
si basa sui desideri. Siamo continuamente sollecitati ed indotti ad individuare
sempre nuovi desideri perché solo in questo modo si può
sostenere la crescita continua e quindi la nostra società di crescita.
Allo stesso modo, nell'ambito politico, si ricerca e si costruisce un
sostegno con la promessa di una generale soddisfazione dei desideri e
attraverso la loro manipolazione. In entrambi i casi ci viene chiesto
comunque di desiderare qualcosa che c'è già (i prodotti
esposti negli scaffali dell'ipermercato) o qualcosa di conforme alla realtà
esistente (gli articoli disponibili sul mercato politico). Si tratta cioè
- per usare l'espressione di René Girard - di desideri fortemente
mimetici. Si desidera quello che desiderano gli altri. Ciò che
gli altri mostrano di avere e che a noi manca. Quello che non è
previsto è che intervengano invece dei desideri nati da una ricerca
soggettiva ed autentica, dei desideri originali e difformi dalla norma.
Per mantenere intatto il sistema, "la limitazione qualitativa del
desiderio, il suo addomesticamento, è necessario come la sua crescita
quantitativa" (Volli, 2002, p. 11). Dunque viviamo in una condizione
di continua stimolazione e produzione di desideri eteronomi, un investimento
continuo a breve termine che si fissa su oggetti o idee predefinite ed
immediatamente disponibili. Tutto questo produce naturalmente, dietro
l'apparenza di cambiamento e di novità continua, una sostanziale
immobilità. Come suggerisce Ugo Volli, il cambiamento è
limitato alla superficie delle cose ed è sostanzialmente conservatore.
Si tratta per la verità di una forma di intossicazione. L'elemento
conservatore è dato da una continua ed immediata alternanza tra
evocazione di un desiderio predefinito, standardizzato e un appagamento
immediato. Una continua produzione di senso di mancanza e una continua
produzione di senso di piacere.
Ciò su cui val la pena riflettere, da questo punto di vista, è
che la componente più forte del desiderio, quella che connette
il desiderio ad una forza di trasformazione sociale, non coincide affatto
con l'appagamento o con il semplice principio del piacere.
Tutto al contrario, come ha notato Camille Dumoulié, "se
c'è qualcosa come un'utopia positiva del desiderio, cioè
una forza rivoluzionaria che anima ogni vera politica del desiderio, è
il suo rifiuto del principio del piacere" (Dumoulié, 2002,
p. 301). L'idea di ripensare la politica mettendo al centro il desiderio
non è affatto corrispondente alla infinita promessa di appagamento
prodotta dal mercato globale. L'ideologia del supermercato globale infatti
è fondata su due fantasie. La prima riguarda un eccesso di fiducia
nel volontarismo, nella forza di volontà come possibilità
di autoplasmarsi e di autodeterminarsi. In realtà per i processi
di cambiamento non è importante che cosa possiamo conoscere o decidere
razionalmente, quanto che qualcosa avvenga in noi, che qualcosa ci muova
completamente, da un punto di vista della comprensione, della percezione,
delle emozioni, dei sentimenti, del corpo, della mente. La seconda fantasia
è che ci sia possibile fare e diventare qualsiasi cosa. Ovvero
una fantasia di onnipotenza. In questo siamo il risultato di un'epoca
che ha promosso l'idea di un individuo autonomo e imprenditore di sé,
l'idea di felicità come un prodotto fra gli altri, raggiungibile
al limite con l'aiuto di qualche pillola e di qualche manipolazione.
In passato la società e la cultura ci dicevano, in base alla classe
sociale, alla religione, che cosa, chi dovevamo essere. Questo ci forniva
da un lato un certo senso di sicurezza e di tranquillità, dall'altro
essendo qualcosa di costringente ci procurava anche delle nevrosi. All'opposto
oggi la cultura dominante ci illude reclamizzandoci continuamente una
molteplicità infinita di rappresentazioni e possibilità.
Ci vuole convincere che possiamo sperimentare qualsiasi cosa, essere qualsiasi
cosa, fare qualsiasi cosa. Nell'epoca del mercato e dell'individualismo
ogni desiderio sembra ugualmente possibile e desiderabile. Non ci sono
limiti o tabù di sorta. Tutto è apparentemente realizzabile.
Crediamo che basti allungare la mano e sforzarsi con la buona volontà.
