Alessandrina Ravizza
di Donatella Bassanesi


Sibilla Aleramo, in un suo scritto su il “Marzocco”, (31 genn. 1915) chiama Alessandrina Ravizza con il nome di Sacha.
Sacha era nata a Gatskina, vicino a San Pietroburgo, da un funzionario dell’esercito zarista oriundo italiano e da una tedesca, Caterina Bauer, morta giovanissima).
Sibilla Aleramo scriveva di lei: “Sapeva d’esser mortale, e anche d’aver un male mortale, così definitiva imperitura qual appariva, (…) quasi una creazione (…) del genio umano e non della natura”.

Su “La cultura popolare”, rivista bimestrale dell’Unione Italiana della Cultura popolare” (Dir. E Amm.: Via Daverio 7, Milano) c’è il “Ricordo di Alessandrina Ravizza” ad opera di Lavinia Mazzucchetti.

Vi si trovano i dati anagrafici:
Alessandrina Ravizza nasce a Gatskin, Russia, nel 1846 da padre italiano e madre russa. Dopo un breve soggiorno a Bruxelles, nel 1863 si trasferisce a Milano.   
Alessandrina Ravizza, con Laura Mantegazza, istituì “una scuola professionale femminile, cucine per malati poveri, una Scuola-laboratorio annessa al Sifilicomio per bambini e donne luetiche” .
“Nel 1898, mentre le carceri erano gremite di detenuti politici, si appellò alle donne italiane e aprì una sottoscrizione per mezzo della quale poté migliorare il cibo dei carcerati. Qualche anno più tardi riuscì ad avere dal governo, per mezzo di Filippo Turati, una indennità di 73.000 lire (somma cospicua per quei tempi) per i ferrovieri licenziati”.
Mettendo infine, dal 1907 al 1915 (anno della sua morte) “tutte le sue energie all’assistenza dei disoccupati nella Casa di Lavoro della Società Umanitaria

In Italia è straniera, una straniera che vede (e forse proprio perché straniera ‘vede’) il dolore che deriva dalla povertà.

Perché si è dovuta creare una Cassa Pro disoccupati , (Milano, 1913):
Prima di tutto per dare loro abiti decenti, perché così presentandosi danno subito una buona impressione  (= importanza dell’immagine). Dote a partire dal 1907.
La Casa del Lavoro deve provvedere a rendere ciò possibile, sia attraverso la sua ospitalità, ottenendo, sia dalle Case industriali sia da privati, “pezze di stoffe o degli scampoli” e “indumenti, biancheria e scarpe usate” (p. 4)
Già qualche anno prima di morire, Alessandrina Ravizza scriveva a Sibilla Aleramo: “Sono preparata, sono pronta”.

Sibilla Aleramo  la ricorda in un suo scritto (Milano, 25 gennaio 1915)
“Era bella, se son belle le cime ghiacciate dei miei monti. Non vedrà più la primavera. M’aveva accennato una volta, tentando indirettamente di placare il mio affanno, alla tetraggine che la sua intellettualità slava provava a tratti  per l’eterno ritorno delle stagioni, delle apparenze. Ma anche più non vedrà quella che il suo temperamento latino adorava, perpetua imprevedibile varietà della vita. Che piega profonda attorno alla sua bocca, dura, d’una che è sola e lontana e non sa e non chiede. Che linee radianti, infinite della sua fronte, bella, di condottiera, bella come quelle  delle più sacre maschere.
Domani sarà bruciata. Che calma vertigine per gli occhi la neve! Tanti anni che non vedevo neve cadere così! Momenti d’accordo, momenti musicali bianchi, la natura che intuisce, che si piega umile, che ringrazia – per me che non piango come per quelli che piangono…

Milano, 25 gennaio 1915
                                                                    Sibilla Aleramo
             

Intorno a lei si formò un alone, in un certo modo, di leggenda.

In: “Bilychnis”, ottobre 1915, Alessandrina Ravizza (1865-1915) è detta “una santa laica”.
“Amò con un amore largo, pratico, personale e religioso”, “restaurava i corpi e le anime”
In  qualche modo intorno a lei si formò un alone di leggenda.
Ada Negri la ricorda da Zurigo a Milano nel “vasto studio a terreno della ‘casa del lavoro’, in via della Pace. Alla scrivania enorme ingombra di un caos di carte, sedeva Alessandrina Ravizza, col suo viso pacato e luminoso, coi suoi occhi chiari costantemente fissi su una visione che non è di questo mondo. E la porta si apriva e la miseria passava la soglia, la miseria che dappertutto ha lo stesso viso e la stessa veste, che dappertutto ha, implorando, lo stesso accento di umiliazione repressa…”

