Introduzione di Elda Guerra all’incontro promosso dall’Associazione Orlando: Donne che sostengono la libertà delle donne Bologna 23 novembre 2013
Nel pensare a come introdurre la giornata di oggi mi è venuto in mente un saggio di diversi anni fa scritto da Anna Rossi-Doria in occasione del convegno di Glasgow sulle teorie femministe. In quel saggio Anna si interrogava sul significato del termine tradizione per la storia delle donne e in specifico per la loro storia politica.
In questi anni ci siamo a lungo interrogate sul passaggio delle generazioni, sull’eredità politica rappresentata dai movimenti delle donne, sulla diversità dei contesti in cui le differenti generazioni hanno condotto le loro esistenze. Porre questi temi significava interrogarci anche sulla durata, sulla persistenza nel tempo dei movimenti a cui abbiamo dato vita. In questa giornata vogliamo confrontarci con una delle facce della durata e della trasmissione: quella più direttamente materiale rappresentata dall’esistenza e dalla sedimentazione di patrimoni non solo simbolici, capaci di rendere possibile la durata delle storie. Abbiamo anche voluto circoscrivere il campo, tracciando un confine preciso. Ciò di cui desideriamo parlare sono le forme di sostegno alla libertà delle donne in un intreccio molto forte tra dimensione politica, progettualità culturale, condizioni sociali. In altre parole intendiamo affrontare la questione a partire dai gesti compiuti da gruppi o singole per sostenere altre donne all’interno di quell’orizzonte che abbiamo prima delineato. Non è facile parlare di danaro e patrimoni, anche se privatamente o nelle associazioni ne parliamo continuamente, non è facile perché è in gioco l’esistenza in senso pieno e delle singole e dei gruppi. Soprattutto non è facile fare di ciò “discorso pubblico e condiviso” non solo sul piano teorico, ma anche su quello assai concreto delle esistenze tanto individuali, quanto collettive. Certo la brutalità della crisi attuale oggi rende tutto questo forse più dicibile. Nel mio intervento cercherò di dare alcuni spunti di riflessione, in vista, se sarà possibile di una riflessione più compiuta. Nella lettera scritta per convocare l’incontro di oggi abbiamo accennato ad una breve tipologia che cercherò rapidamente di applicare al passato e al presente.
Osservando i bilanci delle grandi associazioni femministe internazionali di inizio secolo, in cui molto forte è stato l’influsso della tradizione anglosassone di filantropia sociale, si evincono con chiarezza le spese e le entrate. Sul piano delle risorse è evidente, tuttavia, che la prima grande risorsa non iscritta a bilancio è stata l’attività volontaria, l’autofinanziamento delle stesse protagoniste. Andando allo scarno linguaggio dei consuntivi finanziari : le spese riguardavano prima di tutto i luoghi, i salari, le spese organizzative, la stampa di periodici che rappresentava un costo al di là delle convinzioni spesso ripetute che le pubblicazioni potessero essere una fonte di finanziamento. Queste spese erano sostenute in minima parte dalle quote associative: le entrate più rilevanti erano date dalle quote di soci onorari e donazioni per la costituzione di fondi specifici: insomma fonte essenziale e imprescindibile sono state le risorse messe a disposizione da quelle donne che, per condizioni diverse, avevano accumulato sostanziosi patrimoni. Questi gesti s’inscrivevano in una lunga tradizione di filantropia sociale, radicata nella cultura protestante della responsabilità individuale, che ha consentito soprattutto come dicevo nei paesi anglosassoni, ma anche nei paesi del Nord Europa o in Olanda di sostenere in modo significativo la società civile organizzata. Spesso questi danari sono stati investiti in azioni o titoli da cui provenivano altri proventi. In sostanza ci troviamo di fronte ad una struttura che si mantiene attraverso queste fonti di entrata. Faccio qualche esempio. Nel caso di una grande associazione femminista e pacifista internazionale come la Women’International League for Peace and Freedom sono stati fondamentali il contributo continuativo dato da Jane Addams, la capacità attrattiva esercitata dalla sua stessa figura rispetto a lasciti, e entrate straordinarie legate al conferimento alla stessa Addams del premio Nobel per la pace (cfr. Maria Grazia Suriano, Percorrere la nonviolenza, Roma, Aracne, 2012). Lo stesso vale per l’International Woman Alliance, altra grande associazione internazionale di donne, con i ripetuti sostegni della sua presidente Carrie Chapman Catt, o per Aletta Jacobs nel caso del movimento olandese. In sintesi: in quell’epoca il tratto dominante è rappresentato dal fatto che alcune donne decisero di investire parte dei loro