estratto dal libro “Il
risveglio dell’Iran: un memoriale della rivoluzione e della speranza”,
(Ndt. In un’intervista alla BBC del 1999, la Premio Nobel per la Pace disse: “Ogni persona che lavori per i diritti umani in Iran deve vivere con la paura dalla nascita alla morte, ma io ho imparato a sconfiggere la mia paura.” In questo estratto dal terzo capitolo del libro summenzionato, Ebadi racconta come lentamente comprese che i nuovi leader della rivoluzione l’avrebbero estromessa dal suo impiego giudiziario.)
Ero sconvolta. Eccoci là, nel Ministero
della Giustizia, dopo che una grande rivolta popolare aveva rimpiazzato
un’antica monarchia con una repubblica moderna, ed il nuovo incaricato per
la giustizia parlava di capelli. Capelli! “Non ho mai indossato una
sciarpa per la testa in vita
mia.”, gli risposi, “E sarebbe ipocrita cominciare ora.” Non volevo sentire, e persino non volevo pensare, al tipo di realtà, alla “situazione” che lui aveva in magazzino per noi. Ero distratta da problemi più intimi e personali. Quella primavera, dopo che l’anno prima avevo abortito spontaneamente due volte, mio marito Javad ed io avevamo programmato un viaggio a New York, dove intendevamo interpellare uno specialista di disturbi della fertilità. L’appuntamento era stato preso da lungo tempo, prima del massiccio rivolgimento dell’ordine sociale, ed ora viaggiare era quasi impossibile. Ogni iraniano, per decreto, era “mamnoo ol-khorooj”, ovvero gli si proibiva di lasciare il suo paese. Mi appellai ad Abbas Amir-Entezam, il vice primo ministro, con una speciale richiesta da parte dell’ufficio del giudice capo. Amir-Entezam, che poco dopo fu arrestato e che è detenuto ancora oggi, ci diede il permesso, ed in aprile volammo negli Usa. L’aeroporto Mehrabab di Teheran, di solito affollato di passeggeri diretti in Europa, sembrava una via di mezzo fra una città fantasma ed una base militare. I nostri bagagli furono minuziosamente perquisiti, temendo che in essa vi fossero oggetti d’arte o soldi illeciti del precedente governo, e infine salimmo a bordo del Boeing assieme ad altri quindici passeggeri. Mentre ci stiracchiavamo nelle file di sedili vuoti, guardai dal finestrino Teheran che scompariva sotto di noi, e mi chiesi che sorta di Iran avremmo trovato al nostro ritorno. Gli specialisti di New York mi mostrarono empatia. E, forse, in quei giorni erano più franchi rispetto a ciò che l’avanzata scienza medica poteva fare per una donna sulla trentina che voleva concepire un figlio. C’era un ginecologo iraniano, nel team della clinica di Long Island, e mi spiegò la faccenda al classico modo persiano, con una metafora sulla fioritura: “Un melo può gettare un centinaio di boccioli, ma non tutti diventano mele. Riusciamo a spiegare perché, in presenza della stessa quantità d’acqua e dello stesso clima, alcuni dei boccioli cadono, ed altri diventano frutti? Certamente no.” Mi disse che i medici semplicemente non possono risalire alle cause di alcuni aborti, e che io avrei dovuto combattere la mia depressione, e continuare a tentare. Il giorno dopo il nostro ritorno a Teheran, me ne andai diretta al lavoro. Eravamo stati distanti meno di un mese, ma era già una città differente. Le vie che attraversano Teheran, lunghi boulevard intitolati ad Eisenhower, Roosevelt, la Regina Elisabetta ed il Trono del Pavone, erano stati ribattezzati con i nomi di imam sciiti, di chierici martiri e di eroi della lotta antimperialista del terzo mondo. Durante la nostra breve assenza, la gente aveva cominciato ad “indossare” il suo sostegno alla rivoluzione, letteralmente. Mentre il mio taxi oltrepassava lentamente gli edifici governativi nella periferia di Teheran, notai che l’usuale fila di auto ministeriali era svanita, ed al suo posto era apparsa una lunga linea di motociclette. Quando giunsi in tribunale passai da stanza a stanza, occhieggiando incredula in svariati uffici. Gli uomini non vestivano più giacche, pantaloni e cravatte, ma camicie sciolte senza collo, in maggioranza non stirate, e alcune persino sporche. Persino il mio naso percepì la differenza. L’odore di colonia che aleggiava nei corridoi, specialmente al mattino, era scomparso. Incontrando una collega in corridoio, le sussurrai il mio sconcerto per la subitanea trasformazione, mi sembrava che lo staff del ministero si fosse travestito per dare una recita sulla povertà urbana. In qualche momento, durante la mia breve
assenza, apparentemente si era smesso di prestare attenzione ai fatti
concreti, e ci si era invece preoccupati di mettere fuorilegge la cravatta
all’interno delle proprietà governative. I mullah radicali avevano a lungo
disprezzato i “tecnocrati occidentalizzati” chiamandoli “fokoli” dal
termine francese “faux-col”, o nodo di cravatta, ed ora la cravatta era
considerata un simbolo dei mali occidentali, il profumare di colonia
segnalava tendenze controrivoluzionarie, e guidare l’auto ministeriale era
l’evidenza di un privilegio di classe. Nella nuova atmosfera, ognuno
aspirava ad apparire povero, ed indossare abiti sporchi era divenuto un
marchio di integrità
politica, il segnale della simpatia per gli spossessati. **** C’era veramente un’aria di teatro, in
quei tempi, ma io ero distratta dalle notizie che correvano negli ambienti
giudiziari, notizie così sconcertanti che ad ogni loro nuova ripetizione
dovevo ingoiare l’aria in singulti, per
cacciare indietro la mia disperazione. Se fossero arrivati a me, avrebbe
significato che tutto era perduto per tutte le
donne, nel sistema giudiziario, e forse anche nel governo.
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