Donne,
Globalizzazione
e il Movimento Internazionale delle Donne
di Silvia Federici
Introduzione
Immagini di donne che stringono a sé i propri bambini tra macerie
che un tempo erano le loro case, che lottano per ricrearsi una vita
al di sotto dei tendoni dei campi profughi, o che lavorano in condizioni
prossime alla schiavitù (lavoro nero, case di tolleranza, lavoro
domestico all'estero) sono da anni ormai una miniera di risorse per
notiziari e titoli di stampa.
Le cifre relative alla condizione femminile, in primo luogo nei paesi
del "Terzo Mondo", supportano la storia di vittimizzazione
raccontata da tali immagini (1) al punto tale che la "femminizzazione
della povertà" è divenuta una vera categoria sociologica
( Jackson 1992-1993: 137-139; Lindsay 1997:144 ). Tuttavia, i fattori
determinanti una simile deteriorizzazione delle condizioni di vita
delle donne- che ironicamente coincide con un accesissimo intervento
istituzionale inteso a migliorarne il destino (2) -non risultano del
tutto comprensibili neppure in molti circuiti femministi.
Tra i sociologi femministi si è andata consolidando la convinzione
che le donne paghino un "costo sproporzionato" per l'entrata
dei loro paesi nel sistema economico globale. Ma le cause di tale
situazione non vengono discusse con altrettanta prontezza, oppure
vengono sbrigativamente attribuite alle attitudini patriarcali delle
agenzie internazionali che presiedono la globalizzazione.
Per questo, alcune organizzazioni femministe hanno proposto una nuova
"marcia attraverso le istituzioni" per influenzare lo sviluppo
globale e sensibilizzare le agenzie finanziarie alle questioni di
genere ( Wichterich 2000: 153-154, 159-160; Porter and Judd 1999:
196 ); mentre altre si sono invece trasformate in gruppi di pressione
affinché i governi aderiscano alle raccomandazioni delle Nazioni
Unite o delle ONG riconosciute dall'ONU, partendo dall'assunto di
base che la strategia più efficace sia la "partecipazione".
In questo saggio si intende criticare quest'analisi, sostenendo invece
che la globalizzazione è così catastrofica soprattutto
nei confronti delle donne non tanto perché manovrata da agenzie
dominate da uomini, sordi ai bisogni delle donne, quanto piuttosto
in virtù dei traguardi che essa si prefigge di raggiungere.
Lo scopo della globalizzazione consiste infatti nel conferire al capitale
corporativo un controllo totale sul lavoro e le risorse naturali espropriando
i lavoratori di qualsivoglia mezzo di sussistenza che possa fornire
una piattaforma di resistenza a tale sfruttamento.
In quanto tale, non può realizzarsi se non attraverso un sistematico
attacco alle condizioni materiali di riproduzione e ai soggetti che
ne sono principalmente interessati: nella gran parte dei paesi, le
donne. Inoltre, le donne vengono vittimizzate in quanto colpevoli
dei due reati capitali che la globalizzazione è chiamata a
debellare. Sono loro infatti, che con le loro battaglie hanno contribuito
per prime a "valorizzare" il lavoro dei propri figli e delle
proprie comunità, lanciando una sfida alle gerarchie sessuali
su cui l'accumulazione del capitale ha prosperato, e forzando lo stato
ad espandere i propri investimenti nella riproduzione della forza-lavoro
(3).
Sono state sempre loro le principali sostenitrici di un uso non-capitalistico
delle risorse naturali (terra, acqua, foreste ) e di un'agricoltura
di sussistenza, ostacolando una totale commercializzazione della "natura"
e la distruzione delle ultime "comuni" sopravvissute (Steady
1993; Shiva 1994; Kuma 1997; Matsui 1999 ) (4) .
E' per tali motivi che la globalizzazione in tutte le sue forme- riadattamenti
strutturali, liberalizzazione del mercato, guerra fredda - è
nella sua intima essenza una guerra contro le donne, particolarmente
accanita contro quelle del Terzo Mondo; una guerra che mina l'esistenza
e l'autonomia delle donne proletarie di tutte le regioni della terra,
incluse sia quelle dei paesi ex-socialisti, che di quelli a "capitalismo
avanzato".
