Dividua. Femminismo e cittadinanza
Alessandra Pigliaru
Per padroneggiare la conoscenza bisognerebbe studiare le parole come si studiano le piante, gli animali, e addentrarsi nel possibile per inventarne delle nuove. In questo suggerimento di Goliarda Sapienza le si potrebbe poi espungere dall’ambito originario per inserirle nel proprio contesto. Si schiuderebbe una scena difficilmente prevedibile, con la forza della nominazione capace di risemantizzare il già dato. È proprio la fiducia incrollabile nelle parole e nella loro capacità politico-relazionale ad aprire il nuovo importante libro di Emma Baeri intitolato Dividua. Femminismo e cittadinanza (Il Poligrafo, pp. 294, € 22). Nell’invenzione del termine dividua, la storica e femminista segna un passaggio importante: «dico che noi donne non siamo individue (etimologicamente, in-dividuo = entità non divisibile, unità radicale del corpo, interezza) siamo dividue, e con questa dividualità lo statuto teorico e politico della democrazia moderna deve ancora fare i conti, visto che essa ha avuto effetti sostanziali rispetto all’attribuzione dei diritti nel tempo». L’invenzione indovina qui la scommessa di Baeri: sottolineare il nodo apparentemente inconciliabile tra femminismo e cittadinanza per riflettere su un nuovo patto di civiltà. Secondo l’autrice, che in questo volume sceglie di portare con sé anche il cognome materno Parisi, si deve poter osservare una relazione tra alcuni termini che sembrano essere contrari gli uni agli altri: diversità, uguaglianza, differenza. Ma la domanda centrale al testo, preziosa raccolta di scritti dalla fine degli anni Novanta a oggi, è: come entrare nella polis con un corpo di donna? Se l’esclusione è all’origine del contratto sessuale stipulato tra uomini, ciò significa che non se ne possa ridiscutere? Secondo Emma Baeri il problema tra diritti e libertà femminile non vuol dire che non si possa tracciare una mappa concettuale e politica di ciò che ne è stato il tragitto. Per farlo il metodo scelto è quello che concilia storia e desiderio, infatti «nominare il desiderio di una storia, la propria, significa quindi fare irrompere il soggetto, una donna, un uomo, e prima ancora bambine e bambini, ragazze e ragazzi, nell’ordine disciplinare e disciplinato della storia, con una domanda perentoria: “Io voglio il mio passato, il mio futuro, oggi”». La dirompenza sta nello spostamento da una metodologia storica neutra verso un movimento che Baeri, con Carla Lonzi, chiama di deculturizzazione. Da questo punto di avvistamento si può cominciare a discutere di democrazia, corpi e sessualità. Così, accanto alle interlocuzioni intrattenute in questi anni con Anna Rossi Doria, Renate Siebert e molte altre, non sarà strano trovare un saggio dedicato a Donna clitoridea e donna vaginale di Lonzi e neppure quello sull’esperienza di self-help o sul post-porno. Ciò va detto senza pericolo di fraintendimenti giacché la scrittura per Emma Baeri sembra essere il corpo stesso del desiderio. E del piacere. Anzitutto il proprio, conscia com’è di essere un’«isola-mobile» che agisce la politica in un orizzonte che comprenda il rilievo biostorico del proprio corpo, prima di ogni altro. Un rilievo questo del desiderio incarnato nei corpi che, secondo la femminista, dovrebbe assurgere alla relazione tra simbolico e sessualità. L’attenzione intorno alla sessualità, cominciata nei primi gruppi di autocoscienza e in quelli dell’inconscio, andrebbe interrogata costantemente. Il nome che spicca è quello di Lea Melandri con cui Baeri ha avuto uno scambio politico grato e fondamentale.
Emma Baeri, Dividua. Femminismo e cittadinanza, Il Poligrafo 2013, pp. 294, € 22 8-11-2013 |