 

Alessandrina Ravizza, Sette anni di vita della casa di lavoro

il testo è presentato da lei stessa che apre con alcune parole che la mostrano:


“Essendo vecchia e proprio giunta ai piedi del… muro, considero questo scritto che raccoglie fatti veri, vissuti, dolori infiniti, schianti inauditi…come una specie di testamento morale. Non sono una scrittrice, ho lo stile più cosacco che italiano. Ma credo che chi non sia del tutto scettico, se fermerà la sua attenzione sull’epistolario
che ho raccolto, potrà accettare il lavoro così com’è e pensare quanto sia la fiumana della sventura, come povera, quanto nulla sia la previdenza sociale.
  Sono giunta al punto in cui non mi occorrono lodi; ma sento sempre più vivamente la sete d’imparare e di comprendere ciò che vedo. Alla Casa di Lavoro ho visto  tanto e ho tanto imparato. In essa ho cercato più di agire che di parlare…” 
“Sono viandanti della sfortuna che giungono alla Casa di Lavoro, si fermano, poi si rincamminano per la propria via; e pur troppo questa conduce spesso all’ospedale, al manicomio, all’ergastolo” (Alessandrina Ravizza, Sette anni di vita della casa di Lavoro – memorie indedite, coop. Tipografia degli operai – Milano via Spartaco 6 – pubblicate per cura della Società Umanitaria).

I casidegli immensi bisogni insoddisfatti, illustrati: Disoccupati – attraverso le lettere – viandanti della sfortuna  che hanno lasciato “una impronta che il tempo non distrugge” (Alessandrina Ravizza, Nota della lavandaia, Milano, 1912, Cooperativa tipografia degli operai, via Spartaco 6 - viale Porta Romana)

(…) “Sul mio cuore cresce solo l’erba, lo spazio della terra si confonde coll’immensità del cielo. Ora che sono morta mi sento finalmente libera!” (p.10).
 (…) “Una guerra costante contro la spontaneità originale soffocata da metodi soporifici  che impediscono lo sviluppo delle idee, una perfetta scarpa cinese applicata al cervello… Giù acqua, acqua!”

Essere contro “il sentimentalismo ufficiale in uso presso le persone per bene”  che “sono gli impotenti dell’anima, parlano ma non sentono” ed è “tutto un edifizio  di sterilità miseranda, dannoso per chi soffre” (p.11). E voi “vorreste immergere quei fogli nell’acqua  per cancellare i caratteri?” 

 

 

Pierina Jachia
(nel ricordo della figlia Camilla Restellini Bassanesi)

da una:
Lettera di Camilla  alla sorella Ester, 18/2/1983
… “rivedere insieme la nostra mamma. Sai che i vecchi ricordano con maggiore limpidità le cose più lontane che le più vicine. Mi potrai dunque aiutare a completare l’immagine di lei, alla quale dobbiamo tutto, anche il nostro grande affetto reciproco”.
…perché così nostra madre è vissuta, coerente con se stessa, con gli insegnamenti ricevuti in una Scuola normale che contava insegnanti come Rosa Errera, e con gli ideali socialisti vissuti giovanissima sul finire del secolo, accanto ad un Claudio Treves  il quale, nella redazione dell’Avanti! Capitava si presentasse (mi disse) con una camelia all’occhiello, lei stessa appassionatamente immersa in questa prima vera calda famiglia che sono i “compagni” quando si hanno diciotto anni.
Il reclamato “diritto all’esperienza” aveva già fatto soffrire la mamma, pure aperta, se l’ultimo estate lo passammo all’Isola dei naturisti, nella valle di Chevreuse.

Cerco di ricordare la nostra infanzia e la mamma. Il più lontano ricordo è di Essen nella Ruhr; ci sei tu e papà e mamma. Due visioni solamente: in una sono con le scarpe in mano, e mi sento immusonita. Papà e mamma ridono, perché sono andata in cucina e con una scarpa in mano ho fatto cenno alla padrona di casa di spazzolarla: va bene, mi ero spiegata. Perché riderne? Che me ne ricordi denota quanto sia di natura permalosa.