Ne consegue che qualunque miglioramento della posizione sociale della
donna debba precedere la lotta contro la globalizzazione e la delegittimazione
delle agenzie e dei programmi che sostengono un'espansione globale
del capitale ( a partire dal Fondo Monetario Internazionale ( FMI)
della Banca Mondiale ( BM ) e dell'Organizzazione del Mercato Mondiale
( OMM ) ).
In contrasto, ogni tentativo di potenziamento della condizione della
donna attraverso riforme o "sessualizzazione" delle agenzie
internazionali non è soltanto destinato al fallimento, quanto
ad avere un effetto mistificatore, permettendo a tali agenzie di cooptare
alle battaglie che le donne stanno conducendo contro il programma
neo-liberale, per la costituzione di un'alternativa non-capitalista
(5).
Globalizzazione: un attacco alla riproduzione.
Per comprendere il perché la globalizzazione vada intesa come
guerra alle donne è necessario innanzitutto interpretare "politicamente"
tale processo in qualità di strumento utilizzato per sconfiggere
la resistenza dei lavoratori attraverso l'espansione globale del mercato
del lavoro. In altre parole, si deve guardare alla globalizzazione
non in quanto processo autonomo, ma piuttosto come risposta al ciclo
di lotte che, a partire dal movimento anti-colonialista, per continuare
poi con il Black Power e il Movimento Femminista, ha sfidato tra gli
anni '60 e '70 la divisione internazionale e sessuale del lavoro,
conducendo non soltanto ad una crisi storica dei profitti, ma ad una
vera e propria rivoluzione sociale.
Le battaglie delle donne - contro la dipendenza dagli uomini, per
il riconoscimento del lavoro domestico come lavoro vero e proprio,
per l'espansione dei propri mezzi di sussistenza, contro le gerarchie
razziali e sessuali - hanno rappresentato un aspetto cruciale della
crisi - ragione per la quale la donna è stata uno speciale
bersaglio della ricostruzione economica globale.
Non è un caso, infatti, se tutti i programmi associati alla
globalizzazione ( adattamenti strutturali, liberalizzazione del mercato,
distruzione degli assetti economici e delle risorse naturali ) hanno
riportato effetti particolarmente negativi proprio sulle donne. I
Programmi di Adattamento Strutturale (PAS), ad esempio, sebbene promossi
come mezzi di ripresa economica, sono stati per queste estremamente
deleteri, in quanto non c'è quasi nessuna clausola dei PAS
che non abbia leso la vita delle donne, e non le abbia inabilitate
a riprodurre sé stesse e le proprie famiglie. Uno dei principali
obiettivi dei PAS consiste nella "razionalizzazione" dell'agricoltura,
ad esempio con la sua commercializzazione e riorganizzazione sulle
basi dell'esportazione (Caffentzis 1995). Ciò si traduce in
un' ulteriore conversione di terra coltivabile in lotti in vendita,
e lo sradicamento delle donne che nel mondo sono le principali coltivatrici
dirette ai fini della mera sussistenza.
