Il velo degli uomini
di Ida Dominijanni


Silvia Levenson

Ne uccide e ne mutila più la violenza maschile che l'infarto, o il cancro, o la oggi tanto esecrata anoressia. Prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne di tutto il mondo, così dicono i dati ufficiali.

La mobilitazione e le manifestazioni di oggi non serviranno certo a eliminarla, come si propongono negli slogan, ma a imporla al discorso pubblico forse sì. Anche se a parlare, ancora una volta, sono le vittime, nel silenzio e nella latitanza dei carnefici. Le piazze ci accolgono, i giornali ci chiedono di scriverne, le radio di parlarne, i salotti televisivi non mancheranno di tingersi di rosa.

Proviamo a immaginare una scena rovesciata: che sia un uomo a scrivere questo editoriale, uomini a prendere il microfono, uomini a scendere in piazza e ad esporsi in tv. A dirci perché loro, o un loro amico o un loro nemico o un loro vicino di casa, sentono di tanto in tanto l'incontenibile impulso a far male a una donna, a possederla violentemente, o a eliminarla dal creato; a chiudere una storia d'amore infilando l'ex amata in un cassonetto, o a costringere ad amarli una che non vuol saperne, o più semplicemente a malmenare la moglie o la figlia al riparo delle mura domestiche, nel regno di una privacy delinquenziale che nessuna intercettazione infrange.

Perché? La domanda resta senza risposta. E la sessualità maschile, a onta delle sue manifestazioni così eclatantemente visibili, resta avvolta nel velo di una omertà autorizzante e assolvente.

Conosciamo l'obiezione: non tutti gli uomini sono così. Certo che no, infatti sono gli altri quelli che amiamo. Ma quelli che amiamo dovrebbero impegnarsi almeno loro a togliere quel velo, non dal viso delle donne islamiche, ma dal corpo degli uomini violenti. Solo alcuni, pochi, cominciano a farlo; i più si fanno scudo della sociologia, o dell'ideologia: è colpa della guerra, è colpa dei neocons, è colpa del sabato in discoteca, è colpa dei fondamentalismi, è colpa dell'Islam, è colpa dei barbari che ci invadono. C'è sempre un altro su cui proiettare la colpa e scaricare la responsabilità, negando l'evidenza e sfocando il problema.

L'evidenza, quella cruda dei numeri, mostra che la violenza sulle donne è trasversale e globale, sconfina fra civiltà, razze e continenti e non risparmia affatto l'Occidente opulento e democratico, al contrario. Il problema infatti non regredisce, ma al contrario si ripresenta, come un sintomo ritornante e irrisolto e inasprito, laddove più solida è la libertà guadagnata dalle donne.

I libri, pochi e preziosi, che tracciano la storia della maschilità occidentale lo spiegano bene: c'è regressione e reazione maschile, dall'Ottocento in poi, ogni volta che c'è uno scatto di libertà femminile. Ogni volta, l'insicurezza e lo spaesamento maschile per «la donna nuova» si arma di violenza e si traveste di virilismo; e appena può (anche oggi) va al fronte, o inventa fronti inesistenti (come oggi, con lo scontro di civiltà e le guerre culturali).

E' questo il prezzo che dobbiamo pagare? Non vogliamo pagarlo. Non vogliamo che lo paghino né le più deboli né le più forti. Toglietevi quel velo.

 

 questo articolo è apparso su il manifesto del 25 novembre 2006