 

Gli scritti pubblicati di Pierina Jachia

Nel 1901, sul Giornale dell’ “Unione Femminile”, Pierina Jachia, che dell’Unione Femminile era socia,  aveva scritto nel:  n. 5-6 – e n. 9
 

La donna impiegata

È strano che, mentre delle lavoratrici di tutte le categorie si scrive e si discute, delle condizioni  della donna impiegata ben pochi si interessino. E mentre la vita misera delle operaie ha commosso i buoni di tutte le classi sociali, e mentre i fervidi femministi lottano strenuamente perché la donna possa esercitare tutte quelle professioni a cui ha diritto per gli studi fatti o per le sue individuali tendenze, pochi si accorgono che, fra l’operaia e la libera professionista, v’ha una categoria di lavoratrici che ha diritto non meno delle altre all’interessamento di chi studia per migliorar la condizione della donna che lavora. E questa ignoranza della vita delle impiegate è tanto più strana in quanto che oggi  la categoria delle impiegate è una delle più numerose, delle più bisognose di miglioramento, ed anche, diciamolo pure, delle più nocive al lavoro maschile.
Oggi la necessità di guadagnarsi la vita spinge la fanciulla ad uscir dalla casa ed a cercarsi lavoro. E qual lavoro più facile e nello stesso tempo più nobile (la classificazione del lavoro in nobile e non nobile per certuni non è ancora stata abolita) del lavoro delle impiegate? E per questo vediamo oggi un affollamento incredibile, una concorrenza spietata per la conquista di un misero impiego di trenta o di quaranta lire al mese.
E le concorrenti a questi impieghi sono spesso diverse fra loro, e per ambiente famigliare e per coltura. V’è infatti la giovinetta che, ottenuta la licenza tecnica, cerca di trar profitto delle acquistate qualità di modesta contabile; v’è la giovane che, dopo aver studiato per tre anni la pedagogia, e di aver per sei o sette anni sognato di farsi educatrice, si trova un giorno, pur avendo ottenuto la licenza normale e magari anche il diploma di maestra, nella necessità di rinunciare ai sogni accarezzati da tanti anni, e, costringendo la giovane mente alle aridità del calcolo per cui, forse, non ebbe mai vocazione, di dover acconciarsi ad un impiego, perché la necessità di assicurarsi il pane pel domani parla alla ragione più forte di tutte le idealità.
Ma v’è ancora, o sconosciute lettrici, un’altra categoria di signorine che concorrono a questi impieghi, di signorine, contro le quali io chiedo la vostra dididtima. Esse sono, o dicono di essere, delle signorine agiate che cercano un impiego per avere un’occupazione o, peggio ancora, per soddisfare qualche loro vano capriccio. E queste signorine meglio raccomandate delle altre, che offrono il oro lavoro ad un prezzo anche più irrisorio, sono quelle che purtroppo, generalmente trionfano nella lotta per la conquista di un impiego, e sono così le rivali più terribili delle loro colleghe e dei loro colleghi bisognosi.
Ed io credo che nessuno che come me non abbia vissuto la vita dell’impiegata possa farsi un’idea dell’eterogeneo amalgama di cui sono composte certe amministrazioni che hanno alle loro dipendenze venti e più impiegate fra cui però signoreggia il tipo dell’impiegata che si dice civile (quasi che le altre fossero incivili) tipo il più ed il più gretto ch’io mi abbia mai conosciuto, e che mi ha fatto più volte desiderare di vivere fra le operaie, dove almeno il caldo soffio che dalla mente di pochi forti s’è sparso benefico fra tutti coloro che soffrivano in silenzio, o si levavano imprecando, il caldo soffio della civile e bella fratellanza di tutti i lavoratori ha trovato dei cuori capaci di intenderlo.
E quando io vi avrò ripetuto ciò che giorni sono mi diceva un’amica mia (una giovane e buona creatura che vive del suo impiego e che non si vergogna affatto di dichiararlo a voce alta) che, cioè, nell’amministrazione cui appartiene vi sono signorine che asseriscono di recarsi in ufficio per ubbidire al medico che ha loro ordinato delle passeggiate igieniche (si noti tra parentesi che l’ufficio di cui parlo è precisamente anti-igienico) voi, lettrici, converrete con me che bisogna avere una fede incrollabile nel domani per credere nella futura emancipazione morale e intellettuale anche di questa categoria di donne.
Ma quando il presente è triste tanto, ci resta sempre la bella visione di un avvenire sereno, che noi, con le lotte aspre, con le fatiche, e qualche volta anche con gli stenti oggi virilmente sostenuti, avremo preparato.
Nei prossimi numeri cercherò di farvi conoscere più addentro la vita delle impiegate.

