Il parto e la maternità, tabù da rompere
di Francesca Fanciullacci

In un momento storico come il nostro, caratterizzato da guerre, razzismi e dal terrore crescente di nuovi attentati terroristici, la maternità fa ancora notizia. Qualche giorno fa i riflettori erano per una madre che, costretta dalle circostanze, ha partorito da sola senza assistenza medica; altre volte a venire messe in risalto sono storie di donne, vicine alla santificazione, che decidono di portare a termine una gravidanza a scapito della loro stessa vita; sempre più spesso i mass media raccontano di madri che annegano la loro creaturina nella vasca da bagno, la centrifugano nella lavatrice, la massacrano di botte, o semplicemente la depositano in un cassonetto per l’immondizia.

Da una parte le brave madri, corpi abitati, oggetti asessuati la cui unica ragione di vita è il sacrificio per amore dell’altro; dall’altra parte quelle cattive che, prive dell’istinto materno, urlano una rabbia che non è lecita. In entrambi i casi la donna come soggetto viene cancellata e si consolida l’ideale della maternità su cui si fonda il patriarcato. Questi fatti di cronaca, così come vengono riportati, non sono narrazioni neutre, meri racconti di episodi di vita vissuta, ma si configurano come il discorso di un potere che ancora oggi parla al posto delle donne, nasconde le loro voci, condannandole o idealizzandole.

Al fine di vederci riconosciuto il diritto di essere prima di tutto degli individui credo sia indispensabile rompere il tabù del parto e della maternità. Abbiamo il dovere di cercare dietro alla madre che uccide o si lascia uccidere la donna, la sua depressione, la solitudine in cui vive, la difficoltà di ripensare al rapporto con la propria madre. L’errore più grande che possiamo fare è reiterare il silenzio.

Mi chiedo perché le donne continuano a mentirsi circa la maternità. Forse perché dare la vita è l’unico strumento di potere in una società dominata dai Padri?

Perfino il dolore del parto rimane taciuto. Molte riconoscono di avere “sentito male” ma dicono che questo dolore è cessato non appena hanno visto la loro creatura. Anch’io pensavo che avrei provato solo gioia e dolcezza quando, prima di recidere il cordone ombelicale, avrebbero poggiato il piccolo corpo di Selene sul mio.

Non è stato così, e gli anni che sono passati non hanno cancellato dalla mia memoria le sofferenze fisiche e psicologiche che hanno accompagnato l’evento del parto: il momento del travaglio, trascorso da sola nella camera di un ospedale che credevo essere all’avanguardia, e le successive due ore e un quarto passate a spingere con un’ostetrica accanto che mi rimproverava del fatto che urlassi “basta”, spiegandomi che se mia figlia non usciva era perché io non volevo farla nascere.

Non sentivo dolore, ne ero abitata completamente. Il mio corpo impotente, intrappolato, veniva lentamente smembrato. Dopo quel tempo interminabile passato a spingere dovetti andare sulle mie gambe in sala parto dove un medico di turno con arroganza sentenziò che ero in preda ad una crisi isterica.

Con la nascita di mia figlia ho riportato una lacerazione di terzo grado e sono rimasta così scioccata che non ho voluto nemmeno che adagiassero il suo piccolo corpo sul mio. Ho pianto e tremato incessantemente per alcune ore. Sono stata cucita e ricucita a lungo perché le parti tornassero a posto e sono dovuti passare dei mesi prima che riuscissi a trattenere di nuovo l’urina. Il certificato relativo alla nascita di mia figlia, che l’ospedale mi ha rilasciato, porta scritto “parto naturale”.

Oggi vivo il mio essere madre come una parte della mia vita: non è la mia identità, il mio io è altrove. Mi domando cosa potrebbe accadere se sempre più donne si rifiutassero di recitare il ruolo di madre istituzionalizzato dal patriarcato. Forse questo cesserebbe di esistere.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 13 agosto 2006