Anche qui le donne hanno pagato il prezzo più caro, non solo
perché tristemente note come le prime ad essere licenziate,
ma anche perché un limitato accesso alle cure mediche e all'educazione
dei figli può significare per loro la differenza che intercorre
tra la vita dalla morte ( Thurshen 1991; Iyun 1995 ). Anche la costituzione
della cosiddetta linea d'assemblea globale, la quale si alimenta del
lavoro di giovani donne assunte da compagni fuggiaschi in cerca di
facili guadagni, s'inserisce di fatto in questa guerra alle donne
e alla riproduzione. Ciò non vuole necessariamente significare
che il lavoro industriale per il mercato globale non può rappresentare
un'opportunità per una maggiore autonomia, come suggeriscono
infatti alcune scrittrici femministe ( Susan, Joekes 1995). Ma non
andrebbe neppure dimenticato che quando questo è vero, considerati
gli estenuanti orari e le condizioni coercitive, se non pericolose,
del lavoro, si tratta molto spesso di un'autonomia acquistata al caro
prezzo di condizioni di salute precarie, e di una definitiva distruzione
delle possibilità per una donna di avere una famiglia. Quindi,
l'idea che lavorare nei Porti Franchi o nelle maquilas possa costituire
una soluzione temporanea soddisfacente per giovani donne prima del
matrimonio si tramuta spesso in una crudele illusione, in quanto non
solo la maggior parte di esse trascorrerà il resto dei propri
giorni relegate in vere fabbriche-prigioni, ma anche quelle che rinunceranno,
scopriranno presto che i loro corpi avranno già subito danni
irreparabili.Emblematico il caso delle giovani che lavoravano nell'industria
floreale in Kenya o Colombia, che dopo anni, o addirittura mesi, diventano
cieche o contraggono malattie mortali in seguito all'esposizione costante
ai suffumigi e ai pesticidi velenosi ( Wichterich 2000: 1-35 ).
L'ennesima manifestazione di questa guerra intrapresa dalle agenzie
internazionali ai danni delle donne s'incarna nel fatto che in tutto
il mondo, molte di esse sono costrette ad emigrare .
Di nuovo, ciò non implica una svalutazione dell'emigrazione
in quanto rifiuto di soccombere per la disperazione,e che riflette
sempre la determinazione a seguire il percorso del danaro che agenzie
internazionali come la Banca Mondiale stanno travasando dal Terzo
Mondo.
Sta di fatto che una vasta popolazione di donne provenienti dall'Europa
orientale, dalla Russia, dal Messico, dai Carabi, così come
dalle Filippine, può sopravvivere solo cessando si vivere con
le proprie famiglie e collaborare alla perpetuazione di queste ultime,
per andare invece a riprodursi in altri paesi, spesso in condizioni
di illegalità ed estrema vulnerabilità all'abuso.
Tuttavia gli esempi forse più rappresentativi in assoluto dell'attuale
guerra alle donne sono lo sviluppo dell'industria del turismo sessuale
( Asia watch 1993; Gabriela 1997 ) e del mercato internazionale dei
neonati ( Federici 1999).
Testimoni di una vera disintegrazione dei vincoli sociali di pari
passo alll'affermarsi della "globalizzazione", entrambi
i fenomeni dimostrano il ruolo, all'interno della contemporanea economia
globale, assegnato alla capacità delle donne di procurarsi
da vivere, e alle future generazioni: categorie entrambe talmente
screditate da possedere come unica valenza riconosciuta quella di
beni d'esportazione (6).
Talmente cruciale è la svalutazione governativa della riproduzione
del lavoro ai fini del consolidamento del Nuovo Ordine Mondiale che
laddove debito e riadattamento non siano bastati, si è ricorsi
alla guerra come strumento per la distruzione delle varie economie
di sussistenza, soprattutto in regioni ( come l'Africa ) in cui queste
sono maggiormente radicate.