U.F. 1901, n. 5-6

                                                                                                               J.
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La donna impiegata

Accanto all’organizzazione ormai forte degli operai va affermandosi l’organizzazione delle operaie che dovrebbe essere esempio e eccitamento a quella della donna impiegata; ma questa isterilita dall’ambiente borghese in cui è nata e cresciuta non sente come dovrebbe la necessità di una salda organizzazione. D’altra parte all’opposto dell’operaio che spinge e accoglie le sue compagne nelle leghe di miglioramento e resistenza, l’impiegato tranne pochissime eccezioni non fa nulla per la sua compagna di lavoro ed è piuttosto invece spinto ad osteggiarla perché vede in lei quella che, accontentandosi a parità di lavoro d’un salario minore, è cagione del ribasso dei salari non solo, ma gli contende ovunque il posto e per conseguenza il guadagno.
A chi studii  la questione davvicino non può sfuggire un’altra ragione che allontana da ogni idea di solidarietà professionale l’impiegata; e la ragione, secondo me, è questa che, a differenza dell’operaia, la quale sa che dovrà lavorare per sempre, venga o non venga il compagno della sua grama vita, la giovane impiegata riguarda il suo presente come un periodo transitorio, a cui porrà fine… il marito. Questo soffio di individuale felicità, uccide ogni slancio altruistico e rende sorde le impiegate ad ogni sentimento di fratellanza e di solidarietà. E forse in omaggio a questo sogno, ben poche delle mie compagne avranno pensato, che se anche, per un caso fortuito, qualcuna di esse potrà lasciare la classe cui oggi appartiene, gran parte delle nostre colleghe dovranno per forza rimanere al lavoro. La nostra classe, quasi esclusivamente composta di nubili, ha tanto più bisogno dell’organizzazione, che sola potrà rendere indipendente moralmente ed economicamente l’impiegata e rialzare le condizioni del contratto di lavoro, quando la base dell’agitazione sia a parità di lavoro, parità di salario con l’uomo.
Quanta rigenerazione non si dovrebbe compiere in questa classe! che educazione nuova socialmente moderna non si dovrebbe dare a questa donna, trincerata oggi fra malsani pregiudizi!
All’opera dunque!

P.J.
                                                                                                                     
UF. 1901, n. 9

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La donna operaia

Cara compagna,
Qui si fa sentire vivissima la necessità di organizzare la donna lavoratrice, dalla operaia delle grandi fabbriche, a quella ancora più sfruttata che lavora nei piccoli laboratori. Occupandosi di questo sarebbe urgente pensare alle operaie sarte e modiste.
Non puoi forse immaginare con quanto strazio io veda svolgersi inosservata e silente, l’opera di migliaia di ragazze che lavorano da un’alba all’altra, si può dire, senza preoccuparsi di cercare perché devono realmente muovere una vita così grama, senza che nessuno abbia il coraggio di iniziare una campagna in loro favore, unirle in una lega, riscattarle insomma dal giogo al quale sono soggette e che subiscono soffrendo, ma senza pensare che potrebbero tanto facilmente scuoterlo.
È una vera barbarie. Povere ragazze che cominciano la vita del laboratorio magari a 10-11 anni, con un orario che dalle 8 del mattino (inverno) e dalle 7 (estate) le tiene sedute fino alle 12 per ricominciare alle 14 e continuare fino alle 21 certe sere e al venerdì e al sabato fino alle 23 alle 24 alcune volte!
Questa la regola generale, vengono poi le eccezioni che si verificano due, tre volte per settimana in cui per finire la “toilette” alla signora X, le nostre figliuole, che dovrebbero tornare a mezzogiorno, ci vengono a casa alle 14, alle 15 ed anche alle 16, affamate, collo stomaco sfinito, scoraggiate, imprecando contro la causa del loro ritardo.
Tutto questo lavoro extra non rende loro un centesimo di più, poiché la mercede dell’operaia sarta che comincia colle L.5 mensili (apprendiste) e va fino alle 50-60 lire (capi-operaie) comprende orari supplementari, giorni festivi ed in qualche laboratorio più barbaro anche la notte!
Non credere che io esageri le condizioni di queste nostre lavoratrici, purtroppo parlo con conoscenza di causa, poiché una delle mie sorelle stesse ha scelto questa carriera e si trova in simili tristi condizioni.

P.J.

Torino, Aprile 1902

U.F. 1902, n. 9-10

 

La donna impiegata
(Continuazione e fine)
(firmato  Emilia Mariani)


(Inserisco questo testo di quella, che fu, certamente, compagna di Pierina Jachia. Si sente la differenza, non ha lo stesso spirito di lei, ma si sente anche “la stessa scuola”, che le rese  possibile  completare  l’articolo).

