Come deprogrammo lo stupratore

«Dico alle mie vittime: non ci sarà un'altra volta»
di Eleonora Cirant


“Deprogrammare” un violentatore si può? Solo a condizione che sia lui a dire «si, lo voglio». Riconoscere il mostro dentro di sé è il primo passo per sciogliere il nodo fra sessualità e aggressività che gli strozza la voce in gola. Perché possa farlo, qualcuno deve aver gettato verso di lui un ponte sul quale camminare. La bestia nel cuore, alla fine, potrebbe rivelare un volto umano.

«Porto dentro di me un mondo di brutte cose ed esperienze negative che spesso mi è difficile somatizzare e che per troppo tempo ho tenuto chiuso dietro a porte impossibili da aprire per le mie braccia corte se non con l’aiuto degli specialisti. […] Forse è difficile per qualcuno capire ciò che affermo, ma, per ciò che mi riguarda, gli abusi sessuali commessi fuoriescono e sono del tutto estranei al mero desiderio sessuale, ma sono spinti da qualcosa di più profondo che ho scoperto qui col lavoro che compio e con i contatti con uno psichiatra.[…] Penso che il poter assicurare alle mie vittime che non ci sarà un’altra volta sia già qualcosa». La testimonianza di Carlo è pubblicata su Carte Bollate, il periodico di informazione del carcere trattamentale di Milano-Bollate, dove è detenuto per violenza sessuale. Da settembre 2005 partecipa al progetto di «trattamento e presa in carico di autori di reati sessuali» realizzato dall’equipe del CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), che coinvolge 19 sex offenders: un esibizionista, 7 autori di violenza su donne, 11 su minori, selezionati tra i 40 “abusanti” che avevano chiesto di poter partecipare. Le loro sono storie di rinascita.

«L’importanza cruciale che il “progetto” attribuisce all’empatia, l’atteggiamento affettuoso e non ricattatorio, ma fermo, e la visione incondizionatamente positiva che ha nei confronti di ogni individuo può ridurre l’ansia», scrive Antonio, che dichiara: «voglio diventare una persona almeno cosciente delle sue problematiche, per tentare di recuperare un minimo di ambita “normalità” e lo devo anzitutto verso le persone che hanno sofferto i miei comportamenti devianti, lo devo verso me stesso ». Anche Martin parla di consapevolezza: “Quando fui arrestato per aver commesso violenza sessuale a discapito di due bimbe, non fui conscio della gravità; non ero maturo come uomo, nonostante avessi raggiunto la sufficiente età biologica”.

Il modello di intervento praticato nel carcere di Bollate interpreta il reato sessuale come «sessualizzazione dell’aggressività». Gli uomini che hanno scelto di partecipare al progetto sono ossessionati dal sesso, che pervade la loro vita. È confuso con l’amore e vissuto come fonte di potere e controllo. È il solo canale in cui si esprime l’aggressività compressa. Paolo Giulini, criminologo, coordinatore del progetto, spiega che queste persone non presentano specificità né di classe né socio-culturale. La caratteristica è nella struttura della loro personalità: «hanno tutti alle spalle un’infanzia trascurata, vissuta in ambienti promiscui, con nuclei genitoriali incostanti, ambivalenti, spesso con intrusioni sessuali; sono portatori di una fragilità e una vulnerabilità strutturale». Di età media tra i 25 e i 40 anni, sono tutti italiani (un filippino, un marocchino e alcuni rumeni avevano chiesto l’intervento, ma in questa fase l’equipe del progetto ha preferito poter contare sull’omogeneità linguistica).

Sei di loro sono usciti con l’indulto, perché oltre alla violenza sessuale erano in carcere per rapina, estorsione, furto (reati, appunti, indultabili). Uno ha terminato la pena. Tutti e sette, una volta fuori, si sono presentati spontaneamente per proseguire i gruppi per la gestione della conflittualità e dell’aggressività. Vanno al Centro per la mediazione sociale e penale, un servizio del Comune di Milano , gestito in convenzione da un’associazione del privato sociale, il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (lo stesso che ha promosso il progetto di Bollate). L’instancabile Paolo Giulini, tra gli artefici sia del progetto che del Centro, commenta: «questo ritorno è un successo, significa che abbiamo costruito un percorso di fiducia e alleanza». Chiave di volta dell’intervento è infatti la fiducia, poiché la relazione di queste persone con il mondo è fondata sull’allarme e la diffidenza. 