Già in altri lavori si è voluto dimostrare in che misura
le varie guerre ingaggiate negli ultimi anni sul continente africano
siano connesse con le politiche di riadattamento strutturale che hanno
acutizzato i conflitti locali e precluso ogni possibilità di
arricchimento per le élite locali al di fuori del saccheggio
puro e delle razzie ( Federici 2000).In questa occasione si vuole
enfatizzare quanta parte della guerra odierna, pur diversamente manifesta
( sia attraverso la "guerra alla droga" in America Latina,
che in pratica implica la distruzione dei raccolti dei contadini tramite
incendio doloso, sia con la "guerra a bassa intensità
e gli "interventi umanitari" ) miri alla distruzione di
ogni sistema agricolo di sussistenza e, non a caso, i suoi obiettivi
primari siano soprattutto le donne e i bambini. Altri fenomeni che
hanno preceduto il processo di globalizzazione dimostrano effetti
devastanti sulle donne e la riproduzione: tra questi la privatizzazione
di risorse di beni primari come ad esempio l'acqua ( l'ultima sortita
della Banca Mondiale è stata un'aperta dichiarazione che le
guerre del ventunesimo secolo saranno condotte proprio per l'acqua
); la distruzione di risorse ambientali ( come le foreste, ora massicciamente
convertite in legname esportato da molti paesi "riadattati"
) tradizionalmente alla base delle colture curate da donne ( Shiva
ed. 1994 ).Ciò che tutti questi esempi dimostrano è
che si è promossa una politica di svalutazione della riproduzione
della forza-lavoro globale per far sì che il posto di lavoro
venisse sempre più a somigliare a quelli che prevalevano nelle
piantagioni degli USA e delle piantagioni coloniali nei Carabi ( almeno
fino alla fine del mercato degli schiavi nel 1807), dove i lavoratori
si consumavano producendo per il mercato globale, e non per riprodurre
sé stessi.Che non si stia esagerando lo si evince dalla realtà
quotidiana di gran parte dei paesi "riadattati", caratterizzata
per l'appunto da:
*
Un'impennata nel tasso di mortalità e un crollo delle probabilità
di vita ( cinque anni dalla nascita, per i bambini africani ) (ONU
1995b:77).
* L'atomizzazione delle famiglie e delle comunità, fenomeno
che conduce inevitabilmente i bambini a vivere per strada o ad essere
costretti a lavorare come schiavi ( Schlemmer 2000 ).
* Un incremento nelle stime dei rifugiati, soprattutto donne, allontanatisi
a causa di guerre o politiche economiche ( Cohen e Deng 1998 ) (7).
* L'aumento della violenza contro le donne per mano dei loro stessi
parenti maschi, delle autorità governative e degli eserciti
armati ( Neft e Levine 1997:151-163 ).
Persino nel "Nord", la globalizzazione ha devastato l'economia
politica nella vita delle donne. L'aumento ( sempre negli Stati Uniti,
in teoria l'esempio più spettacolare e riuscito del neo-liberismo
) del numero di donne impegnate in più di un lavoro testimonia
lo smantellamento dello Stato assistenziale negli Stati Uniti - che
colpisce soprattutto le madri con figli a carico (Abramovitz 1996).
Lo testimoniano anche l'assoluto impoverimento delle famiglie portate
avanti unicamente da donne, lo scarto costantemente in aumento tra
i salari percepiti dagli uomini rispetto a quelli delle donne, e la
politica d'incarceramento di massa coerentemente annesso al ripristino
della tipologia economica della piantagione persino nel corso di una
piena industrializzazione
Le rivendicazioni delle donne e il Movimento Femminista Internazionale.
Quali le implicazioni di una tale situazione per il movimento femminista
internazionale? La risposta immediata è che le femministe dovrebbero
non solo richiedere la totale cancellazione del debito del Terzo Mondo
e l'abolizione della Banca Mondiale e del FMI, ma dovrebbero inoltre
sostenere un'ampia politica di riparazioni, restituendo alle comunità
devastate dalla "ricostruzione" le risorse di cui sono state
private. A lunga scadenza, se quanto detto finora è vero, si
potranno dunque trarre le relative conclusioni.
Tra esse, la prima sarebbe che le donne non potranno aspettarsi alcun
tipo di miglioramento, tanto meno la propria liberazione, dal capitalismo.
Questo perché le politiche delle ultime due decadi hanno senza
alcun dubbio dimostrato che il sistema capitalistico non è
affatto compatibile con la soddisfazione dei nostri bisogni. Come
si è potuto osservare, non appena i movimenti anticolonialisti,
per i diritti civili e femministi hanno forzato il sistema per delle
concessioni, quest'ultimo ha reagito con l'equivalente di una bomba
nucleare.
