Cristina Trivulzio fa fronte al ‘presente’

di Donatella Bassanesi

 

Contro l’economia fondiaria

Proprietaria di vasti possedimenti terrieri Cristina Trivulzio conosceva quella dottrina economica chiamata ‘fisiocrazia’ che riguardava l’economia fondiaria che tendeva alla conservazione della terra per i proprietari con l’esclusione dei contadini. Le si oppone proponendo la cooperazione.
Con il progetto di cooperazione va ancora più in là. Nel momento in cui comprende una latenza sotterranea di liberazione alimentata da antichi asservimenti vede quella possibilità di liberazione che volle spingere e guidare – fu travolgente e improvvisa un secolo più tardi con la Lega di Spartaco, e furono “opere di liberazione in nome di generazioni di vinti” (W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955, tr. it. Angelus Novus, Einaudi, 1962, in Scritti filosofici, p. 79)  

In politica

C.Trivulzio giudica i governi borghesi inaffidabili perché “propensi a sostenere interessi di classe, piuttosto che quelli del popolo e perché inquinati da pericolose venature dittatoriali e dispotiche” (cit. in M. Rossi, Cristina Trivulzio – principessa  di Belgioiosoil pensiero politico, Ed. Franciacorta, 2002).
Realizza come politica locale l’utopia di Falansterio di Charles Fourier (che normalmente non era costituito da più di 2000 persone, dove ciascuno faceva la cosa che era capace di fare ed era ripagato in proporzione – nel quale era importante l’istruzione per tutti (ed è proprio questa impronta socialista la misura della distanza da Mazzini, e dal suo antisocialismo).
Perché C. Trivulzio è anti-borghese e dissentiva dalla intenzione di Mazzini di dare un contenuto borghese al Risorgimento (che infine, pensava, si sarebbe raccolto in un partito d’opinione che sarebbe stato strumento di potere della borghesia) l’ipotesi di Cristina Trivulzio per quanto riguarda la politica generale aveva carattere anti-borghese e cosmopolita. E partiva dal socialismo umanitario di Saint Simon, per il quale tutte le Nazioni di Europa avrebbero dovute essere governate da un parlamento nazionale, che doveva rientrare in un parlamento europeo che avrebbe deciso degli interessi comuni all’Europa tutta. (Saint-Simon, Lettera di un abitante di Ginevra, in Opere, Utet, 1975, p. 20).

La domanda e le riflessioni di Cristina Trivulzio di Belgioso

La complessa situazione degli Stati nel 1948.

Le cause prima dei successi poi delle sconfitte.

La domanda di Cristina Trivulzio: Perché la storia d’Italia continua “a costituire un enigma?” è la questione di fondo affrontata in tre saggi pubblicati sulla “Revue des deux mondes”):

. L’Italie et la révolution italienne de 1948. Première partie. L’insurrection milanaise. Le gouvernement provisoire. Les corps auxiliaires (Paris, 15 sett. 1948) (tr. it. L’insurrezione milanese. Il governo provvisorio. I corpo ausiliari).
. L’Italie et la révolution italienne  de 1948. Deuxième partie. La guerre de Lombardie , le siège et la capitulation de Milan (Paris, 1° ott. 1848). (La guerra di Lombardia, l’assedio e la capitolazione di Milano).
. L’Italie et la rèvolution italienne de 1948. La révolution et la république de Venise (Paris, 1° dic. 1948). (la rivoluzione e la Repubblica di Venezia).

“L’informazione pubblica in Europa” rende “impenetrabile l’oscurità che da sempre avvolge la storia d’Italia” (Cristina di Belgioioso, Il 1848 a Milano e a Venezia, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 53), anche a ragione di “un simulacro di libertà di stampa” che è risultato di “interessi contrastanti in Italia” (ibid.). Mentre la Santa Sede con le “sue ambizioni di dominio”  “li ha classificati eroi o tiranni” in base all’attitudine “a inchinarsi alla Santa Sede oppure resoluti a resistere alle sue ambizioni di dominio” (ibid. p. 52).
Così chi credeva a ciò che veniva scritto in “opere pubblicate in Italia prendeva per veri fatti radicalmente falsi e accettava come equi i più iniqui giudizi” (ibid. p. 53).
E tuttavia “il popolo e i suoi amici, la parte liberale, marciarono (...) con coraggio e franchezza alla conquista dei propri diritti” (ibid.).

