Corriere della sera 15 febbraio 2005

Ma quella violenza era figlia di opposti integralismi


Emma Fattorini


Nadia Magnabosco

 

È davvero troppo ingenuo sperare che il dibattito sulla vita e sulla morte avvenga in un clima sereno, con un confronto vero, almeno fino a che la mannaia dei referendum non schiacci tutto? Benemerite le analisi che tentano un bilancio di come sono andate le cose, senza rimozioni ma senza neppure «revisionismi» selvaggi, patetici sui temi etici. Ebbene evitiamo le reticenze, ma pretendiamo approfondimento e pietas. È il caso del saggio della storica Anna Bravo, disinteressato e coraggioso, apparso sull' ultimo numero della rivista Genesis.

Prima di tutto (bisogna leggerlo) è un raro esempio di come si può fare bene storia essendo soggetto e oggetto della propria ricerca, diventandone la fonte principale. Gli anni Settanta, così carichi di soggettività, sono un bel banco di prova per studiare il dispiegarsi delle emozioni nella politica, per ricostruire quell' intreccio di memoria, sentimenti e politica. Quella saggezza «civica» delle emozioni di cui ci parla la filosofa americana Martha Nussbaum. Con questo spirito, aggiungo allora qualche tassello a quella storia, dopo gli interventi di Silvia Vegetti Finzi e Lucetta Scaraffia.

I referendum del divorzio e dell' aborto furono una deflagrazione. Improvvisa e inaspettata per laici, cattolici e comunisti. Nessuno aveva previsto che la società fosse così laica e soprattutto così più laica delle sue culture politiche. La crisi della Dc ha il suo momento più significativo e quasi simbolico nel referendum del 1974. Se dunque la stagione referendaria ha inciso sul sistema politico italiano molto più di quanto non abbia fatto il biennio del 1968-69, come mai la soggettività che ne era all' origine, tanto enfatizzata per essere «più avanzata» delle culture politiche dei partiti, una volta esauritesi quelle, si è vanificata, dispersa o nel nulla o nella violenza? Una seconda considerazione. Il divorzio poneva un problema di laicità e di modernità del Paese che erroneamente venne estesa anche alla successiva legge sull' aborto che invece toccava «temi morali e psicologici assoluti».

E così, tra divorzio e aborto si instaurò una impropria continuità, che ha fatto malauguratamente ascrivere i temi della sessualità a quelli dei diritti. E questo non fu (solo) «colpa» delle donne. Le gerarchie ecclesiastiche capirono solo fino a un certo punto che si trattava di due piani molto diversi. Una mancanza di senso delle distinzioni che ha origine in quegli anni lontani e che resta il punto più opaco della posizione della Chiesa in materia di morale sessuale. Il fronte cattolico era molto più diviso di oggi e rifletteva, come ha bene ricostruito Paola Gaiotti nello stesso numero di Genesis, le divisioni interne alla Democrazia cristiana: nel 1971 la forte rivalità tra Moro e Fanfani, sulla presidenza della Repubblica, coinvolgeva il tema del divorzio perché evitare il referendum sarebbe stato un vantaggio per Moro. I vertici vaticani, divisi fra Villot, Benelli, Casaroli, cercavano di influenzare Paolo VI, chiamato in definitiva a dirimere la questione sulla possibilità o meno di un accordo. Di grande acume fu, in quel frangente, il tentativo di ricomposizione voluto da Enrico Bartoletti, segretario della Conferenza episcopale italiana dal 1972 al 1976.

Sarebbe interessante riaprire la riflessione su come e perché, poi, si interruppe quel processo ecclesiale, già prima della morte di Moro? Ma in tutto ciò, nessuno, neppure le forze di sinistra capirono il legame tra quel processo di secolarizzazione e una nuova identità femminile che per la prima volta separava sessualità e riproduzione. Una generazione di giovani donne scopriva forme di libertà del tutto impensabili che finivano per identificarsi con la immediata soddisfazione dei propri bisogni. Un inganno psicologico ancora prima che etico, nel senso che confondeva il proprio bisogno compulsivo con il desiderio maturo e scelto, l' appagamento immediato con l' amore.

Da qui, da questa immaturità emotiva comprensibile, ancorché non giustificabile, (per rientrare nei canoni del revisionismo corretto che chiede abiure e pentimenti) nasceranno le onnipotenze sul proprio corpo, frutto di poca consapevolezza, prima che di «immoralità», causa di infelicità prima che di peccato. In questo clima le posizioni si estremizzarono. Vogliamo, ora, ritornare a quel clima? A quella contrapposizione tra due integralismi: ciò che di quegli anni resta più vivo nella memoria è, infatti, il radicalismo autistico di un certo femminismo e i filmini nelle parrocchie sui feti straziati dagli interventi abortivi. Ci si ricorda molto meno di come, nella stragrande maggioranza delle donne (anche cattoliche), fu vissuta quella difficile situazione: e cioè con la percezione che l' aborto fosse una indubbia questione morale, perché la vita è tale fin dal concepimento, ma che comunque andava sottratto alla clandestinità e dunque depenalizzato come reato. Da allora le donne sono maturate (anche grazie agli errori delle femministe) e sarebbe davvero immorale da parte di tutti tornare allo stesso punto, accapigliandosi in una arena su temi oggi ancora più complessi e gravi di ieri. Capitalizziamo e non buttiamo via quel senso del limite cresciuto soprattutto tra le donne, nella maggioranza delle loro vite concrete.

Le femministe, «storiche» ormai de iure e de facto, data l' età, sono vicine ai temi della vita e della morte sotto il segno dell' invecchiamento, della fatica di vivere, della malattia. Da loro percepisco una pietà compassionevole per il liminale, per ciò che è scarto, piccolo, ancora non uomo-donna. Ma anche da quello che fu il Movimento per la vita ci sono segnali di minore rigidità. Non buttiamo via tutta questa vita cresciuta sugli errori e che anche per questo è più matura e profonda.