In secondo luogo, se non ci si può permettere il capitalismo,
e se la distruzione dei nostri bisogni base di sussistenza è
indispensabile per la sopravvivenza dell'ultimo, è proprio
questo il terreno su cui concentrare i nostri sforzi. I modelli provengono
dalle lotte che le donne hanno combattuto soprattutto nel "Sud"
dove sono le basi dei movimenti che hanno marciato lungo le strade
di Seattle, Washington, Praga e Seoul. Hanno mostrato che le donne
possono far tremare persino il più repressivo dei regimi, e
confermato tre principi che dovrebbero guidare il movimento femminista.
1.
Poiché i rapporti più saldi sono intrattenuti proprio
dalle madri con i figli,le famiglie, e le comunità, le donne
sono le principali deputate alla gestione dei rapporti sociali al
di fuori di quelli gestiti dal mercato, e a sfidare la globalizzazione
(8).
Un esempio-chiave qui sono le Madres de la Plaza de Mayo, in Argentina,
le quali, per difendere i loro bambini, hanno sfidato uno dei più
repressivi regimi dei nostri tempi, arrivando a svelare il segreto
dei piani di sterminio della junta, nonostante la mancanza d'esperienza
politica, in tempi in cui nessun altro nel paese avrebbe osato compiere
una sola mossa ( Fisher 1993: 103-115 ).
Un caso simile è rappresentato dalle donne cilene che, poco
dopo il colpo di stato militare del 1973 e l'applicazione della "terapia
d'urto" al paese ( modello per tutti i successivi PAS ) si organizzarono
per assicurare cibo alle proprie famiglie costituendo cucine sociali,
e prendendo coscienza, lungo il processo, dei loro bisogni e della
loro forza in qualità di donne ( Fisher 1993: 17-44; 177-200
). Ancora oggi, sono le donne che provvedono alle principali risorse
di resistenza all'impoverimento, non solo tramite duro lavoro e attivismo
politico, ma anche ( come già affrontato sopra ) emigrando.
Sebbene sia una risposta alle necessità economiche, e venga
tradizionalmente riconosciuta come strategia maschile, l'emigrazione
si traduce oggi per le donne in una piattaforma di lancio per le loro
rivendicazioni. A dispetto degli immensi ostacoli che sono chiamate
ad affrontare ( separazione dalle loro famiglie e parenti, adattamento
a condizioni di vita durissime, persecuzione poliziesca ) le donne
emigranti riescono con successo ad esportare non solo il loro lavoro,
quanto soprattutto la loro combattività, ed infatti in molti
paesi in Europa e negli Stati Uniti sono a capo delle battaglie in
tema di riproduzione ( dal diritto alla casa, all'istruzione, all'assistenza
sanitaria, alle colture urbane)
2.
Il potere delle donne non viene dall'alto, né dispensato dai
trattati né dalle istituzioni globali come le iniziative dell'
ONU, ma deve costituirsi dal basso, perché solo attraverso
l'autorganizzazione le donne potranno rivoluzionare le proprie vie.
In tale contesto, le femministe farebbero bene a considerare che le
iniziative promosse dalle Nazioni Unite in favore di un avanzamento
dello status delle donne hanno spesso e volentieri coinciso con i
più devastanti attacchi alla donna su scala mondiale- attacchi
la cui responsabilità va attribuita alle agenzie aderenti al
sistema delle Nazioni Unite, ovvero la Banca Mondiale, il FMI, l'OMM,
e soprattutto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
In contrapposizione con lo pseudo-femminismo dell'ONU, con il suo
retaggio di ONG,i progetti di creazione di guadagni e rapporti paternalistici
con i movimenti locali- si stagliano le organizzazioni autorganizzate
che le donne hanno recentemente formate in Africa, Asia, e America
Latina ( Jelin 1990 ) per lottare per i servizi sociali ( come strade,
scuole, cliniche ), per resistere agli attacchi governativi contro
il commercio ambulante ( Andreas 1985)- una delle principali risorse
di guadagno per le donne- e per difendersi reciprocamente dagli abusi
perpetrati dai propri mariti.
