Dietro al referendum,
una riflessione sulla libertà delle donne


di
Maddalena Gasparini*
 


Elisabetta Sirani



E adesso, che ci è stata negata la possibilità di abrogare in toto la legge 40 ? Andremo a votare, naturalmente, non fosse che per ribadire che la salute delle donne resta un diritto anche se ricorrono alle tecnologie riproduttive. Ma vorremmo usare il tempo che ci separa dal voto per proseguire pubblicamente una riflessione che tenta di sottrarsi alle facili polarizzazioni, cui inevitabilmente si presta la logica binaria dei referendum (si/no). Fu infatti la profondità e la diffusione della pratica riflessiva che caratterizzò il femminismo degli anni 70 a impedire l’abrogazione per via referendaria della legge 194.

L’opposizione alla legge 40 è invece spesso appiattita sulla difesa della libertà individuale e della ricerca scientifica e lascia ai margini l’ampia e documentata riflessione delle donne che –unica nel ricco panorama di commentatori- riporta al centro l’aspetto fondamentale della procreazione assistita (e non): il suo nesso con la relazione fra i sessi. Del resto il legame fra il “generare” grazie alla procreazione assistita e l’ipotesi di “rigenerare” organi irrimediabilmente malati grazie alle cellule staminali derivate dagli embrioni riporta a quella fantasia di controllare la vita e le sue origini che si esprime tanto nella pretesa di imbrigliare il corpo femminile con leggi feroci quanto nella passione che anima chi fa scienza.

Ripartiamo dunque da quell’articolo 1 della legge, di cui un referendum chiede l’abrogazione,  che fa riferimento ai “diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”, l’ovocita fecondato in vitro cui si permette di svilupparsi non più di 2-4 giorni. Nell’esperienza femminile della gravidanza la natura dell’embrione si definisce in rapporto alla libera assunzione di responsabilità: inizio di una vita che si dichiarerà al momento della nascita, oggetto di perdita o rifiuto nel caso di un’interruzione spontanea o voluta. In virtù delle tecnologie che ne permettono la creazione in vitro e la conservazione nel tempo in stato di “sospensione vitale”, esso è stato dotato di un’autonomia che non ha e di improbabili connotazioni umane: “orfano”, “malato”. In questo spazio si è inserito il legislatore spingendosi a dichiarare l’embrione soggetto di diritto e richiamare le donne al ruolo di contenitore di una vita inaugurata da altri, uomo o dio, riducendo ogni alternativa all’insignificanza del residuo biologico. Persa la protezione femminile, c’è bisogno di regole che permettano un uso dell’embrione diverso da quello per cui è stato creato, purché ci sia il consenso delle persone che ne hanno permesso l’esistenza (a questo vincola la Convenzione di Oviedo, non a farne soggetto giuridico!). A partire dal riconoscimento di questa necessità si possono immaginare regole che non violino l’irriducibile libertà femminile di disporre del proprio corpo e insieme non offendano valori ampiamente condivisi.

Ogni forma di selezione embrionale è proibita dalla legge e presentata come pratica eugenetica, mentre la letteratura scientifica ne fa una manovra che aumenta le possibilità di “un bambino sano in braccio”, obbiettivo primario di chi si rivolge alle tecnologie riproduttive. Negli oltre vent’anni che ci separano dalla nascita della prima bambina concepita in vitro, lo sviluppo della genetica e della biologia molecolare ha aperto la possibilità di eseguire la diagnosi genetica pre-impianto e identificare così gli embrioni eventualmente portatori di anomalie genetiche; ma naturalmente non solo: se quella del bebé a la carte è una fantasia priva di ogni fondamento scientifico, la contiguità fra l’eliminazione di embrioni portatori di geni in grado di sviluppare malattie incurabili e la scelta di embrioni con alcune caratteristiche (per esempio il sesso) attualizza i timori di un ritorno all’eugenetica, seppure sotto altra forma e obbliga a definire i limiti di applicazione di questa tecnica.

Alla “materia prima” della riproduzione -gli ovociti, gli spermatozoi, gli embrioni- la scienza ha rivolto la sua attenzione non da ora, ma la disponibilità di embrioni non più richiesti a fini riproduttivi, ha dato sostanza al desiderio di svelare il segreto dell’origine della vita e alla fantasia di guarire ogni malattia e, perché no, sconfiggere la vecchiaia. Allo stesso “materiale” si guarda con occhi strabici, con la pretesa di imporre regole se attiene al desiderio femminile di un figlio, ma di usarlo liberamente se può migliorare o salvare vite compromesse da gravi malattie. A quali valori fare riferimento per orientarsi in un campo dove si incontrano aspettative di persone sofferenti con quel che resta di un desiderio e, non ultimi, enormi interessi economici? Rammento che le cellule staminali embrionali utili a fini scientifici sono tutte brevettate e in vendita; e anche il nostro paese (che proibisce la ricerca sugli embrioni) le ha già acquistate.

La libertà, di ricerca, cura e terapia, quando tocca i legami fra individuo e società va coniugata con l’equità e l’uguaglianza: nel contributo dei singoli, nella distribuzione delle risorse (che non sono infinite per nessuno), nell’accesso alle nuove cure. C’è differenza fra una donazione di liquido seminale e di ovociti, in termini di invasività e rischi. E’ proibita la commercializzazione di gameti ed embrioni, ma in molti paesi il rimborso spese mette a dura prova il termine “donazione”. La cosiddetta clonazione terapeutica ha bisogno di molti ovociti: a quali donne verranno chiesti? (per avere una sola linea di cellule staminali embrionali un’équipe sud-coreana ha avuto bisogno di 16 donne che hanno donato 242 ovociti!).

Insomma le risposte che dobbiamo dare sono molto più che un si (o un no) all’abrogazione di parti di una legge che già si è dimostrata inapplicabile. Se dare la vita non può che essere scelta delle donne, dare alla vita qualità e ricchezza, e sottrarla dai rischi della deriva mercantile, non può che riguardare l’intera collettività.

 

Questo articolo è apparso su Liberazione del 15 gennaio 2005

*Maddalena Gasparini è Vice-coordinatore del Gruppo di Studio di Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia