Diritti di genere, mettiamoli al centro della politica

di Monica Lanfranco


Famiglia italiana, anni 30

Lunedì mattina presto, durante il programma radiofonico “Prima pagina”, nel quale a turno opinionisti (quasi sempre uomini) sottopongono all’ascolto la rassegna stampa e si confrontano con il pubblico, arriva una telefonata: un ascoltatore giovane, qualificandosi come elettore di centrosinistra, racconta di aver votato Prodi alle primarie e chiede al collega di turno se non pensa sia giusto che il leader dica con chiarezza, all’indomani delle manifestazioni del 14 febbraio, in particolare quella sui Pacs, se il futuro governo si attiverà o meno sull’equiparazione delle famiglie.

«Io - afferma - sono fermamente contrario ai Pacs per gli omosessuali; un conto sono le unioni tra donne e uomini, che possono scegliere se sposarsi in chiesa o civilmente, un conto è equiparare la famiglia tradizionale a quella gay». Legittimo pensiero; sull’aborto non si pronuncia, l’elettore di centrosinistra, quindi il suo parere non lo sapremo, ma non c’è da ridere.

Decenni di silenzio, non quello delle donne (in molte, tante, di fare e di parlare non hanno mai smesso, mi permetto di ricordare) ma piuttosto mi riferisco all’assordante vuoto di parole e fatti delle sinistre, e soprattutto all’interruzione di pratiche di condivisione e trasmissione della cultura dei diritti, hanno creato questo paradosso: un giovane di centrosinistra non riconosce come fondamento del suo essere di centrosinistra che l’estensione dei diritti è la chiave per conservare e garantire i propri; che questo allargamento è l’unica strada per scongiurare la deriva clerico fascista dei fondamentalismi nostrani e di quelli importati, che è l’alternativa ad un governo, e ad una cultura, che sta mettendo in pericolo i pilastri della democrazia. E, soprattutto, il suo attaccamento alla radicale visione patriarcale su famiglia e generi dice come appaia immutabile, persino in un giovane uomo, la prospettiva sulla realtà e sulla società.

Mi permetto di scommettere che, se il discorso fosse scivolato sull’aborto, sarebbero spuntati i diritti dell’embrione: quelli sì importanti, quelli sì da tutelare contro l’arrogante e non compassionevole donna, la cui capacità riproduttiva, da sola, non le attribuisce il merito di poter decidere in autonomia.

Quando si toccano argomenti così grandi, e si hanno risposte così piccole e anguste, non si può far altro che prendere atto che il lavoro da fare è enorme, in questo paese; se non si ha la fortuna di avere una classe politica (e forse una società civile) coraggiosa come quella spagnola, che fa del tema dei diritti di genere una questione di governo, e non un dibattito culturale interessante ma irrilevante, allora bisogna rimettersi in gioco e riposizionare le priorità, e farlo subito.

Dire forte e chiaro alle giovani generazioni, distratte o preoccupate da altre questioni, tutte importanti ma maggiormente focalizzate (per esempio il lavoro, il peso del denaro, la libertà di pensiero) che la capacità riproduttiva femminile è la risorsa più preziosa del pianeta, e non solo quella concreta che mette al mondo creature di carne. E’ necessario che le quaranta-cinquantenni che sono tornate in piazza riprendano voce, con generosità non oblativa, ma con maieutica determinazione per dire, alle figlie e alle sorelle minori, nelle scuole, nei partiti, nei movimenti e nelle associazioni che il mondo ha bisogno delle capacità e dei talenti femminili perché se non si volge in tempo lo sguardo della politica verso la riproduzione, piuttosto che solo sulla produzione (economica e commerciale) il pianeta esploderà.

E’ urgente mettere con le spalle al muro i propri amici, fratelli, compagni, amanti e colleghi nella vita privata come in quella pubblica chiedendo loro quanto sono disposti a cedere e a condividere con le donne, in termini di risorse, spazi e potere decisionale, pareggiando un conto storico asimmetrico che vede le donne reggere da sempre e quasi totalmente il peso del lavoro di cura. Facendo chiarezza, e non temendo di affermare, che nel lavoro di cura non c’è solo l’aspetto più ovvio e legato alla dimora privata: solo restando nei confini locali di nazione, se analizziamo le leggi che le donne hanno fortemente voluto, e i cambiamenti che hanno generato nella società, nessuno potrà negare che queste trasformazioni sono state migliorative per entrambi i generi.

Lo si dice poco, lo si ricorda ancora meno, e così non lo si trasmette come bagaglio fondante a chi si affaccia alla politica e alla vita: occuparsi della collettività, migliorare le regole condivise per garantire al massimo livello la libertà e le differenze è lavoro di cura. Con il divorzio, il diritto di famiglia, l’aborto, la legge contro la violenza sessuale, i congedi parentali questo paese ha visto crescere, non diminuire, la sua possibilità di civiltà.

Questa è stata, è, e deve essere considerata politica: spesso abbiamo pudore a dirlo, e invece va scandito forte e chiaro, agli uomini e alle giovani generazioni. Non ci accontentiamo di una manifestazione, facciamo diventare l’autodeterminazione femminile una priorità ad ogni livello.

 questo articolo è apparso su Liberazione del 18 gennaio 2006