La Francia fu il primo Stato che impiegò le donne alle Poste e Telegrafi e poi ai Telefoni. Esse sono ora colà 14.825 mentre in Inghilterra sono già salite a 35.000. Anche in Italia le abbiamo, ma esse hanno dovuto lottare assai per riuscire ad essere messe in pianta e a ottenere il permesso di maritarsi. Anche oggi il numero è limitato e non aumenta, perché le nuove impiegate si reclutano per via di appoggi e di raccomandazioni, invece di adire dei pubblici concorsi a cui le giovinette si potrebbero presentare ben preparate. E i concorsi non si fanno per due ragioni: primo perché si teme il gran numero delle concorrenti; secondo perché vi è sempre una guerra latente, sorda da parte dell’elemento maschile, il quale non vede volentieri questo avanzarsi dell’elemento femminile in una carriera che ora si è fatta, dopo i nuovi progressi, più facile e più rimunerativa. Un impiegato telegrafico con cui ebbi una discussione in proposito volle persuadermi essere questa carriera troppo grave per la donna, e per l’orario consecutivo di otto ore, e per la necessità del lavoro protratto a ora tarda, e per la febbrilità di certe epoche in cui si richiede agli impiegati un vero eroismo. Ma io non potei convincermene perché pensavo alla giornata di dodici o quattordici ore delle povere sartine, chiuse in magazzini ristretti, legate al tavolo di cucitura, obbligate alle veglie lunghissime d’inverno, alle soste obbligate d’estate. E queste disgraziate hanno una paga di 30 o 40 lire al mese e sono in mezzo al lusso che acuisce i loro desideri e favorisce le tentazioni e le resipiscenze. In confronto di queste, quanto stanno meglio le impiegate delle Poste, dei Telegrafi e anche dei telefoni. Dico anche dei Telefoni, appunto per notare che queste ultime sono le più maltrattate ed hanno un lavoro che è veramente irritante dovendo rispondere continuamente allo squillo dei campanelli, e contentare abbonati sovente nervosi e irrequieti. Ma un miglioramento si sta facendo anche in questa carriera, e le telefoniste ben organizzate e avvedute potranno serbare e migliorare d’assai la loro posizione. In Svizzera per esempio le telefoniste hanno da 80 a 120 lire al mese con un tirocinio obbligatorio di sole sei settimane e una nottata ogni 24 giorni.
Anche le impiegate postali degli uffici succursali nelle grandi città, sono lì solo per uno sfruttamento dovuto al titolare dell’ufficio, che lo Stato tollera e che egli compie impunemente sapendo le donne povere, divise, incapaci di sostenersi. Ma lasciate che esse  acquistino la coscienza della loro capacità e del loro valore e voi vedrete come sapranno conquistare questo e renderlo possibile. Le donne devono combattere lo sfruttamento non ritirandosi dal lavoro, ma obbligando i padroni, con ben ordinate organizzazioni a cedere davanti ai loro giusti reclami.

***

In due sole professioni liberali le donne hanno finora provato le loro forze intellettuali all’infuori dell’insegnamento; l’avvocatura e la medicina. Nell’avvocatura in Francia per la legge del 1899 due donne sono state assunte al patrocinio pubblico, ma nessuno ancora degli innumerevoli impieghi, di giudici, di conciliatori, di pretori, di notai, di periti furono aperti ad esse. Anzi nella legge votata per l’esercizio dell’avvocatura si è espressamente fatto cenno che essa non dava adito a questi uffici portando essi delle incompatibilità con certi articoli del loro codice. E questa è pure anche la ragione che colà le donne non sono ancora state nominate probiviri, poiché l’ufficio di conciliazione e di giuria dei probiviri, poiché l’ufficio di conciliazione e di giuria dei probiviri ha una certa affinità con un proprio e vero giudizio.
Per la medicina vi sono in Francia 101 donne che esercitano e di queste 82 a Parigi, 13 in provincia, più 18 dentiste e 1 oculista. Alcune delle suddette medichesse sono impiegate nelle scuole normali, per il personale delle poste e dei telegrafi, nei licei, nei collegi. Non è ancora l’esercito di medichesse che vive ed esercita in Inghilterra e in America, guadagnando delle somme favolose, ma in Francia, dice la Schirmacher, una donna medichessa può fare dalle 15 alle 30 mila lire all’anno. Invece da noi le poche coraggiose che hanno voluto entrare in questa difficile carriera si trovano ancora messe alla porta dagli istituti più adatti a formare le loro clientele. Noi abbiamo la Monti a Pavia, la Cattani a Pavia, la Montessori a Roma che sono insignite di carattere d’insegnamento, ma io preferirei per esse una buona clientela che facesse palese a quelli che non ne sono persuasi della utilità e della opportunità di cotesto esercizio.

 

Emilia Mariani

 

vedi anche
La santa e la spudorata

Scritti di Alessandrina Ravizza all'Unione Femminile

 

7-06-2011

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