Femminismo anni Settanta
La memoria sul corpo
di Maria Grazia
Campari

Artemisia Gentileschi
Stiamo vivendo un periodo di intense rivisitazioni del passato.
Fra queste, mi ha colpito per la sua inopportunità tendenziosa, la memoria
di un presunto passato di violenza del movimento femminista negli anni
delle lotte sul tema dell'aborto.
Il momento politico in cui si gioca questo confronto fra memorie diverse
del passato è segnato, fra l'altro, dal prossimo scontro referendario
sulla legge approvata nel febbraio 2004 (procreazione medicalmente
assistita).
Uno scontro incentrato su principi giuridici ed etici fondamentali
soprattutto per le donne, se è vero, come è stato osservato, che il cuore
della questione che attraverso questa legge si perviene a raggiungere, per
offuscarla, è la libertà/responsabilità di autodeterminazione procreativa
femminile.
Nel momento in cui agisce il conflitto fra diverse visioni di civiltà
giuridica ed etica, le donne si vedono costrette ad affrontare questa
situazione in sé difficile, per di più facendo i conti con un castello
accusatorio che accosta l'aborto e il movimento femminista degli anni
Settanta, alla violenza che ispirò una parte del movimento antagonista in
quegli anni.
Una omologazione che ritengo mistificatoria poiché diverge radicalmente
dalla conoscenza che ho di quel dibattito al quale ricordo di avere
contribuito come giurista che partecipava ad un collettivo femminista di
autocoscienza.
In particolare, contesto che la ricostruzione storica possa essere quella
che viene proposta usando il concetto di violenza agita e tollerata, a
causa di un misconoscimento «della sofferenza del feto prodotta
dall'interruzione della gravidanza», e della mancata attenzione alle
tecniche contraccettive volte a scongiurare l'aborto.
E' opportuno evitare una ricostruzione falsata di contenuti e concetti,
per ricordare, innanzitutto, che la situazione di allora vedeva la
sostanziale permanenza della politica demografica del precedente regime
fascista, conservata attraverso l'obbligo alla maternità quale fatto
esclusivamente biologico, indipendente dalla volontà della donna.
Il risultato derivava chiaramente dall'iscrizione dell'aborto, come
delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe, e dalla sua punizione
con la carcerazione fino a cinque anni, secondo le previsioni del vigente
Codice Penale. Del pari, delitto contro l'integrità e la sanità della
stirpe era la propaganda anticoncezionale, anch'essa punita con la
reclusione fino ad un anno. Una situazione in cui, comprensibilmente, non
poteva restare gran traccia di pubblicità per le tecniche contraccettive.
Non dovrebbe destare meraviglia eccessiva il fatto che il dibattito fosse
fortemente condizionato dal desiderio di affermare una pratica di libertà
e di autodeterminazione femminile, di procreazione cosciente e non solo
biologica, anche attraverso lo strumento doloroso dell'aborto, mai, però,
scollegato dalla presa di coscienza della struttura violenta all'interno
della quale quella scelta risultava, per molte, obbligata: la struttura
del dominio maschile su tutti gli esseri viventi.
Questo approccio è assai chiaro e ampiamente noto, come portato delle
analisi condotte nei gruppi di autocoscienza del movimento femminista
autonomo.
Non solo, esso è stato anche pubblicizzato in vari documenti prodotti nel
corso degli anni Settanta. Si pensi, ad esempio, ad un testo del 1973 del
Collettivo di via Cherubini in Milano, che ricorda come l'aborto sia per
le donne questione di violenza e sofferenza. Concetto ripreso in un
documento del gennaio 1975 ove l'aborto è definito risposta violenta al
problema della gravidanza che colpevolizza ulteriormente il corpo della
donna. La proposta di molti gruppi e collettivi femministi fu quella di
non legiferare sul corpo delle donne, ma di operare unicamente sulla
normativa penale togliendo di mezzo il delitto di aborto, per creare un
percorso capace di dare voce e riconoscimento sociale alle scelte del
sesso che non aveva trovato iscrizione nell'ordinamento giuridico.
Questa la posizione del Collettivo donne del Palazzo di giustizia di
Milano (al quale appartenevo), che in un documento del dicembre 1976,
auspicava che non entrasse fra le norme che regolano la società il mezzo
più violento di controllo delle nascite.
Non si trattò di posizioni solo marginali.
Vi furono anche mobilitazioni di donne per l'aborto libero e gratuito,
autodenunce per aborti clandestini, raccolte di oltre cinquecentomila
firme per il referendum abrogativo delle norme penali. Tutto fu superato
da accordi parlamentari che portarono all'approvazione della legge 194/78
sul diritto di aborto. Una ricostruzione aderente ai fatti, non può porre
a carico del movimento femminista la sottovalutazione degli aspetti
dolenti e violenti dell'aborto sui quali, anzi, si prese coscienza proprio
in quegli anni e nel corso di quei dibattiti. Anche per il ricorso a
pratiche contraccettive va considerato l'ostacolo che allora poneva la
legge penale e la conseguente scarsa conoscenza di ricerche scientifiche
adeguate.
Che dire, poi, della sofferenza fetale se non che era allora concetto
riferito esclusivamente al nascituro in prossimità del parto, non
certamente all'embrione di cui solo in anni recenti la scienza ci ha dato
notizia.
Anzi, a questo proposito va ricordato che una proposta di legge appoggiata
da alcune donne legate a gruppi della sinistra extraparlamentare e
presentata in Parlamento da un deputato di Lotta Continua, proposta che
prevedeva la possibilità di aborto fin quasi al termine della gravidanza,
fu criticata e osteggiata da grandissima parte del movimento femminista,
proprio per l'intrinseca, inaccettabile violenza e cadde poi nell'oblio.
Mi sembra, quindi, opportuno quando si ripensa al passato e lo si fa
utilizzando la scena mediatica offerta da quotidiani a grande tiratura,
stare ai dati reali evitando accuse approssimative e indiscriminate che
recano violenza a storie personali e a soggetti in carne ed ossa.
questo articolo è apparso su
Liberazione dell' 8 marzo 2005
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