Eluana, né con te, né contro di te
Ma insieme a te, alla tua libertà


di Maria Luisa Boccia, Grazia Zuffa


Chiedo silenzio e rispetto. Chiedo che la vicenda di Eluana ritorni nella sfera privata: sono parole di Beppino Englaro dopo che la sentenza della Cassazione ha ribadito, in modo definitivo, la fondatezza della sua richiesta di sospendere i trattamenti che Eluana non avrebbe voluto.
E' un richiamo al rispetto della singolarità e della libertà di Eluana.
Ma è proprio su questo nocciolo della vicenda umana, che lo scontro politico non pare destinato ad acquietarsi. Anzi, i toni si inaspriscono. Sono in molti a parlare di "eutanasia", perfino di " assassinio". Fisichella, presidente della Pontificia accademia della vita, definisce Eluana «una ragazza mandata a morte» a mo' di schiaffo sulla guancia degli infedeli. Sono parole gravi, tese a colpire innanzitutto le persone più vicine ad Eluana, che più soffrono ed hanno sofferto per il suo stato, in questi lunghi 16 anni. Chi le pronuncia come anatema vuole produrre una rottura insanabile. Tra chi è "a favore" e chi è "contro" Eluana.
Giustamente Beppino Englaro aveva già chiarito che i giudici non si sono pronunciati né "a favore" né "contro" Eluana, ma insieme con lei. "Insieme con lei", perché hanno affermato che nessuno può disporre di Eluana e del suo corpo, diversamente da come lei stessa avrebbe scelto. Hanno cioè riconosciuto la libertà di Eluana - sua e non di altri - di definire la propria "dignità di persona", secondo il suo modo singolare, privato o meglio soggettivo, di pensare e di sentire.

Nel volume Eluana. La libertà e la vita, Beppino Englaro scrive che la figlia considerava certe forme di sopravvivenza forzata "inaccettabili, umilianti e inutili". Che non sopportava l'idea di un corpo inerte ed incosciente, costretto a subire continue manipolazioni e violazioni della propria intimità. Ma - non esita a riconoscere - «le sue considerazioni sulla vita e sulla morte rispecchiavano ciò che lei desiderava per se stessa», senza negare altre convinzioni.
Per alcuni/e la "dignità della persona" è legata ad un vissuto di coscienza e relazione col mondo; per altri/e è degna la vita biologica in se stessa. Quale che sia il modo di intenderla, va rispettato e riconosciuto. Questo ha detto la Corte di Cassazione già con la sentenza di luglio.

E' un principio costituzionale, laico e democratico, nel quale la soggettività di ognuno/a trova un suo spazio. Ma è proprio qui il cuore dello scontro, etico e politico. Per alcuni/alcune il rispetto della "dignità della persona" non può prescindere dalle convinzioni e dai sentimenti degli uomini e delle donne, in carne ed ossa. Per altri/e la "dignità" della vita si pone, o meglio deve porsi, al di sopra del singolo essere umano. Per il credente è Dio a disporre della vita e della morte, del loro valore e del loro significato. Tradotta in norma etica assoluta, da far valere verso tutti e tutte, indipendentemente dalle loro credenze, la tutela della "Vita" astratta si presenta come potere di limitare la libertà dei soggetti.

Da qui l'appello alla legge dello Stato. Una legge che deve incardinarsi su una sola concezione etica. Se ieri si riteneva più efficace praticare l'ostracismo sul testamento biologico, bollato come anticamera dell'eutanasia, la legge è invocata dopo la sentenza della Corte. Per chiudere lo spazio che ha aperto. Tenuto conto dei rapporti di forza in Parlamento si punta a limitare drasticamente sia la possibilità di decidere quali terapie rifiutare, sia tempi e modi della dichiarazione di volontà.
Si preferisce affidarsi al potere medico, lasciando alla sua discrezionalità la decisione, anche contro la volontà del paziente. (Si leggano in proposito le postille di alcuni componenti del comitato di bioetica al documento "Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico"). Rinunciando ad ogni cautela, ad ogni problematicità sul ricorso alle macchine. E sul potere tecnologico, spesso invasivo, che per loro tramite si esercita sulle vite. Piergiorgio Welby è stato bollato come peccatore, privato del funerale religioso, perché non sopportava più la prigionia dolorosa della macchina che respirava artificialmente in sua vece.