Mentre gli ex-detenuti hanno scelto di proseguire la terapia al Centro di mediazione, per gli altri rimasti in carcere si apre proprio in queste settimane la seconda fase del progetto, cioè l’inserimento nei reparti insieme ai detenuti comuni. Fino ad ora stavano al “Sesto”, un reparto di trattamento intensificato del carcere. Questo passaggio è un momento importante anche perché è volto a spezzare la regola non scritta secondo cui un detenuto per violenza sessuale è isolato dagli altri abitanti del carcere. «La ghettizzazione che funziona da parte della società verso i detenuti è attuata anche da parte dei detenuti verso altri detenuti. È una regola della sub-cultura carceraria che noi non possiamo accettare», dice Lucia Castellano, Direttrice del carcere di Bollate. Abbattere il muro sarà possibile anche grazie agli agenti e ai graduati della Polizia penitenziaria, coinvolti nel progetto attraverso una formazione specifica. Sarà difficile, ma è necessario, dice Giulini, altrimenti «si rinforza lo stigma negativa che permette il riprodursi della tendenza tipica di molti devianti sessuali a rinchiudersi in un vissuto di isolamento che ne accentua le inattitudini alla vita di relazione. I detenuti si rassicurano individuando qualcuno peggiore di loro, cosa che del resto ciascuno di noi tendenzialmente fa».

Si capisce perché le attività di gruppo e il racconto agli altri della propria storia abbiano una funzione terapeutica fondamentale che ha occupato per un anno tutto il tempo della giornata di questi detenuti, dal lunedì al sabato. Sono uomini che stanno uscendo dal silenzio, in senso letterale. Stanno anche imparando a “fermarsi prima”. «Si spiega loro quali sono le dinamiche del “passaggio all’atto”, si descrivono le “distorsioni cognitive” cui si può essere soggetti e poi si chiede se anche a loro succede così. Il terapeuta si pone con umiltà perché il suo ruolo è fare circolare il racconto dentro il gruppo. È un percorso che il gruppo modella e in cui non ci sono interventi intrusivi», dice Giulini. Tra i giochi di ruolo c’è quello della “hot seat”, la sedia bollente. A turno si risponde alle domande degli altri sul proprio reato. L’artetarapia aiuta a sviluppare capacità espressive legate alla creatività. Ci si è appoggiati alla scrittura per gettare fasci di luce nelle zone d’ombra che pare impossibile guardare, componendo la propria autobiografia o una lettera - mai spedita - alla propria vittima. L’attività sportiva mette in gioco il corpo, la fisicità, ed è anche occasione per mediare i conflitti attraverso regole condivise: il gioco di squadra non funziona se una persona viene a mancare. L’attività di gruppo per la prevenzione della recidiva non ha lo scopo di «modificare gli schemi sessuali devianti», ma individuare i precursori dell’atto deviante. Si mettono gli abusanti in condizione di automonitorare continuamente i pensieri, le fantasie, gli impulsi che precedono e seguono l’abuso.

Stiamo leggendo la storia di questi uomini, ma gli aggressori sessuali non sono tutti uguali e non tutti possono essere trattati. «Il vero perverso ha con il mondo un rapporto di dominio, quasi sempre per un disturbo legato alla relazione originaria di attaccamento. Non sempre è stato a sua volta abusato», spiega Giulini. I sex offenders in terapia a Bollate hanno tratti di perversione più o meno marcati, ma non rientrano nel tipo precedente, che difficilmente riconosce di avere compiuto una violenza sessuale. Invece per accedere al trattamento è stato necessario che l’abusante riconoscesse i propri atti e se ne assumesse la responsabilità, passo formalizzato da un vero e proprio contratto sottoscritto dagli interessati. Risolvere il problema della negazione dietro a cui si trincerano gli autori di reato sessuale significa essere già a metà del guado.

Sulla varietà dei comportamenti e sull’impossibilità di definire un solo tipo di sex offender insiste anche il giovane psicologo che ha iniziato a collaborare al progetto come tirocinante. «Mi aspettavo il mostro e invece ho proprio dovuto imparare che il mostro non esiste, - dice - sono stato colpito dalla sensibilità di alcuni di loro». A lui e ad altri collaboratori del progetto chiedo se l’interazione con i sex offenders li abbia portati a riflettere sulla propria maschilità. Un educatore racconta il riaffiorare di un evento sepolto nella memoria, un contatto più intimo del solito subito da ragazzo da parte di uomo anziano, la sua sensazione di impotenza: «ero pietrificato». E aggiunge: «mi anche è capitato di trovarmi in situazioni analoghe a quelle raccontate dai nostri detenuti, ma mi sono fermato. Il passaggio è fermarsi». Un collega psicologo commenta: «ogni persona ha tratti perversi, ma nella relazione normale amorosa io considero l’altro come soggetto. L’atto deviante è un salto in cui non riconosco più l’altro come tale. Avere dei ruoli troppo sclerotizzati o stereotipati sull’essere uomo porta a conseguenze quali il non interrogarsi sui propri comportamenti, il non sentirsi rispettati o amati».