Allo stesso tempo, poiché nessuno ci dice cosa essere o ci regala
un'identità preconfezionata, noi diveniamo anche responsabili di
chi siamo, di quello che diveniamo di fronte a noi, agli altri, alla società.
Essere noi stessi diventa un compito, un'impresa. In realtà l'altra
faccia di quest'idea di onnipotenza è la depressione. Vogliamo
cose che non riusciamo a raggiungere. Ci sentiamo insufficienti, impotenti,
stanchi, andiamo in panne. La nostra depressione - come suggerisce Alain
Ehrenberg -, ci segna il limite tra il possibile e l'impossibile, traccia
il confine dell'immanipolabile. Non possiamo determinarci a nostro piacimento.
La depressione si affaccia quando scontiamo l'idea di una possibilità
illimitata con la coscienza dei nostri limiti. Scopriamo che c'è
un limite non padroneggiabile. C'è un margine di noi stessi che
rimane immanipolabile. Come dice Alain Ehrenberg all'interno della
persona c'è sempre un "lembo d'inconoscibile" che non
può sparire del tutto. Il delirio di onnipotenza, ovvero partire
dall'infinità di possibilità anziché dal rispetto
per il lembo d'inconoscibile che portiamo dentro noi stessi, ci condanna
non alla felicità ma alla depressione.
Tutto questo non ci avvicina affatto alla libertà. La libertà
si dispiega nella ricerca di una fedeltà profonda a se stessi e
alla propria esperienza. Quel che ci muove è l'idea di diventare
migliori, uomini migliori, persone migliori. Ci spinge il desiderio di
trovare in noi stessi e nelle nostre relazioni forme di umanità
più profonde, più intense, più belle. Possiamo maturare,
trasformarci, divenire qualcosa di nuovo, forse dare vita ad un mondo
migliore ma non possiamo fare qualsiasi cosa e soprattutto non qualcosa
che abbiamo programmato idealmente a tavolino. Una vera ricerca esistenziale
ed una politica del desiderio partono non da una semplice mancanza che
si può colmare a piacimento, ma da una condizione accettata di
incompiutezza intrinseca alla nostra parzialità e originalità
e alla nostra dipendenza dagli altri, così come da una nostalgia
del futuro. "Il y a toujours quelque chose d'absent qui me tourmente"
scriveva Camille Claudel, in una lettera a Rodin. Così anche
per noi c'è sempre qualcosa di assente che ci tormenta, qualcosa
che ci incanta, che ci impedisce di bastare a noi stessi e ci spinge a
cercare ancora per noi e per gli altri. Si tratta di un desiderio vitale
di fondo, di una tensione e di un'apertura senza determinazioni prevedibili.
Noi possiamo mantenere una tensione ideale, un orizzonte di senso, una
direzione interiore ispirata a qualcosa di non ancora raggiunto. È
la disponibilità verso qualcosa che non conosciamo, che è
più grande di noi e che è sempre appena di là da
venire. Una direzione o una danza che si balla assieme ad altri piuttosto
che una meta raggiungibile da soli. Qualcosa che lascia spazio appunto
alla relazione, all'ascolto di sé, all'imprevisto, al caso. Un
desiderio di cui non possediamo un'immagine.
In fondo, per diventare più umani noi stessi, per rendere più
umano il mondo - come direbbe Raoul Vaneigem "non abbiamo
bisogno né di preghiere né d'incantesimi ma di un senso
più acuto della poesia vissuta" (Vaneigem, 1999, p. 108)
*Sociologo, Università di Parma
Bibliografia
AA.VV., "É
accaduto non per caso", Sottosopra rosso, gennaio1996,.
H. Arendt, Vita Activa, Bombiani, Milano 1991.
J. Benjamin, Legami d'amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose,
Rosemberg & Sellier, Torino 1991.
A. Bocchetti, Cosa vuole una donna. Storia, politica, teoria. Scritti
1981/1995, La tartaruga, Milano 1995.
Diotima, Oltre l'uguaglianza. Le radici femminili dell'autorità,
Liguori Editore, Napoli 1995- La sapienza di partire da sé, Liguori
Editore, Napoli 1996.
C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi,
Torino 2002.
A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società,
Einaudi, Torino 1999.
E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1987.
V. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione
linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992.
R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, Torino
1999.
U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina,
Milano 2002
27 gennaio
2005
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