Società di massa
di Donatella Bassanesi 

 

Lo Stato di diritto, che si è diffuso nell’Europa ottocentesca, con il novecento viene radicalmente negato. Il totalitarismo deriva direttamente dalla civiltà industriale. I regimi totalitari si erano affermati nella grande crisi europea che si sviluppò tra le due guerre mondiali. Cancellarono le caratteristiche dello Stato liberale: rappresentatività delle istituzioni, garanzie costituzionali, alcuni inalienabili diritti politici e civili, e insieme fecero scomparire associazioni, organizzazioni sindacali, luoghi della socialità collettiva.

Nella società totalitaria viene favorito il conformismo, collassati i “valori e delle istituzioni della civiltà liberale” dell’Ottocento che “stabilivano (...) un insieme di diritti e di libertà dei cittadini (...) compresa la libertà di parola, di stampa e di associazione”, rifiutati già prima del 1914 solo dalle “forze  tradizionaliste, come la Chiesa cattolica” (Eric J. Hobsbawm, Age of Extremes – The Short Twentieth Century 1914-1991; tr. it Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p. 136).C’è un passaggio significativo con l’abbandono delle originarie strategie rivoluzionarie del 1917-23 da parte del Comintern che respinse e persino tradì “le occasioni rivoluzionarie, perché Mosca non voleva più la rivoluzione” conservando “la sua straordinaria immunità alla disgregazione” rimanendo così comunque “l’unico punto di riferimento per la maggioranza di coloro che credevano nella necessità di una rivoluzione mondiale”.

Ma negli anni della crisi (specie tra il 1932-33) “le adesioni al partito comunista erano cresciute altrettanto rapidamente di quelle del partito nazista, superandole negli ultimi mesi prima della conquista del potere da parte di Hitler”.
E tra il 1944 e il 1949 la “grande ondata di rivoluzione sociale mondiale”, fino al 1959 con Cuba, ancora i vecchi partiti comunisti rappresentavano “la parte più ampia dell’estrema sinistra, anche se dopo il 1956 il vecchio movimento comunista aveva perduto il suo cuore rivoluzionario”
(Eric J. Hobsbawm, Age of Extremes – The Short Twentieth Century 1914-1991; tr. it Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p. 117, 95).

Con la società di massa si stabilisce una analogia tra permessività universale e comunicazione di massa. Sono i mass media (e prima di tutto la televisione che nell’illusione del movimento fornisce quell’ immagine apparentemente veritiera a ragione della quale le differenze sembrano diventare più che altro questioni di gusto) a rendere realmente l’immediata risposta al ‘fatto’ alla ‘cosa’ avvenuta, ma avendo perso il carattere di interpretazione, e quindi di lettura critica, differenza (come luogo delle diverse letture).

Per i mass media si tratta di raccogliere più fatti, cose, documenti possibile che risultano essere, più che da interpretare, gli automatici interpreti dell’deologia maggioritaria (e vincente), generalmente quella che consegue a un ‘luogo comune’ prevalente (anche all’interno di un gruppo, di una categoria, che ne sono fruitori più ancora che creatori).

Ci si trova così di fronte a una ‘mappa’ che si configura sostanzialmente come isole similari che costituiscono un insieme di elementi separati eppure in un certo senso compatti, omogenei, impermeabili. Così l’impermeabilità delle discipline e delle specializzazioni realizza quella struttura difensiva contro altre ipotesi, escludente altre possibilità, che nasconde ed è il loro aspetto oscuro. Cancellata la possibilità di condivisione al di là dei recinti prestabiliti, e in ultima istanza la possibilità di esistere in comune.
Ed è proprio il principio di comunità ad essere posto in condizione incerta, vuotato da quel principio (che è iniziare) che rende possibile ‘la posta in essere’.
Residuale: una illusione di libertà, che è per una parte esercizio per l’altra accettazione dell’arbitrio, una manipolazione dei pochi sui molti. E non si tratta direttamente di dominio dei pochi e la sottomissione dei molti dove i pochi sono l’autorità indiscussa sacra secolare, politica o filosofica, che pone quei limiti che ostacoli la “carneficina universale”, il realizzarsi del caos.

Nella modernità determinante è la paura del vuoto, “assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale”, ossia paura della scelta, e di ogni differenza.
La rassicurante “razionalità universalmente valida” come “forza trainante del progresso”, servita come supporto al “giudicare” e al “distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione” è venuta meno quando la “verità assoluta” è stata vista nella “sua totale irrilevanza” per quel destino che si è formato “giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte” (Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, 2010).

31-05-2010

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