Tra i sex offenders di cui parliamo in queste pagine, chi ha violentato una donna lo ha fatto con un’estranea. «Nelle carceri è difficile trovare aggressori sessuali su donne familiari, mentre è presente la violenza su sconosciute», spiega Giulini. Osservando le cifre, i conti tornano: gli aggressori sessuali costituiscono il 2% dell’intera popolazione carceraria. L’ultima indagine Istat sulla violenza sessuale (2004) ha rilevato che le violenze da parte di estranei riguardano il 3,5% delle donne che hanno subito violenza sessuale. Nel 23,8% dei casi l’autore è un amico delle vittime, nel 20% è il convivente o il coniuge, nel 17,4% è il fidanzato o ex fidanzato.

È preoccupante che nei tribunali i reati di violenza sessuale compiuti da adolescenti siano in aumento costante. Paolo Giulini osserva che si può rilevare in questi adolescenti una “struttura” psichica simile a quella degli adulti in terapia a Bollate i quali hanno a loro volta avuto comportamenti devianti nel corso dell’adolescenza. Significa che un intervento mirato e curato sui giovani oggi potrebbe evitare danni ulteriori domani. Come? Devono poter apprendere l’abc della relazione umana, cioè che l’altro o l’altra non è un oggetto, ma un soggetto.

La storia raccontata in queste pagine dimostra che si può intervenire con altri strumenti che non siano quelli meramente repressivi. Basta volerlo. Il progetto realizzato nel carcere di Bollate è stato possibile grazie alla determinazione della sua Direttrice e all’impegno del CIPM. Costerà, in tutto, poco più che 100.000 euro (a Milano un monolocale è più caro) ed è stato finanziato con i fondi della legge regionale n. 8/05 sul carcere, grazie ad un intervento bipartisan. Hanno collaborato Francesca Corso, CI, Assessorato con delega alle carceri della Provincia di Milano e Antonella Maiolo, FI, Presidente della Commissione Speciale sulla situazione carceraria, con l’appoggio della Direzione generale famiglia e solidarietà sociale e la Presidenza della Regione. Il progetto è realizzato grazie all’impegno di una equipe multidisciplinare  di tre criminologi, sette psicologi, uno psichiatra, due educatori un’arteterapeuta  uno psicomotricista. Sette donne e sette uomini, due tirocinanti in psicologia, con la supervisione di Andrè McKibben, Presidente dell’Istituto Pinel di Montreal. Proprio dal Canada prende spunto il modello di intervento adottato nel progetto di Bollate, unico in Italia e in Europa per le caratteristiche che presenta: multidisciplinarietà e rete sul territorio. Non è indifferente il contesto in cui è realizzato. Non solo perché nella terapia l’ambiente ha importanza pari alle procedure e, nei limiti di quel che può essere una “casa di reclusione”, a Bollate si vuole realizzare un ambiente confortevole. Sono peculiari anche le finalità che orientano la gestione del carcere, nato appunto come “sperimentale”. «Vogliamo costruire un quotidiano penitenziario che abbia senso, un luogo in cui la reclusione non sia fine a se stessa e in cui ai detenuti non piovano le cose dall’alto», dice Lucia Castellano, la Direttrice.

Insomma, dove se non qui? Il progetto di intervento sui sex offenders è un’eccezione nell’attuale situazione penitenziaria che rende l’autore di violenza sessuale, come dice Giulini, un «detenuto ibernato che viene restituito a fine pena alla società come scongelato, ancora con le proprie caratteristiche psicopatologiche intatte, e con in più una frequente dose di rancore, che lo rende più vulnerabile agli agiti aggressivi e ad un acritico isolamento. Le conseguenze di questo sistema, che produce inevitabilmente insicurezza, saranno il ricorso a metodi e interventi di controllo sul territorio… Da detenuto ibernato a reo marchiato».

Il percorso dalla negazione all’accettazione e infine al prendersi cura della propria patologia contempla la consapevolezza che non si può guarire definitivamente. «Come nell’alcoolismo, il delinquente sessuale non deve mai considerarsi al riparo da una caduta o ricaduta, ma deve imparare a gestire la sua patologia ed a migliorare la qualità della sua vita, e soprattutto stendere il lutto sulla sua onnipotenza”, scrive J. Aubut, psichiatra dell’Istituto di Monrèal. T., ex detenuto che partecipa attualmente ai gruppi di prevenzione della recidiva presso il Centro ammette: «le fantasie devianti che avevo allora e la voglia di umiliare gli altri sono ancora presenti in me, per cui continuo un percorso anche adesso che sono uscito  per cercare di se non di eliminarle, almeno modificare queste fantasie».

La legge sulla violenza sessuale del 1996 ha finalmente permesso di riconoscere la gravità del reato di violenza sessuale, ma non prevede alcuna forma di intervento sui detenuti che, una volta scontata la pena, torneranno a ripetere il reato. I tempi per un ulteriore passo avanti sono forse maturi.

 

questo articolo è apparso sull'inserto domenicale di Liberazione del 19 novembre 2006