“Di sicuro non vengono per me”
di Shirin Ebadi

 

estratto dal libro “Il risveglio dell’Iran: un memoriale della rivoluzione e della speranza”,
di Shirin Ebadi e Azadeh Moaveni
 Trad. Maria Grazia Di Rienzo
 

(Ndt. In un’intervista alla BBC del 1999, la Premio Nobel per la Pace disse: “Ogni persona che lavori per i diritti umani in Iran deve vivere con la paura dalla nascita alla morte, ma io ho imparato a sconfiggere la mia paura.” In questo estratto dal terzo capitolo del libro summenzionato, Ebadi racconta come lentamente comprese che i nuovi leader della rivoluzione l’avrebbero estromessa dal suo impiego giudiziario.)


Il cosiddetto “invito” a mettere la sciarpa in testa fu la prima avvisaglia del fatto che la rivoluzione poteva divorare le proprie sorelle, il che era quanto le donne si dicevano l’un l’altra nel mentre tutto si agitava per il rovesciamento dello Scià. Immaginate la scena, pochi giorni dopo la vittoria della rivoluzione. Un uomo chiamato Fathollah Bani-Sadr ebbe l’incarico provvisorio al Ministero della Giustizia. Ancora gonfi d’orgoglio, in gruppo, scegliemmo un chiaro e ventoso pomeriggio per andare a congratularci con lui, nel suo ufficio. Molti saluti affettuosi e fioriti complimenti furono scambiati. Poi gli occhi di Bani-Sadr si posarono su di me. Mi aspettavo che mi ringraziasse, oppure che esprimesse cosa aveva significato, per lui, il fatto che un’impegnata giudice donna come me avesse appoggiato la rivoluzione. Invece disse: “Non pensi che in nome del rispetto per il nostro amato Imam Khomeini, che ha benedetto l’Iran con il suo ritorno, sarebbe meglio se tu ti coprissi la testa?”

Ero sconvolta. Eccoci là, nel Ministero della Giustizia, dopo che una grande rivolta popolare aveva rimpiazzato un’antica monarchia con una repubblica moderna, ed il nuovo incaricato per la giustizia parlava di capelli. Capelli! “Non ho mai indossato una sciarpa per la testa in vita mia.”, gli risposi, “E sarebbe ipocrita cominciare ora.”
“Allora non essere ipocrita, e indossala con convinzione!”, disse lui, come se avesse appena risolto un mio problema.
“Guarda, non essere volubile.”, replicai, “Io non dovrei essere costretta ad indossare un velo, e se in esso non credo, non intendo indossarlo.”
“Non capisci come si sta evolvendo la situazione?”, chiese, alzando la voce.
“Sì, lo capisco, ma non fingerò di essere qualcosa che non sono.”, dissi io, e lasciai la stanza.

Non volevo sentire, e persino non volevo pensare, al tipo di realtà, alla “situazione” che lui aveva in magazzino per noi. Ero distratta da problemi più intimi e personali. Quella primavera, dopo che l’anno prima avevo abortito spontaneamente due volte, mio marito Javad ed io avevamo programmato un viaggio a New York, dove intendevamo interpellare uno specialista di disturbi della fertilità. L’appuntamento era stato preso da lungo tempo, prima del massiccio rivolgimento dell’ordine sociale, ed ora viaggiare era quasi impossibile. Ogni iraniano, per decreto, era “mamnoo ol-khorooj”, ovvero gli si proibiva di lasciare il suo paese.

Mi appellai ad Abbas Amir-Entezam, il vice primo ministro, con una speciale richiesta da parte dell’ufficio del giudice capo. Amir-Entezam, che poco dopo fu arrestato e che è detenuto ancora oggi, ci diede il permesso, ed in aprile volammo negli Usa. L’aeroporto Mehrabab di Teheran, di solito affollato di passeggeri diretti in Europa, sembrava una via di mezzo fra una città fantasma ed una base militare. I nostri bagagli furono minuziosamente perquisiti, temendo che in essa vi fossero oggetti d’arte o soldi illeciti del precedente governo, e infine salimmo a bordo del Boeing assieme ad altri quindici passeggeri. Mentre ci stiracchiavamo nelle file di sedili vuoti, guardai dal finestrino Teheran che scompariva sotto di noi, e mi chiesi che sorta di Iran avremmo trovato al nostro ritorno.

Gli specialisti di New York mi mostrarono empatia. E, forse, in quei giorni erano più franchi rispetto a ciò che l’avanzata scienza medica poteva fare per una donna sulla trentina che voleva concepire un figlio. C’era un ginecologo iraniano, nel team della clinica di Long Island, e mi spiegò la faccenda al classico modo persiano, con una metafora sulla fioritura: “Un melo può gettare un centinaio di boccioli, ma non tutti diventano mele. Riusciamo a spiegare perché, in presenza della stessa quantità d’acqua e dello stesso clima, alcuni dei boccioli cadono, ed altri diventano frutti? Certamente no.” Mi disse che i medici semplicemente non possono risalire alle cause di alcuni aborti, e che io avrei dovuto combattere la mia depressione, e continuare a tentare.

