Di rappresentanza.  E di rappresentazione

Paola Melchiori

 

 

Nel nostro gruppo, a Paestum,  si e' parlato molto, quasi esclusivamente, di rappresentanza. Devo dire che ho abbastanza patito, con Bianca Pomeranzi, del peso quasi totale che ha preso questa questione. Tuttavia mi sono detta che, evidentemente, la questione di una visibilita' minimamente aderente alla modificazione della realta' avvenuta in questi anni nella coscienza individuale e sociale delle donne e' diventata troppo drammatica. 
Verso la fine una donna peruviana, peraltro in Italia da 25 anni, per niente rivendicante vittimisticamente riconoscimenti, ci ha chiesto: ma  voi ci vedete? E cosa vedete di noi?
Era una domanda importante.
Rappresentare, rappresentarsi.
Malgrado la “cura” fosse uno dei temi chiave dell 'incontro, non siamo riuscite piu' di tanto a creare condizioni di visibilita', di rappresentazione, in quel modo che riteniamo “nostro”, di questo mondo sommerso delle donne migranti, della vita di donne che  si fanno in molti casi  carico della nostra sopravvivenza psichica, oltre che di quella materiale dei nostri genitori, (almeno cosi' lo vivo io che devo loro la mia liberta', da molti, molti anni).  La deinvisibilizzazione di cio' che appare  “ovvio e facente naturalmente parte di un paesaggio, anche mentale” e' stata una delle forze teoriche del femminismo, tanto quanto l'invisibilizzazione e' una delle strategie piu' antiche del patriarcato. Nel nostro gruppo, e anche in tutto il convegno, a me pare che questo problema sia stato percepito con meno urgenza. Mercedes Frias lo ha chiamato “ deficit di un allargamento del soggetto”. Il nostro e' stato un incontro interessante, straordinario, importante per la nostra storia, ma anche “bianco”, bianchissimo. Dobbiamo dircelo, saperlo come una consapevolezza da tener presente alla coscienza.

La nozione di rappresentanza dovrebbe forse ri-partire da quella di rappresentazione.

