Perseverare è diabolico

Maria Grazia Campari

 

La diabolica perseveranza è quella che ispira l’opera di progressivo annullamento dei diritti di democrazia nei luoghi di lavoro attraverso successivi accordi e protocolli d’intesa fra Sindacati confederali e Associazioni padronali.
Mi riferisco all’Accordo interconfederale 28 giugno 2011, al Protocollo d’intesa 31 maggio 2013 (sui quali vedi i miei commenti in “ Un piano reticente” e “Una democrazia soffocata”) e al Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 sul quale dirò brevemente.
Il complesso articolato del recente Accordo fra Sindacati confederali e Confindustria offre, come i precedenti, spunti di riflessione critica che, a mio parere, si possono sintetizzare in due constatazioni: la prima è che anche dopo la modifica dell’art. 51 della Costituzione persiste l’atteggiamento anticostituzionale consistente nell’ignorare completamente le donne; la seconda è che – anche a causa di ciò- si porta a ulteriore effetto la cancellazione dell’autonomia, della possibilità di dissenso, quindi della libertà sindacale delle lavoratrici e dei lavoratori.
Il testo appare in contrasto con il fine di tenere insieme contrattazione individuale e collettiva, ascolto e formazione di una linea di rivendicazione condivisa, elementi utili se non indispensabili nell’attuale temperie politica che vede in sofferenza partecipazione e conflitti collettivi. La cifra del presente è la solitudine della classe lavoratrice.
Una solitudine dovuta alla frantumazione dei soggetti nella precarietà anche esistenziale che colpisce maggiormente le donne, tuttora ai margini della cittadinanza soprattutto a causa dei compiti gratuiti di cura sostitutivi del welfare che esse si assumono, volenti o nolenti.
Il quadro d’insieme dopo l’Accordo del gennaio 2014, peggiorato per tutti, lo è in particolare per loro. Sono, infatti, presenti tutte le caratteristiche negative analizzate a suo tempo e altre ancora.
Un complesso meccanismo di “accreditamento” autorizza la rappresentanza quasi esclusivamente in capo ai sindacati confederali del cui carattere oligarchico/maschile non è lecito dubitare. Solo queste organizzazioni possono, infatti, usufruire delle deleghe certificate per le trattenute operate dai datori di lavoro, uno dei concorrenti requisiti per essere considerati agenti contrattuali.
Non a caso persino le deleghe ai sindacati di categoria aderenti a quelli confederali sono sottoposte al requisito dell’accettazione dell’Accordo 2011 e del Protocollo 2013.
Anche il secondo concorrente criterio, il dato elettorale nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie (RSU), è solo apparentemente più democratico perché la possibilità di indire elezioni per scegliere i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro è data solo se richiesta congiuntamente dai sindacati confederali, con evidente ostacolo per ogni altra formazione democraticamente auto costituitasi in virtù di un consenso di base.
Persino la scelta di passare dalla vecchia rappresentanza sindacale aziendale (RSA) scelta dai sindacati confederali alla rappresentanza unitaria (RSU) eletta dagli addetti all’unità produttiva, è posta in capo ai confederali (se richiesta nella misura del 51%), non spetta liberamente ai lavoratori. I quali, poi, non sono considerati nel computo come soggetti, ma come unità lavorative, misurate in base al loro orario contrattuale, un riconoscimento palese di legittimità per la flessibilità prevalentemente regolata dai dettami padronali.
Quanto alla contrattazione, essa è valida solo se iniziata e conclusa da sindacati che rappresentino complessivamente oltre la metà dei lavoratori interessati, unici titolati a elaborare la piattaforma rivendicativa e stipulare gli accordi: un patto di unicità del soggetto contrattuale che esclude i sindacati e le organizzazioni minori  e, naturalmente, le donne.
L’aspetto costrittivo risulta particolarmente evidente in sede aziendale, là dove si prevede che l’accordo concluso dalla maggioranza delle RSU debba valere indistintamente per tutti i lavoratori, anche non iscritti ai sindacati, senza possibilità di dare corso ad autonome piattaforme rivendicative, né di discutere ed eventualmente contrastare le ipotesi di accordo attraverso referendum.
Per di più, l’Accordo contiene una previsione esplicita di azioni repressive e risarcitorie contro le associazioni di minoranza che attivino azioni sindacali a contrasto, anche quando esse siano sollecitate dalla base.
Si procede per progressivo restringimento e non per allargamento dei diritti.