Il giorno dopo il nostro ritorno a Teheran, me ne andai diretta al lavoro. Eravamo stati distanti meno di un mese, ma era già una città differente. Le vie che attraversano Teheran, lunghi boulevard intitolati ad Eisenhower, Roosevelt, la Regina Elisabetta ed il Trono del Pavone, erano stati ribattezzati con i nomi di imam sciiti, di chierici martiri e di eroi della lotta antimperialista del terzo mondo.

Durante la nostra breve assenza, la gente aveva cominciato ad “indossare” il suo sostegno alla rivoluzione, letteralmente. Mentre il mio taxi oltrepassava lentamente gli edifici governativi nella periferia di Teheran, notai che l’usuale fila di auto ministeriali era svanita, ed al suo posto era apparsa una lunga linea di motociclette. Quando giunsi in tribunale passai da stanza a stanza, occhieggiando incredula in svariati uffici. Gli uomini non vestivano più giacche, pantaloni e cravatte, ma camicie sciolte senza collo, in maggioranza non stirate, e alcune persino sporche. Persino il mio naso percepì la differenza. L’odore di colonia che aleggiava nei corridoi, specialmente al mattino, era scomparso. Incontrando una collega in corridoio, le sussurrai il mio sconcerto per la subitanea trasformazione, mi sembrava che lo staff del ministero si fosse travestito per dare una recita sulla povertà urbana.

In qualche momento, durante la mia breve assenza, apparentemente si era smesso di prestare attenzione ai fatti concreti, e ci si era invece preoccupati di mettere fuorilegge la cravatta all’interno delle proprietà governative. I mullah radicali avevano a lungo disprezzato i “tecnocrati occidentalizzati” chiamandoli “fokoli” dal termine francese “faux-col”, o nodo di cravatta, ed ora la cravatta era considerata un simbolo dei mali occidentali, il profumare di colonia segnalava tendenze controrivoluzionarie, e guidare l’auto ministeriale era l’evidenza di un privilegio di classe. Nella nuova atmosfera, ognuno aspirava ad apparire povero, ed indossare abiti sporchi era divenuto un marchio di integrità politica, il segnale della simpatia per gli spossessati.
 

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“Cosa sono queste sedie!” Questo fu il famoso urlo dell’ayatollah Taleghani, uno dei prominenti chierici rivoluzionari, quando arrivò per riscrivere la Costituzione al palazzo del senato, e trovò una stanza piena di eleganti sedie rivestite di broccato. “Erano già qui.”, gli risposero i suoi aiutanti, sulla difensiva, “Non è che siamo andati a comperarle, o cose del genere.”
Per alcuni giorni, l’ayatollah e la sua assemblea vergarono la Costituzione sedendo a gambe incrociate sul pavimento, fino a che non ce la fecero più e si sistemarono sulle sedie corrotte.

C’era veramente un’aria di teatro, in quei tempi, ma io ero distratta dalle notizie che correvano negli ambienti giudiziari, notizie così sconcertanti che ad ogni loro nuova ripetizione dovevo ingoiare l’aria in singulti, per cacciare indietro la mia disperazione.
Si diceva infatti che l’Islam bandiva le donne dalla professione di giudice. Io tentai di riderci sopra. Contavo molti eminenti rivoluzionari fra i miei amici, e mi dicevo che i miei legami erano sicuri. Devo dire, per far capire cosa la mia potenziale rimozione avrebbe significato, che ero la giudice più nota del tribunale di Teheran. Gli articoli che avevo pubblicato mi avevano messa in vista, e oltre a ciò avevo le credenziali del mio sostegno, il sostegno di una giudice donna, alla rivoluzione. “Di sicuro”, continuavo a pensare, “non verranno a prendere me.”

Se fossero arrivati a me, avrebbe significato che tutto era perduto per tutte le donne, nel sistema giudiziario, e forse anche nel governo.
Per parecchi mesi, durante i quali rimasi incinta, mantenni la mia posizione. Un giorno, il Ministro della Giustizia provvisorio Bani-Sadr, quello dell’invito a mettere la sciarpa in testa, mi convocò nel suo ufficio e suggerì di trasferirmi all’ufficio investigativo del Ministero. Sarebbe stato un incarico prestigioso ma mi preoccupava il fatto che, se avessi rassegnato volontariamente le dimissioni, qualcuno potesse presumere che i ranghi dei giudici erano preclusi alle donne. Dissi di no.
Bani-Sadr mi avvisò che un “comitato di purificazione” stava per essere formato, e che io avrei potuto essere declassata al rango di assistente.
“Ma io non darò le dimissioni volontariamente.”, gli risposi.
 


Shirin Ebadi e Azadeh Moaveni
Il risveglio dell’Iran: un memoriale della rivoluzione e della speranza”,
The Random House Publishing Group, 2006.

Trad. M.G. Di Rienzo