Perché l’embrione è diventato persona?
Ce lo spiega Barbara Duden
di Maddalena Gasparini

In guter Hoffnung, in buona speranza. L’espressione popolare
tedesca che designa la donna incinta è quel che resta di un tempo in cui
«non esisteva la gravidanza, ma soltanto donne che si sentivano incinte»,
portatrici di una speranza che solo dopo un tempo variabile - mesi o anni
- poteva concludersi con la nascita di un bambino. Solo a posteriori c’era
la certezza della gravidanza, solo quando la donna aveva partorito: un
bambino, sperabilmente, ma poteva essere altro, un errore della natura,
aria o sangue.
Come è successo che la buona speranza si sia trasformata
«nell’organizzazione più o meno affidabile di un processo riproduttivo»?
Per rispondere alla domanda Barbara Duden legge e rilegge il diario in cui
il dottor Storch, medico nella cittadina di Eisenach nella prima metà del
‘700, segnava “le lagnanze” di milleseicento fra balie e nobildonne,
contadine e mogli di artigiani, storie alle quali si può guardare
dall’oggi con un sorriso di sufficienza, come a testimonianze di un’epoca
in cui molto, del corpo e delle sue funzioni, non era conosciuto. Ma se
alle diligenti note del dottor Storch la storica non chiede dei saperi
costruiti sul corpo e dei poteri che su di esso si esercitano, ma
dell’esperienza e della percezione «che viveva una donna quando diceva
“io”», allora assume “la posizione dell’incantatrice”.
E’ in virtù di questo spostamento che Barbara Duden, storica del corpo,
riesce a mostrarci, come per incanto la moderna «prigione che priva di
corporeità», l’espropriazione dei corpi prodotta dalla bioscienza e dalla
legge, usando come paradigma il corpo femminile e la sua potenzialità
generatrice.
Il gene in testa e il feto in pancia. Storia del corpo femminile
raccoglie gli interventi cui Barbara Duden è stata chiamata nel corso
degli anni ’90 da università, associazioni, ordini professionali,
congressi scientifici o sollecitata da letture, mostre, sentenze. Il testo
riprende e va oltre il racconto del graduale passaggio dal “sapere
vissuto” che le pazienti condividevano con il dottor Storch al corpo
gravido diagnosticato dalla medicina (Il corpo della donna come luogo
pubblico, Bollati Boringhieri, 1994).
Dalla prima rappresentazione del feto nel suo aspetto pre-infantile nel
1799 ad opera di Sommering all’immagine dell’ecografia tridimensionale, il
corpo femminile si è fatto trasparente e la genesi dell’essere umano ha
potuto essere pensato senza rapporto con la madre. Su questo rovesciamento
dell’ordine che dà origine alla vita nasce l’autonomia dell’embrione
sancita dalla sentenza della Corte Costituzionale Tedesca e, in Italia,
dal primo articolo della legge che regola la procreazione assistita.
Diventa «soggetto giuridico un fatto
scientifico inaccessibile al senso comune… un fenomeno scientifico senza
mani e senza piedi… l’opinione di un esperto… indipendente da qualsiasi
esperienza corporea». Operato nel senso comune lo slittamento da embrione
a “vita”, da vita a “persona”, la libertà delle donne rischia di trovare
un impedimento più forte del controllo penale, dimostratosi del tutto
inefficace (ancor oggi l’aborto volontario è molto più frequente nei paesi
dove è proibito che dove è stato legalizzato; come in Polonia - 200.000
aborti clandestini all’anno - in proporzione più del triplo che in
Italia).