 

Cristina Trivulzio lettrice e interprete di Giambattista Vico.

Cristina Trivulzio dimostra nella sua storia una origine illuminista e razionalista. Donna dell’ottocento rappresentata nell’iconografia più tradizionale come eroina romantica, guardata più attentamente sembra liberarsi di quella che appare una sovrastruttura: la figura di eroina romantica così in un certo senso sbiadisce per far posto a un pensiero filosofico (la ricerca della verità) razionale e la volontà di tradurlo in pratica di impronta illuminista vichiana (le origini, la storia dei popoli, la natura) e kantiana (intorno al giusto e all’ingiusto, e dunque alla morale).

Con la volontà di modificare le cose del mondo (che è la politica) non perde tuttavia mai di vista le questioni che considera di fondo. Così l’esilio non risulta per lei emarginazione, allontanamento dal mondo ma apertura a esperienze, a mondi nei quali ripercorrere le origini è una sorta di volontà-necessità (così i viaggi verso l’oriente, le esperienze di nomade).

Fra il pensiero (e le sue traduzioni nel fare) di Cristina Trivulzio e i temi dominanti del pensiero di Giambattista Vico corrono sotterranee analogie: non confluenza di pensieri, ma pensieri e azioni che in un certo senso si richiamano da lontano.
Una analogia per la quale una sorta di tensione, simile a quella dell’equilibrista, sfida insieme se stesso lo spazio e il tempo.

Cristina Trivulzio è pensatrice che si colloca tra ‘700 e ‘800.
Nell’’800 per data di nascita, nel ‘700 per formazione e tratti illuministi.
Una tradizione verso il mondo nuovo che tuttavia riconosce nel passaggio dell’illuminismo (e nella rivoluzione francese) il tratto essenziale che caratterizza le possibilità di conoscenza.

Così Cristina Trivulzio intende rendere alla conoscenza (che è naturalmente critica) la possibilità di andare oltre se stessa diventando azione (e trasformazione) pratica.
A questo scopo esercita volontà e ragione che sono guida dei suoi progetti ( prima di tutto quello di trasformare il castello di Locate in Falansterio, la pratica di un altro modo di vita in comune).
Così applica il suo pensiero alla lettura di sé nel mondo (a partire dalla condizione che conosce intorno a sè) – Vico non scopre se stesso nell’altro ma l’altro in se stesso.
Ogni passaggio della vita diventa lezione da cui partire per ritrovare una possibilità, un ricominciamento, il prodotto di un mutamento (movimento) che non cancella ciò che è stato ma lo pone ad un piano diverso che non sappiamo se sia alle spalle, a lato o a qualche profondità di cui non possiamo sapere (di cui non esiste conoscenza, che potrebbe anche essere risultato del caso).

La Scienza Nuova di Vico: trova la sua radice nella universalità della natura umana, ossia nella materia umana (che è nella storia perché esiste un mondo umano in comune appartenente ad ognuno), ritrova i princìpi nelle modificazioni della mente.

La teoria vichiana della conoscenza: lo sviluppo della storia umana è contenuto in potenza nella mente umana e può perciò essere rievocata.