personali patrimoni nei movimenti di cui loro stesse erano protagoniste. Se dal mondo anglosassone e nord-europeo ci trasferiamo in Italia, possiamo trovare anche qui esempi significativi anche se diversi. Mi limito, per ragioni di tempo, al caso dell’Unione femminile nazionale voluta all’inizio del secolo a Milano da Ersilia Majno per tenere, come lei stessa scrive “in quotidiano contatto istituzioni e persone” e dare “un indirizzo pratico alle energie femminili disperse e latenti” (Ersilia Majno, L’unione Femminile Nazionale, “Vita femminile italiana”, 1907) Struttura estremamente complessa che comprendeva un insieme di attività ed era sostenuta anche dalla amministrazione socialista milanese, essa trovò sul piano economico una forma cooperativa. Alle origini ci fu una donazione per l’acquisto della casa, su questo primo atto si innestò il progetto cooperativo con una forma di azionariato che prevedeva azioni di 25 lire ciascuna. Non vado oltre, se non per dire che quella forma cooperativa salvò il patrimonio del’Unione Femminile Nazionale, consistente nella sede e in investimenti finanziari, quando nel 1938 una nuova stretta sulle associazioni da parte del regime fascista, portò ad incamerare i loro beni per trasferirle alle strutture del partito e delle organizzazioni di massa dello stesso regime. In quanto “cooperativa” infatti poté rientrare sotto la normativa del Ministero delle corporazioni e sfuggire al sequestro. Questo sguardo al passato non sarebbe, però completo, se trascurassimo i terreno di confine tra l’associazionismo femminile e le organizzazioni che intanto si stavano strutturando del movimento operaio, organizzazioni dove forse più che nel movimento delle donne era avvertito il bisogno di sostenere anche le vite individuali nel momenti di difficoltà ( dalla malattia, all’invecchiamento, alla maternità) in assenza di quelle strutture dello stato sociale che, ancora in termini assai deboli,cominciavano a configurarsi con il nuovo secolo. Mi riferisco alla grande esperienza mutualistica e cooperativa realizzata attraverso la costituzione di fondi dati da quote e donazioni che rappresentavano la “cassa” a cui ricorrere in situazioni particolari e difficili congiunture biografiche. All’origine vi era l’idea del superamento della beneficenza e della sua aleatorietà: non beneficenza quindi, ma mutua assistenza, reciproco aiuto specie nei momenti di malattia, infortuni, calamità, impotenza al lavoro, vecchiaia. Da quelle associazioni in alcuni casi presero vita le leghe di mestiere e le prime forme cooperative nel campo del credito, del consumo e del lavoro; tutte insieme , pur nella loro diversa ispirazione, costituirono quella vasta ragnatela in cui nacquero e crebbero le strutture di base dell'aggregazione sociale e politica delle classi sociali svantaggiate. Per la storia delle donne quelle esperienze presero essenzialmente la forma delle casse di maternità: penso all’esperienza della stessa Unione femminile nazionale o alla prima cassa di maternità istituita per opera di una donna, in Romagna, Ernesta Stoppa che Fiorenza Tarozzi ha riportato alla luce.
Tuttavia anche negli anni Settanta si poneva il problema della durata. Voglio citare un documento importante della storia del femminismo in cui le redattrici scrivevano nell’ ormai lontanissimo 1976: “Il tempo, i mezzi, i luoghi adeguati vogliono dire creare delle situazioni in cui le donne possono stare insieme per vedersi, parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre” (cit. in Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg&Sellier, 1987). Ho fatto questa citazione non per tornare su una scelta politica, la pratica del fare, che al tempo provocò conflitti e divisioni ma perché si può leggere in queste parole anche un’attenzione non scontata alla dimensione materiale, alle condizioni concrete dell’incontro tra donne. L’anno precedente aveva visto la nascita di un luogo come la Libreria delle donne di Milano che affrontava, attraverso l’apertura di un negozio che era insieme spazio politico e attività commerciale, il nodo del sostegno materiale del movimento, in una scelta di totale autonomia. Pochi anni dopo e qui vengo ad Orlando, con cui chiudo, qui a Bologna un gruppo di donne profondamente convinte della essenzialità della durata operò una scelta diversa: una convenzione con le istituzioni locali che da un lato salvaguardasse libertà e autonomia; dall’altro chiedesse ad esse un sostegno materiale con l’idea che una parte per quanto infinitesimale delle risorse pubbliche, e cioè di tutti noi, dovessero essere destinate al sostegno della visibilità e dell’affermazione della soggettività femminile.
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