A cosa vogliamo dare rappresentazione, e come. Certo le priorita', le urgenze della condizione denunciata dalle generazioni colpite dal precariato sono drammatiche, importanti.  Ma, anche per comprendere meglio questa situazione, in un momento storico come questo, a me pare che questo allargamento e il cercare nessi tra situazioni apparentemente lontane sia fondamentale per capire anche noi stesse. Siamo parte di un movimento piu' vasto, le quote vengono da altri luoghi e sono state ampiamente sperimentate. Sento poca curiosita' per  esperienze di altri luoghi, per le tante diversita' e somiglianze il cui confronto ci puo' far saltare delle tappe.
Vale anche per la discussione sulla rappresentanza.
Ho ritardato per Paestum la mia partenza per il Canada.  Ci arrivo subito dopo Paestum.  E' tempo di elezioni provinciali. Il Canada, si sa, e' uno dei luoghi di maggiore uguaglianza e emancipazione delle donne, insieme ai paesi scandinavi.  Con estrema sorpresa leggo una serie di lamentazioni e interrogazioni sul fatto che alle donne “non interesserebbe o interessa  piu' la politica”: i numeri di candidate alle elezioni diminuiscono anno dopo anno. Si moltiplicano studi, allarmi e interviste. Una analisi piu' approfondita aggiunge: le donne fanno moltissima “politica informale”,  sono estremamente presenti in tutti i luoghi del sociale, fanno politica locale perche' questo permette loro di conciliare i ruoli lavorativi e domestici, inoltre  rifiutano una carriera fatta di competizione e dominata da una cultura maschilista. Vi ricorda qualcosa?
In agosto, alla nostra Universita' Nordica, in Norvegia, ho ascoltato  discorsi non molto dissimili. La Norvegia e' un paese dove mesi fa e' stata nominata ministra della cultura una donna di 29 anni, figlia di immigrati pakistani, prima donna ministro cosi' giovane, prima donna- ministro di religione  musulmana. Qui si sono inventate le quote, qui le aziende sono obbligate ad avere per legge nei Board il 40 % di donne, qui le donne sono ministri della difesa, delle finanze, generali dell'esercito, (il che forse,  tra l'altro, dovrebbe porci qualche problema). Hanno bilanci, portafoglio, non poteri fasulli di rappresentanza.  Eppure si moltiplicano libri sulle “trappole dell' uguaglianza”. Eppure le “rappresentanze” reggono bene solo a livello locale. E anche da noi e' a livello locale che si sono viste maggiormente comparire differenze significative nella gestione “femminile” del potere. Ma le donne a livelli alti di potere reale che si oppongono a scelte di partito, come ad esempio alla trivellazione di ulteriori giacimenti petroliferi, (“In Norvegia abbiamo riserve per tre generazioni, perche' estrarne ancora?”) vengono fatte fuori, e con meccanismi che si usano solo con le donne.   Da  qui  mi appare evidente la definizione di Bourdieu: il patriarcato e' una struttura che sa come ristrutturarsi, cambiare perche' nulla cambi, e lo fa in gran fretta e con grande efficienza.
Le quote sono nate negli anni settanta, in altro contesto. Anche in Norvegia sono state considerate allora un “golpe”, perche' “chiedere il 40% era percepito dagli uomini come un 60%”. Sono  uscite dalla combinazione  di una serie di atti trasgressivi personali ma soprattutto da alleanze in cui cruciale e' stato il fatto che la fedelta' alle donne abbia avuto la meglio sulla disciplina di partito, che si sia inventato un patto di ferro, notate,  rigorosamente segreto, che  ha unito personalmente su pochi obbiettivi identificati come comuni donne di tutti gli schieramenti, con la reciproca promessa, appunto, di anteporre il patto trasversale tra donne quando i reciproci partiti, inizialmente ignoranti e sottovalutanti l'iniziativa, avrebbero chiamato all'ordine...le pecorelle smarrite. La mia amica norvegese che ha inventato le quote, chiedendole al 50% e ottenendole al 40%, le ha  poste come condizione di accettazione della sua disponibilita' a fondare un nuovo partito a sinistra del Labour,  con un atto di insubordinazione. E' stata poi esclusa da una seconda candidatura in Parlamento da questo suo stesso partito perche' aveva detto della futura Unione Europea, negli anni ottanta, le cose che oggi tutti diciamo.
Gli anni di sperimentazione, 40 non sono pochi, ci dicono che quello che Cigarini scriveva e' piuttosto attuale. E questo non significa condanna di una proposta di adempimento costituzionale che ci porterebbe magari almeno alla pari di paesi come Ruanda  e Mozambico,
noi, -che ci consideriamo spesso parte di un femminismo cosi' speciale e unico-, non significa condannare il desiderio di coloro che hanno voglia di misurarsi con una presenza istituzionale. Significa solo che se non sono date alcune condizioni di base, compresa la denuncia chiara e consapevole delle radici di un desiderio individuale, senza il “non sorvolare” di cui parla Cigarini,  perderemo un sacco di tempo, e per scarsi risultati. Quello che da tantissime di queste esperienze viene fuori e'  che queste misure non garantiscono nulla, di per se', perche', affermazione di principi simbolici a parte, anche quel po' di potere che abbiamo avuto anche noi e che magari potrebbe “nutrire”  di pensiero le quote viene o da atti contagiosi e fortemente trasgressivi di coraggio individuale,  o da altre modalita'  fortemente trasgressive sul piano dei poteri reali e simbolici,  in cui si gioca con regole e modalita' che con la politica formale non avevano/hanno nulla a che fare ma hanno a che fare con contenuti che emergono da pratiche capaci di pensare diversamente, capaci di evocare e reimmettere nel paesaggio mentale il rimosso della politica, di evocare i corpi, di deinvisibilizzare l' imprevisto. Vengono dalla capacita' di infischiarsene dei richiami di partito, vengono da qualche obbiettivo comune su cui e' chiaro che gli interessi delle donne tagliano orizzontalmente qualunque giochetto di schieramento. Vengono da meccanismi, e desideri reali! di  ferrea accountability ad altre donne di riferimento che stanno alle spalle.
Oggi siamo in un momento, dopo la crisi del 2008, che ci ha mostrato dove stanno i poteri reali. E' per questa inedita chiarezza delle cose e dei fatti che, appunto, i nuovi movimenti ridiscutono totalmente, anzi danno per morta una certa concezione della  rappresentanza, e che  la questione della democrazia e' in totale ridefinizione. Non possiamo non tenerne conto.  Si dice che appena un luogo perde di potere, allora si apre alle donne. Oggi,  quanto il potere sia nei parlamenti e' questione da valutare bene. Insomma, al di la del fatto che va benissimo che una persona segua il suo desiderio, che  va benissimo fare una battaglia simbolica, pure, un minimo di discussione sul dove, a che livello, su che cosa  e come investire le forze non andrebbe fatto? Ad esempio le donne con esperienza di governo ci dicono come la frammentazione “ quasi disciplinare” dei ministeri renda cosi difficile il “pensare” un vero cambiamento. E ancora, ad esempio: le donne che entrano nell'esercito che cosa ci portano di specifico? Per ora solo l'aumento del tasso di stupri da  parte di colleghi. Insomma il nostro “pensare diversamente” i legami tra aspetti del reale apre la necessita' di uno scenario mentale totalmente diverso. Se essere nello spazio pubblico non significa rendere evidente un modo di rappresentare la realta' “altro”, a cosa ci serve?
Nel 2003 abbiamo fatto un seminario cui abbiamo invitato donne parlamentari o di alta responsabilita' nei governi che avevano a un certo punto dovuto o deciso di dare le dimissioni dal loro incarico: dal Sud Africa, al Brasile, all 'Est Europa, alla Scandinavia. Di tre cose mi ricordo bene per l 'impatto emotivo di quei racconti: della distruttivita' delle divisioni tra donne in un ambito direttamente esposto ai ricatti dei colleghi maschi, dell'eliminazione per eccesso di successo, insopportabile a colleghi maschi che le avevano pure aiutate inizialmente, dell'infinita stanchezza nel porsi la questione : “fino a che punto posso mediare e ingoiare per un obbiettivo finale, sempre piu' generale, sempre futuro, sempre richiedente unita' emergenziali, sempre piu' importante di qualunque questione riguardante le donne”. Dopo aver visto tante tante donne sparire nei  meccanismi della politica, trovarsi inchiodate da ricatti con la scusa via via di  emergenze prioritarie , dover mandar giu' rospi di tutti i tipi, tutti “necessari” per non dare spazi a “nemici”, a caduta di governi, non possiamo ripartire solo da numeri.

 

26-10-2012

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