Vico, la filosofia-la filologia: nella Scienza Nuova dice che “la filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero”; mentre la filologia “ osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo", è “la dottrina di tutte le cose le quali dipendono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, dé costumi e dé fatti”. È il “sensus communis generis humani” a determinare l’ “arbitrium”.
Ma all’inizio gli esseri umani, naturalmente, non possono concepire l’idea del bene comune. Vico pensa a una vita primitiva che crea istituzioni severissime e feroci, frontiere insormontabili: un luogo dove non c’è libertà ma fissazione di limiti precisi che tengano fuori il caos del mondo circostante.
Senza avere a disposizione materiale preistorico, né antico-orientale, né etnografico sui popoli primitivi, anche se il Medioevo era quasi sconosciuto, Vico indaga le origini come il luogo determinante della formazione. Scopre le energie sepolte nella natura umana: la humanitas (il carattere comune alla natura umana , a tutti).
Chiama l’umanità naturalmente poetica: la vita quotidiana è il poema reale (poetico è il contrario di razionale, ponderato, è – riguardo ai primitivi – fantasia rigorosa, plastica, epico-storica).
Vico è stato il primo a formulare il concetto di ‘genio popolare’, attribuendolo alla poesia primitiva.
Perché intende partire dall’origine osserva come la natura umana sia mutevole (si evolve), e ai primi uomini che erano poeti succedono altri di ‘natura eroica’ e poi altri ancora di ‘natura razionale’ e poi inclini alla ‘astrazione matematica’. Ma, per altro verso, non c’è contrasto tra natura primigenia e istituzioni umane perché l’età dell’oro non fu di libertà naturale ma di istituzioni.
Si fa guidare dalle lingue e dai fatti. 
Perciò sottolinea come il pensiero e l’azione umana siano regolati dalla mente umana (il ritmo dell’azione, il movimento, risultano da una potenzialità , in un certo modo occulta, che rimane invisibile motore, non misurabile, sfuggente); come il pensiero debba essere utile alla collettività.
Perciò, dice Vico, è necessaria una Scienza Nuova (che definisce “nuova arte critica”) che attinge alle fonti eterne del diritto naturale, per il quale si conosce solo ciò che si crea, non c’è conoscenza senza creazione. Perché sono le creazioni a provocare quelle modificazioni della mente umana lungo le quali si può risalire alle civiltà più antiche. E sono i princìpi a sottolineare e a essere le modificazioni della nostra mente.
Il punto di partenza è dunque la critica delle forme dell’espressione umana (la lingua, il mito, la poesia). Per Vico non c’è per l’uomo altra natura che la sua storia.
È l’universalmente umano ad essere la terribile realtà della storia. Ed è la storia umana che, passando attraverso la ragione, conduce all’uguaglianza e alle democrazie perché nella storia umana si produce la Divina Provvidenza, che è un fatto storico.
Nella Scienza Nuova il fondamento è il ‘vero effettuale’. Oltre, la ‘metafisica’ che è ‘humana imbecillitate digna’, disegna i limiti del nostro pensare.

Cristina Trivulzio, quel mondo lontano dell’oriente in cui collochiamo le nostre origini, il nomadismo che pensiamo sia stato dei nostri progenitori, lo fa diventare sue esperienze di vita. Sono quelle realtà a provocarla a un ‘gioco’ per il quale prendere distanza da sé è avvicinamento dell’altro per conoscere di sé qualcosa che di sé non si sapeva. Si tratta della questione della radice e della sua natura necessariamente e naturalmente nascosta.
E così passare per Vico.

Vico. Filosofo del ‘700, illuminista, razionalista, e interessato al pensiero primitivo il cui carattere principale è emotivo: perché è l’origine a essere principio di conoscenza (ma l’origine è incerta, situata nel fondo antichissimo e nell’emergente presente, di cui nella lingua c’è la traccia – che mostra l’etimologia e l’uso quotidiano).
Vico chiama Omero padre di tutto il sapere della Grecia.
È dunque il mito (il racconto) ad essere al fondo della filosofia – che tuttavia più che costruire, scopre, libera dalla copertura, perché ricerca verità.

Nella Scienza Nuova (1725) Vico definisce filologi i poeti, gli storici, i retori, i grammatici.
Mentre si stanno sviluppando le utopie razionali, nell’illuminismo che va facendosi, Vico ricerca una scienza degli inizi della storia del mondo; vuole comprendere l’essere umano degli inizi, della sua condizione sociale: la (e nella) struttura spirituale del primitivo che era scarsamente logica ma ricco di capacità emotiva e di fantasia, di un “universale fantastico” a ragione del quale si formò la personificazione delle forze della natura in una sacrale-fantastica coerenza.

Problema di Vico è se vi sia un diritto in natura.

Importanza della parola natura.
Vico pensa natura in senso corporeo quando dice che Dio lo Spirito regna libero sulla natura, ci dà e ci conserva l’esistenza in modo naturale. Pensa natura contrapposta all’ostinato studio dell’arte. Pensa natura come natura sociale e spirituale: la natura principale degli uomini è “essere socievoli” ossia avere “civil natura” (il ‘civile’ di Vico è il ‘socievole’ ed è di natura spirituale) a ragione di un “diritto in natura” comune a tutti gli uomini e a tutti i popoli. Pensa alla “lingua mentale” che “è nella natura delle cose umane”, lingua dello spirito umano che è “naturalmente” portata “a dilettarsi dell’uniforme”. E anche, nei momenti di grande civiltà, natura come ragione illuminata.
 
