La memoria e la storia

di Donatella Bassanesi


Potremmo chiamare la memoria sesto senso. Potremmo chiamarla sesto senso anche per essere somma e articolazione dei sensi.

La memoria non è uguale a se stessa ma si fissa nelle cose, sono le cose (il tempo ritrovato) a riportarla alla luce.

La forza della memoria è fatta di intensità e di estensione (come la forza delle cose). Corrispondendo alla durata e all’intensità (delle sensazioni) riguarda il tempo. Produce nessi: la somiglianza, la causalità, il principio e la conseguenza, il mezzo e il fine, il segno e il significato.

La memoria si intreccia al pensiero.
Sia attraverso l’esperienza che è ricezione dei movimenti delle cose (e i movimenti delle cose producono impressioni), sia attraverso il sapere che è astratto, si concatenano idee, ipotesi, concetti, si arriva alla conoscenza delle cause, e al ragionamento (il ragionamento che somma e sottrae segni).

Affidare memorie è consegnarle affinché possa rimanere un segno di ciò che per noi è importante, di ciò che viene ritenuto generalmente importante e che riguarda un tempo trascorso, un momento.

La memoria riguarda il tempo, e riguarda la storia, la riflessione intorno agli accadimenti nel tempo.
La storia è prodotto di memorie ‘soggettive’ e ‘oggettive’, e di memorie trasmesse, passaggi, modificazioni.

Il passaggio tra storia e memoria è laterale. I soggetti sono diversi.
La storia legge attraverso i documenti. Sono i documenti a sostenere la sua verità. La lettura storica con la scoperta di nuovi documenti può cambiare, perciò può avere bisogno di revisioni.
La memoria è essa stessa un documento, ma è un documento labile, incerto e sfuggente. Inganna la memoria, può anche ritornare inaspettatamente riportando un fatto (dimenticato? Rimosso? Che si voleva distruggere? Cancellare?).

Il soggetto non è la persona ma ciò che la cosa mostra, ciò che quella storia è.
Conosciamo tratti spezzati della storia di cui siamo partecipi (e parte).
Così tirando il filo della conoscenza si vede la possibilità di leggere nelle cose.
E tirare il filo della conoscenza corrisponde all’immagine della sfida della potenza di Dio che parla col Male e lo infligge agli uomini rivelando così “una frattura interiore inaspettata” di Dio, “l’angoscia che lo agita” e che lo rende capace di volere Giobbe come suo inquisitore, come colui che mostra “il bisogno estremo che Dio ha dell’uomo” (M. Revelli, La politica perduta, Torino, Einaudi, 2003, p. 119).

C’è desiderio di conoscenza ma non c’è disegno riconoscibile. Perché la lingua – passaggio e dia-logo=luogo-attraversato=parola che attraversa Dio e il Male, risultato della sorte e di un gioco – sono lettere schiacciate nelle due dimensioni, chiudono il passaggio non per mancanza, al contrario per esuberanza di apparenza,

Invisibile il reale, dietro una contagiosa rete che cancella la possibilità che conoscere e agire siano prossimi, ossia che il pensiero e l’azione siano concreti, la ricerca diventa necessariamente metafisica, intorno a ciò che sta al di là dell’esperienza (libertà, immortalità, Dio), priva di un criterio infallibile, senza certo fondamento, né giudizio definitivo. Una scienza metafisica, che è metafisica della conoscenza e metafisica dell’azione (libertà), che è possibile solo come metafisica critica ossia autocritica della ragione, e che presume di poter conoscere ciò che sta al di là dell’esperienza (Kant, Prolegomeni).

 

 

22-06-2010

 

home