LA PARABOLA DEL MONDO BIANCO
di Rita Di Leo




Il lancio delle scarpe contro Bush rimarrà simbolo della sua leadership al pari di Guantanamo. E sono un simbolo anche le immagini accoppiate del soldato israeliano, armato sino ai denti e del palestinese che sorregge la figlia ferita. I simboli ammoniscono che non basta la forza per esercitare il potere bianco sul mondo contemporaneo.
Dopo il 1989 è proprio l'uso della forza che è prevalso e i compromessi e le contrapposizioni diplomatiche tra le due grandi potenze sono state sostituite dalla minaccia militare da parte della potenza vincitrice. In questi vent'anni la guerra fredda è continuata con le guerre calde in Jugoslavia, in Afganistan, in Iraq, in Medio Oriente (e in Africa). Senza contare il controllo «pacifico» dei paesi europei ex sovietici, oggi alla ribalta per i missili da piazzare in direzione di Mosca.

Dopo aver vinto, gli Usa hanno perseguito la strategia impolitica di annientare l'alleato dell'avversario. In Afganistan quando ancora c'erano i sovietici, la strategia fu di sostenere con armamenti, consiglieri, soldi e mass media i clan nemici dei clan filosovietici. La differenza era che gli uni erano musulmani fondamentalisti e gli altri moderati. Sappiamo come è finita, anzi come non è ancora finita giacché i taleban sono tornati.

In Jugoslavia le vicende sono state ancora più paradossali. Pur di rimuovere un capo di stato, tiepido alleato di Mosca, si è smembrato uno stato sovrano europeo, lo si è distrutto con «guerre umanitarie» e si sono lasciate conquistare parti di esso da contrabbandieri e mafiosi.

E poi c'è l'Iraq, per cinque anni siamo stati immersi in una tragedia la cui ratio ancora sfugge. Si è fatta per il petrolio? Per l'«esportazione della democrazia»? Per l'avversione per Saddam che favoriva nei contratti la Russia e gli europei? Quest'ultima sembra purtroppo la spiegazione più probabile. La conseguenza è che uno stato sovrano, una società laica e moderna, con università, centri di ricerca, tecnici e intellettuali di livello internazionale, è stato ridotto a un territorio diviso tra clan teocratici.

E infine il Medio Oriente. Come valutare la strategia di avversare Arafat e il suo partito laico e filoccidentale? Come spiegare la preferenza per le fazioni islamiche palestinesi sino a quando queste non sono cresciute e diventate il nemico Hamas?
E perché le élite dei due Bush e di Clinton hanno puntato sul nazionalismo e sulle teocrazie come antidoto sicuro alla politica? Non solo alla politica assimilabile a quella dell'Urss sconfitta ma proprio al tradizionale percorso politico che vuole la costituzione dei partiti, di una opinione pubblica, la legittimazione del dissenso, sistemi elettorali funzionanti, parlamenti e governi autorevoli.

La preferenza è andata alla cabina elettorale da cui doveva uscire sacralizzato un capo, nazionalista o teocratico. L'hanno a lungo chiamata democrazia. A credere in essa sono rimasti in pochi. E nessuno nei paesi in cui è stata così introdotta e dove adesso stanno tutti aspettando la ritirata dei bianchi.
Che a ritirarsi sia la più grande potenza militare dell'era moderna è una lezione. In nemmeno due decenni dinanzi al mondo non bianco questa grande potenza ha reso le nostre facce bianche corresponsabili delle sue incapacità. Ad avvicinare il momento in cui il mondo non bianco vorrà pareggiare il conto di quello che ha subìto. Chissà se allora basterà che alla Casa Bianca vi sarà Obama.

 

articolo pubblicato da il manifesto del 02.01.2009

 

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