Natura è parola che deriva da nascere, ciò che sta nascendo, è nascimento, appartiene all’umano in quanto naturale (dal momento della nascita e perché c’è nascita – e dunque anche morte), ed è anche il momento storico a produrre quel certo stato di natura che perciò in quel certo momento è nato. Dunque esistenza che dura nel tempo e anche movimento del nascere e del divenire, che si collega alle origini delle cose (e perciò esiste anche un legame tra natura e storia, ossia natura come stadio di sviluppo, essenza dell’evoluzione storica.
Natura dove lo Spirito regna assoluto e libero (l’esistenza naturale e corporea) contrapposta all’ “ostinato studio dell’arte”.
È capacità di evolversi. Riguarda perciò l’ “essenza dell’evoluzione storica”, uno “stadio di sviluppo” (G.Vico, Scienza Nuova).
Natura comune comporta socievolezza (come carattere di chi nasce, corrisponde anche a una debolezza che è l’instabilità del vivere) e civiltà. Il carattere comune alla natura umana è l’humanitas, che sono le energie sepolte nella natura umana, scoprire l’altro in se stesso.
Oggetto dell’opera di Vico è la comune natura delle nazioni, la sua si può perciò chiamare filologia filosofica e anche filosofia filologica. E questo a partire dal convincimento che solo nella totalità della storia sta la verità, e a questa si accede solo comprendendola nel suo intero corso: perciò la verità che la filosofia ricerca è legata alla filologia (che indaga sia i ‘certa’ particolari, sia la continuità, sia i loro rapporti).

Vico afferma che l’essere umano ha per natura la sua storia. Perché l’essere umano è mutevole, si evolve (così dice Vico, i primi uomini sono poeti, poi acquistano una natura eroica, infine una natura razionale), e l’universalmente umano è la terribile realtà della sua storia.
Riconoscere le proprie azioni nelle quali è inscritta la propria storia. Perché l’azione, il fatto hanno una forza che determina al di là dell’intenzione, della tensione verso. Anche se l’intenzione è porta verso, apre a un fatto a un’azione.
Per Vico il mondo storico può essere compreso dagli uomini perché lo hanno creato. Le modificazioni della mente umana sono il tracciato che permette di andare indietro nel tempo fino ai primordi, fino al principio. Così si possono intendere gli inizi attraverso le tracce, si pensano tracciati, passaggi, i passi-passato. 

Vico scopritore di un nuovo metodo.
Farsi guidare da lingue e fatti (come potenza, capacità di possedere, di inventare)
Perché attraverso le lingue e i fatti si determina e si comprende il tempo. Il tempo si definisce nei suoi limiti e nelle sue smagliature, nei passaggi imprecisi tra l’uno e l’altro, tra il prima e il dopo.
Nelle parole, per Vico, c’è l’intenzione di comprendere, di includere realmente la cosa, non è solo convenzione (è l’identità di significato tra nomen e natura in greco e in latino). Di qui il linguaggio figurato e poetico – e i rapporti con le idee; la vicinanza tra nome e natura nel linguaggio.

Nella lingua, il senso comune.
La lingua è usata quotidianamente.
Per Vico la lingua mentale comune sta nella natura delle cosa umane, è lumen naturale o sensus communis.
Il “sensus communis generis humani” è la possibilità di conoscere la propria storia per essere stata creata dallo stesso essere umano. Vico definisce questa un’arte filosofia o filologia: una filologia filosofica.
Così il senso comune  è elemento comune agli esseri umani, li mette in comune, li rende comunicanti, dotato di comunicazione. Per un verso è fondamento soggettivo, per un altro è principio oggettivo del comune sviluppo storico.
Ed è anche “un giudizio senz’alcuna riflessione”, perché “l’umano arbitrio” è “di sua natura incertissimo”.
Non è un dato razionale ma è fondato sull’istinto e sull’abitudine. Perciò è certum, non verum (che riguarda la filosofia)
Così la comunicazione deriva dal senso comune, e deriva dalla distanza che separa gli uni dagli altri, dalla molteplicità. E la storia e il prodursi della differenza allontana  dall’unicità.
Il senso comune, per essere “giudizio senza alcuna riflessione”, deriva dai confini dell’oblio ma non partecipa della sua natura. Trovarsi ai suoi confini impegnato a delimitarlo allontana insieme alla consapevole sofferenza la conoscenza, che è prima di tutto dolore dell’origine: la ingens sylva  dove stanno le “aspre incertezze”, “quasi disperate difficoltà”, che portano a “revocare gradus”.
La sfida di Vico è quella (sapendo che noi non possiamo comprendere l’infinito) di aprirsi un varco, attraverso le ‘aspre incertezze’ e le ‘quasi disperate difficoltà’, verso la “cogitatio” che permette la “cognitio indefinita” che “vivida idea est et illustris”.