Se la donna è stretta fra le leggi dello stato e la “vita”, se la “vita
umana” prende il posto degli esseri umani, il corpo materno può essere
ridotto a “una cultura di tessuti”, a «campo di crescita di un feto
giuridicamente riconosciuto come oggetto di cure sotto la responsabilità
della medicina», una matrice cui si può impedire la morte. E’ quello che
succede a una giovane donna incinta giunta in coma all’ospedale di
Erlangen (nel 1992) e mantenuta in stato di morte cerebrale per permettere
al feto di svilupparsi. Barbara Duden non ci dice che quell’azzardo fallì,
ma attonita di fronte a tanta prodezza chiede aiuto alle donne del XVIII
secolo per rimanere lucida nell’impotenza». La sostituzione
dell’esperienza della gravidanza con lo sviluppo fetale ha reso possibile
l’espropriazione del corpo femminile e la sua disumanizzazione.
Di fronte alla versione tecnologica della
madre sacrificale è difficile sottrarsi a un moto d’orrore, ma anche
formulare una condanna senz’appello. Siamo tutti dunque vittime della
trappola semantica, che difende la “vita” rinnegando i vivi e infine la
morte? «Lo studio delle esperienze corporee - risponde Barbara Duden - mi
permette di percepire la mia costituzione sensibile come dato storico e
cioè come qualcosa di cui io non posso disporre a mio piacere» se non
accogliendone anche la finitezza. Un aborto volontario interrompe
un’esperienza piuttosto che “una vita”, mentre le tecnologie di
rianimazione e mantenimento delle funzioni vitali possono conservare una
“vita” ridotta a pura biologia.
Interessata «non tanto a cosa fa ma a cosa dice una nuova tecnica» Barbara
Duden non usa gli strumenti critici che pure la bio-scienza si è data;
piuttosto cerca di decifrare il linguaggio delle tecnologie e delle
procedure mediche che spesso abbiamo denunciato per l’effetto di
silenziamento del sintomo e per la solitudine, se non la colpevolizzazione
preventiva, in cui si è strette di fronte all’offerta tecnologica.
Screening di popolazione e diagnosi precoce, fattori di rischio e loro
controllo, profilo genetico e diagnosi predittiva sono pratiche e discorsi
condivisi e che tuttavia ci lasciano soli, senza «nessuna possibilità di
raggiungere un "noi" organizzato». Come costruire un “noi” se l’“io” non è
incarnato nel “soma”, ma guarda ad esso come a qualcosa di cui crede di
disporre a piacimento? Barbara Duden colloca nell’avvento della “pillola”,
il contraccettivo che ha segnato il passaggio dai mezzi meccanici, come la
spugnetta delle prostitute medioevali o il moderno diaframma, a un
“atteggiamento chimico” in grado di impartire un comando al proprio corpo,
l’origine di «una concezione del corpo che non può essere vissuta a
livello sensibile».
Negli anni ’70 l’urgenza di sottrarre la ricerca del piacere al rischio
riproduttivo, ha tenuto insieme contraccezione e “corpo vissuto” e
permesso di organizzare un “noi” critico, sulla “pillola”, ma deciso a
ottenerla. Di questo parlava allora l’autodeterminazione, del desiderio di
vivere liberamente il proprio corpo, insubordinato al potere patriarcale.
Ma se guardiamo agli sviluppi successivi:
il controllo demografico, la chirurgia estetica, le tecnologie
riproduttive, le diagnosi genetiche, allora possiamo vedere
nell’introduzione della pillola il primo passo nella direzione di quella
“privazione della corporeità” che consente il controllo politico dei corpi
e vena di ambiguità il significato dell’autodeterminazione: il suo
compimento approda alla consegna di sé nelle mani di chi promette di
esaudire i nostri desideri. «Recuperare la propria personale posizione» di
fronte all’offerta tecnologica che ci espropria dell’esperienza e
rivalutare la “competenza di sé”: sono questi gli strumenti per rinnovare
l’incontro e lo scambio fra chi sa raccogliere “l’espressione di un
disagio” (come faceva il dottor Storch) e chi domanda cura, per superare o
per accettare i limiti del “corpo vissuto”.
Barbara
Duden
Il gene in testa e il feto in pancia. Storia del corpo femminile
Bollati Boringhieri, 2006, pp. 256, euro 28,00
questo articolo è apparso su
Liberazione del
2 giugno 2006
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