Il dis-agio in senologia oncologica
l’esperienza trentennale di Gemma Martino e Hubert Godard*

Maria Nadotti

 

 

Il dis-agio in senologia oncologica. L’esperienza trentennale di Gemma Martino e Hubert Godard, un’opera a quattro mani che dà conto di una ricerca individuale e collettiva insieme, è un libro specialistico e allo stesso tempo un tenerissimo trattato sull’arte del curare. Ed è un libro prodotto in proprio, senza passare dalla defatigante e spesso avvilente macchina editoriale.
Ne sono autori Gemma Martino (Dir. Scientifico Metis Centro Studi Formazione e Terapia, Milano e Dir. Emerito Divisione Istituto Nazionale Tumori, Milano) e Hubert Godard (Analyse du mouvement, Université de Paris VIII, Saint Denis e Dir. Area Corporeità Metis, Milano), motore intellettuale e politico di una sperimentazione che ha messo consapevolmente davanti ai saperi medici e scientifici la soggettività delle curate e dei curati e quella altrettanto umana delle/dei curanti.
Nelle pagine dense e senza ‘parole a vuoto’ di un libro mirato a raccontare quel che il curante scopre quando rinuncia a fare esercizi di potere e di assolutismo scientifico, la voce dei due autori è non a caso affiancata da un’infinità di altre voci. L’effetto è straniante e del tutto inedito. Abituati a pensare che il nostro corpo e la nostra psiche siano nostri solo finché funzionano senza farsi notare, nel momento della malattia, del dolore, del bisogno siamo indotti a rivolgerci a esperti che in teoria dovrebbero sapere di noi più di quanto ne sappiamo noi stessi. Ed eccoci in balia del curatore/curatrice: passivi, deleganti, infantilizzati, sottomessi. Non più interi, non più capaci di volizione in proprio, da soggetti pensanti ci trasformiamo in corpi abietti, subalterni, sganciati dalla nostra storia, dall’idea che ci siamo fatti di noi nel corso del tempo, in altre parole spogliati della nostra soggettività. E, dove non c’è un soggetto, è impossibile che ci sia libertà.
È proprio questo rapporto dispari tra curate/i e curanti che Martino e Godard pongono al centro della loro riflessione e della loro pratica medica. Nel corso del tempo e attraverso una valutazione mai solitaria degli esiti del loro lavoro si sono accorti infatti che lo strumento cardine della cura è proprio la capacità del curante di mettere chi ha bisogno di cura in posizione di soggetto capace di autonomia di analisi, pensiero, decisione.
Compito dell’‘esperto’, il cui sapere sempre relativo è spesso un cercare nel buio, non è far credere al paziente – parola che nel libro non figura mai – di saperne sempre e più di lui. Una buona pratica di cura (ma non è così in ogni campo dell’esistenza?) è quella che crea interlocuzione paritaria tra due soggetti: un interrogare e interrogarsi insieme che pone chi cura in una posizione di scambio con chi è curato, non di autorità, potere, indifferenza o distrazione.
Le pagine del libro sono percorse da una grande attenzione per ciò che di solito è taciuto o trascurato: il paziente ha sempre una storia che precede la malattia, ha un sesso, un’età, una vicenda biografica, una lingua, una cultura, un intero insieme di convinzioni. Anche il/la curante ha una sua storia che nella relazione terapeutica entra in risonanza con quella del/della curata. Entrambi reagiscono alla malattia e alle reazioni dell’altro alla malattia. Entrambi si emozionano, hanno paura, temono di sbagliare, provano frustrazione, rabbia, smarrimento. È da questo incontro di umanità – nonostante la temporanea disparità dei bisogni e la differenza delle competenze e dei saperi tecnici disponibili in quel momento all’uno e all’altro – che nasce lo spazio della cura.
Illuminante in tal senso il capitolo in cui gli autori si domandano come si faccia a suggerire una terapia o a proporre un ‘protocollo’ se non si sa cosa legge, cosa sogna, cosa teme chi chiede di essere aiutato a guarire. Il lavoro di cura è dunque anche un lavoro di individuazione delle risorse interne del curato e di scoperta, forse invenzione, delle parole giuste per aiutarlo ad approdarvi.
Il linguaggio della medicina, troppo spesso escludente, autoritario, allarmante, punitivo, rammentano Martino e Godard, è un terreno cruciale su cui si gioca la qualità non solo della relazione curante/curato, ma dell’efficacia della cura stessa. Non fare paura, non allarmare, accompagnare suggerendo possibilità e facendo ipotesi insieme, significa de-medicalizzare la relazione medica.
Utile ricordare, come già fece Susan Sontag nel suo stupefacente Malattia come metafora – anch’esso nato non casualmente da un’esperienza diretta – che ci sono malattie che si accompagnano a un violentissimo stigma sociale e al conseguente senso di colpa, alla vergogna, alla solitudine del curato. De-metaforizzare, vale a dire smontare e indagare le metafore che ogni epoca associa a un male diverso (tisi, tumori, aids) è la forma più radicalmente politica che può assumere il rapporto di cura.
Questo fanno da trent’anni, con competenza e tenerezza Gemma Martino e Hubert Godard. Rompendo la dualità nefasta che vuole il curante in posizione di potere e il curato in posizione di dipendenza e subalternità, questi due ricercatori esperti nell’arte sottile della relazione propongono in questo libro un modello terapeutico basato sull’ascolto, lo scambio, la fiducia. Il sapere medico – questo il loro umanissimo e rivoluzionario approdo – non è solo un insieme di tecniche e di specialismi, un operare dall’alto sul bisogno muto del paziente. È anche, e forse in primo luogo, capacità di raccogliere e interpretare l’esperienza complessiva della persona che al medico si rivolge, senza ridurlo ai suoi sintomi.

 

* Chi volesse acquistare il volume può rivolgersi allo Studio Metis, Via Plinio, 1, Milano, tel. 02 2951 5510
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