Il saggio di Cristina Trivulzio su Vico (in francese)

All’inizio la biografia del filosofo napoletano, nella quale riporta come il padre lo avesse considerato un bambino “condannato sia alla morte, sia all’idiotismo” (Principesse Belgioioso, Essai sur Vico, Milan, s.d., p. 2,). E continua “É superfluo osservare che la scienza medica sbagliò. Ma un cambiamento nell’umore nel carattere del giovane Vico fu il risultato di questo accidente. Nei tre anni che passarono prima che la sua salute gli permettesse di riprendere il corso degli studi, la sua gaiezza disparve e la sua vivacità divenne più interiore. (...) lavorava da solo, la notte, senza direzione, senza maestro un bambino precettore di se stesso.
Ci fa conoscere il suo metodo di lettura: “Vico leggeva sempre tre volte di seguito una stessa opera. La prima volta per comprenderne l’unità. La seconda per riconoscere  la catena che, legando insieme soggetti diversi, forma questa unità. La terza per ammirare le forme della lingua e la bellezza delle idee particolari” (ibid. p. 8).
Gli studi di Vico riguardarono il diritto, il diritto canonico, i dogmi cristiani, e per Cristina Trivulzio, “e principalmente l’esame della questione di un accordo necessario tra la grazia e la libertà, tra l’azione divina e l’azione umana, tra la fatalità e il libero arbitrio” (ibid. p. 7).

Partire da Vico

Cristina Trivulzio sottolinea l’impegno che si sobbarca Vico – “il peso delle imprese filosofiche” e “la ragione ghiacciata delle ricerche filologiche” (ibid. p. 7) – che lo conduce a cercare tra i filosofi moralisti (che traggono origine dall’Arte poetica di Orazio). Perché “la filosofia morale insegna la scienza del giusto, che proviene da un piccolo numero di verità eterne dettate alla metafisica da un giustizia ideale” (ibid. pp. 8-9) “direttrice della giustizia riparatrice e della giustizia distributiva, che regolano a loro volta ciò che è utile o gli interessi allo stesso modo delle due misure eterne, la misura aritmetica e la misura geometrica” (ibid. pp.8-9), “la diversità di sostanza del Creatore e della creatura” (p.9).
La questione è che “Vico pensa che lo sviluppo della società dovrebbe essere, come il cuore umano, sottomesso a una legge costante, universale e divina, la cui applicazione varia perché dipende dall’instabile volontà dell’uomo”, si tratta della scoperta “nel diritto naturale delle genti di un principio immortale” (p. 7).

Le domande di Vico

Le domande di Vico su cui si sofferma Cristina Trivulzio sono due.
“L’identità dell’universo e di Dio sembra autorizzare l’uomo a seguire una virtù e una giustizia ideale, ossia assoluta, che è la giustizia divina. Dio e l’uomo non differiscono quanto alla sostanza, perchè dovrebbero differire in eterno quanto agli attributi o al destino?”.
E, perché l’uomo “non rientra nelle condizioni normali della sua essenza, nella bellezza e nella perfezione da cui è uscito?” (p. 10).  Questa seconda domanda implica sia la Repubblica ideale di Platone sia la metafisica che “ha per soggetto tutte le facoltà dello spirito e lo spirito stesso nella sua unità” (p.11).

Una riflessione sulla verità

L’algebra procede  “da verità semplici o verità composte, accettando queste ultime per averle per così dire decomposte e aver riconosciuto la verità di ciascuna parte. Un metodo che lascia la possibilità di una sorgente abbondante di errori, perché ciascuna delle proposizioni particolari formando una proposizione composta può essere vera, e tuttavia i rapporti reciproci possono essere mal determinati, e il risultato mal assortito di molte verità può essere qualcosa di falso o di imperfetto” (pp. 12-13).

 

19-11-2009

 

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