Nella stessa logica si pone la clausola che prevede la progressiva eliminazione del diritto di sciopero, un diritto di azione a contrasto delle disposizioni padronali, costituzionalmente riconosciuto alla collettività dei lavoratori e anche al singolo. Questo è il senso della clausola di “esigibilità” del contratto collettivo che estende, come si è detto, il vincolo costituitosi fra i contraenti a tutti i lavoratori del settore.
Un aspetto grave d’incostituzionalità che ha come esito, attraverso la negazione di una partecipazione allargata, la rimessa in campo del sindacato corporativo.
Questo aspetto è essenziale nella presente temperie politica, connotata dalla irrilevanza del voto dei cittadini e dalla quasi superfluità dell’organo di rappresentanza parlamentare.
L’accordo ribadisce la costrizione nell’orizzonte dato e sorvegliato quasi manu militari dall’apparato sindacale tradizionale, formatosi per cooptazione delle strutture dirigenti. (Ogni allusione al porcellum è voluta).
Viene in tal modo inibita la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di organizzarsi sindacalmente attraverso regole condivise di partecipazione democratica.
Si assiste a una deriva apparentemente inesorabile: dal Protocollo del 1993 che lasciava la possibilità ad associazioni di base che raccogliessero le adesioni di almeno il 5% dei lavoratori di dare impulso al processo elettorale, alla chiusura nel monopolio confederale iscritta negli accordi degli anni Duemila.
Un monopolio che rafforza l’esistente, quindi anche la rappresentanza sindacale a sesso unico.
Le regole procedurali nulla prevedono in termini di parità di candidature dei due sessi e francamente, data la complessiva struttura dell’accordo non mi sento di dolermene.
 Il che non mi impedisce di rilevare il silenzio assordante delle sostenitrici del 50&50 assai presenti nel sindacato CGIL.
Ben altra impostazione sarebbe stata necessaria e dovuta nell’attuale disastrata situazione del mercato del lavoro in cui l’Italia primeggia a livello europeo anche per il gender gap. Occorreva, cioè, prima di tutto ricreare una unità di interessi e di lotta attraverso misure efficaci di contrasto al gender gap modificando, attraverso un patto completamente diverso, l’impianto patriarcale del mercato del lavoro e del welfare, quello domestico e il poco di pubblico  che ancora residua.
Eppure, non sono mancati i contributi di esperienza sindacale e giuridica pervenuti a partiti e sindacati in occasione della discussione parlamentare sul tema, iniziata negli anni Novanta del secolo scorso e inabissata per la contrarietà trasversale di ben noti centri di potere.
Anche l’associazione di cui ero presidente, Osservatorio sul Lavoro delle Donne di Milano, ha contribuito proponendo un testo di legge formulato da alcune giuriste, dopo ampio dibattito con lavoratrici e funzionarie delle Camere del Lavoro di Milano, Sesto San Giovanni e Brescia.
La logica di quella proposta era incentrata sull’autonomia e l’autogoverno dei soggetti diversamente sessuati e poneva regole in grado di registrare questa realtà, capaci, cioè di contrastare la logica oggettivante del mercato, favorendo un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva rispetto a bisogni e progetti collettivamente elaborati e condivisi.
Era previsto un meccanismo elettorale promozionale per le donne, completo di clausola di chiusura antidiscriminatoria (nullità delle liste monosessuale); prevista la facoltà di presentare alle elezioni delle RSU liste elettorali di base, sostenute da una percentuale adeguata di sottoscrittrici e sottoscrittori, contro ogni monopolio del sindacalismo confederale; previsto il diritto d‘informazione in capo alle RSU elette ispirato alla proposta di V Direttiva comunitaria del 1983 su previsioni produttive e occupazionali, decentramento produttivo, cessione di rami e settori aziendali e quant’altro.  Inoltre era prevista la possibilità per le RSU di elaborare piattaforme contrattuali da sottoporre a referendum e poi la verifica, sempre attraverso referendum, di eventuali ipotesi di accordo e contratto collettivo. Conseguente la libertà di sciopero e di iniziative di lotta sociale e giudiziaria, ora negate esplicitamente dall’Accordo 10 gennaio 2014.
In un periodo di cancellazione per legge e per accordo del principio costituzionale del favor lavoratoris, un periodo in cui si nega, ma si pratica su larga scala la precarietà lavorativa ed esistenziale della maggioranza degli esseri umani, sembra giunto il tempo di opporsi alle prevaricazioni di varie oligarchie auto consolidate in modo trasversale affermando con la resistenza e con il conflitto, ormai conflitto esistenziale, “il diritto di avere diritti”.

24-2-2014