Se vogliamo capire perché il conflitto fra libertà e paternalismo autoritario, in sé non nuovo, è giunto a toni di non ritorno, bisogna nominare il convitato di pietra che pochi, troppo pochi, chiamano in causa, ovvero le tecnologie. Strumenti sempre più sofisticati strappano alla morte, consegnando le persone ad uno stato artificiale, sospeso tra la vita e la morte. Difficile da riconoscere perché è molto lontano dall' esperienza umana di vita (e di morte). E di conseguenza, anche dalle parole che le hanno dato valore e significato. Solo di recente l'uno e l'altro si sono racchiusi nella vita biologica. Ma è proprio questa riduzione della vita al biologico che contrasta con l'esperienza ed il sapere della vita umana, sedimentati nel tempo.

Lo stato attuale di Eluana - scrive con chiarezza Umberto Veronesi - è «una nuova condizione di vegetante, creata come esito non voluto delle metodiche di rianimazione e di terapie intensive» ( Repubblica , 14 novembre '08). Ho promosso una campagna per il testamento biologico - prosegue - per dare, a chi lo desidera, la possibilità di rifiutare una vita artificiale».
E' una ammissione importante dei limiti della nuova medicina e degli scenari inquietanti che apre nel rapporto fra natura e artificio, rendendo più incerto il confine fra vita e morte.
Questa incertezza è proprio ciò che inquieta. Inquieta tutti, naturalmente, non solo chi propugna un'idea di Vita, come antitesi alla Morte. Anzi. Aggrapparsi alla Vita astratta è un modo per esorcizzare l'inquietudine. Affermare con toni sempre più estremi che la Vita è "data", al di fuori dell'esperienza concreta del vivente, permette infatti di non pensare a quella insostenibile confusione di confini.

Anche l'appello alla legge ha la funzione, pratica e simbolica, di sollevarci dall'onere di pensare le inedite condizioni di vita e di morte che le tecnologie producono. Tutto sarebbe risolto una volta che è sancito, per legge. Questa funzione è tanto più evidente, dopo le sentenze della Corte e del Tribunale di Milano. Grazie alle quali dovrebbe essere evidente che non vi è "vuoto di diritto". Tutto il contrario, vi è un pieno di diritto, del quale il Parlamento non può non tener conto. Se non vi fosse, non vi sarebbe stato modo di pronunciarsi sul merito del caso specifico Englaro; ma, soprattutto, non sulla sua stessa ammissibilità giuridica.

Le due sentenze della Corte dicono con chiarezza che vi sono norme che consentono di valutare nel merito, caso per caso, le situazioni di malati terminali, o di stati vegetativi, o di altro tipo di intervento medico-tecnologico. Ed indicano un preciso orientamento, quello del rispetto della volontà della persona. In definitiva la scelta è nelle mani di ognuno/a di noi. Nessuna legge dovrebbe discostarsi da questo principio. Perché è garantito dalla Costituzione. Ma è molto improbabile che questo avvenga. In questo Parlamento, e nel contesto attuale di scontro, creato dai crociati della "Vita". A cosa serve allora una legge? A mettere in scena il conflitto etico-politico? Ad affermare chi ha il potere di riconoscere o negare, o limitare l'autonomia soggettiva? A dare con l'ennesima legge-manifesto una finta risposta alle inquietudini di tenti e tante? Perché l'autonomia suscita timori, anche comprensibili. Invece di alimentarli con fantasmi di omicidi e altri orrori, andrebbe favorita la presa di coscienza nello spazio pubblico.

Accogliamo la richiesta di silenzio e rispetto di Beppino Englaro. Sarebbe un segno di civiltà consentire, da qui in avanti, che questa concreta vicenda torni alla sfera privata. Mantenendo però vivo il seme che ha gettato nella sfera pubblica.
Perché invece che sulla legge, non concentriamo la discussione pubblica sugli scenari inediti di scelta che ci propongono le tecnologie? Un modo concreto per farlo, sarebbe quello di lanciare una campagna per "le dichiarazioni di volontà anticipata".
Confrontandoci tra donne ed uomini con idee ed esperienze differenti, sulla domanda se vorremmo o no sottoscriverle. Nella consapevolezza che si arrivi o no ad una legge, buona o cattiva che sia, quale uso faremo delle tecnologie, del loro potere sulla vita e sulla morte, dipenderà dalla coscienza singolare e collettiva.
C'è da creare sedi ed occasioni per pensare, per creare senso condiviso. Merita farlo, piuttosto che affidarsi al potere legislativo ed al confronto in Parlamento sulla legge.

 

articolo pubblicato da Liberazione il 18/11/2008

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