3.
Come ogni altra forma di autodeterminazione, la liberazione della
donna richiede condizioni materiali specifiche, di cui la prima è
il controllo sui mezzi basilari di riproduzione e sussistenza.
Come discutono Maria Mies e Veronica bennholdt-Thomsen in The Subsistence
Perspective (2000), tale principio non è valido soltanto per
le donne del Terzo Mondo- protagoniste incontrastate della lotta per
la riappropriazione delle terre usurpate dai grandi proprietari terrieri
(Alvarado 1987) ma anche per le donne dei paesi industrializzati.
Ne sono testimoni le lotte che le donne oggi conducono nella città
di New York per difendere dai bulldozer i giardini pubblici che loro
stesse hanno costruito - prodotti di un lavoro collettivo che ha spesso
riunito intere comunità e rivitalizzato quartieri fino ad allora
considerati alla stregua di zone disastrate ( Cozart 1999, Fergusson
1999 ). Eppure la repressione che persino progetti di questo tipo
hanno dovuto incontrare indica l'urgenza di una mobilitazione femminista
contro l'intervento armato dello stato nella vita quotidiana così
come negli affari internazionali. Ciò implica che anche le
femministe devono organizzarsi contro la brutalità delle forze
dell'ordine, l'apparato militare e, prima tra tutti, la guerra.
Il passo in assoluto più importante da compiere è opporsi
all'arruolamento delle donne negli eserciti- già avanzato negli
USA e recentemente introdotto in altri paesi dell'Unione Europea nel
nome della parità e dell'emancipazione femminile. Molto va
imparato da tale politica. L'immagine della donna in uniforme, infatti,
che conquista la parità con gli uomini grazie al diritto di
uccidere, è l'immagine di quanto la globalizzazione può
offrirci, ovvero il diritto di sopravvivere alle spese di altre donne
e dei loro bambini, i cui paesi e le cui risorse il capitale corporativo
ha bisogno di sfruttare.
NOTE:
(1) Nell'Africa sud-sahariana, tra il 1980 e il 1985, la disoccupazione
femminile cresceva del 10% ogni anno; in altri paesi il tasso di disoccupazione
per le giovani donne al di sotto dei 20 anni si aggirava intorno al
44%, mentre era del 22% per gli uomini ( Jackson 1992: 38). In Nigeria,
75.000 donne muoiono ogni anno per cause collegate alla gravidanza
(ibidem 139 )- una donna ogni sette minuti. In tutte le aree "in
via di sviluppo" tra il 1983 e il 1988-prima fase della ricostruzione
strutturale- le morti puerperali sono lievitate dalle 500.000 alle
509.000 all'anno (Nazioni Unite 1995b: 77 ).
(2) Ci si riferisce alle attività sponsorizzate dall'ONU in
favore dell'emancipazione femminile, incluse le cinque Conferenze
Globali sulla Donna, e la Decade della Donna ( 1976-1985 ). Consultare
i seguenti testi: Nazioni Unite (1995° ); Nazioni Unite ( 1995
e 1996 ); e Meyer e Prugl (1999).
(3) Si vedano, ad esempio, le rivendicazioni delle madri per lo Stato
sociale negli USA negli anni '60, che hanno rappresentato il primo
terreno di negoziati tra le donne e lo stato sul piano della riproduzione.
Con tali battaglie le donne del Soccorso alle Famiglie con Bambini
a Carico furono capaci di tramutare lo stato sociale nei primi "salari
per il lavoro domestico". Si veda l'Organizzazione della Contea
del Milwaukee per i diritti dello stato sociale ( 1972 ).
(4) Per le rivendicazioni delle donne contro la deforestazione e la
commercializzazione della natura, si vedano ( tra gli altri ) Kumar
( 1993: 183-186 ); Shiva ed. ( 1994 ); Matsui ( 1999:pp. 87-90 ).
(5) Per un resoconto sulle modalità in cui la Banca Mondiale
ha accresciuto la propria "attenzione al genere" come risultante
delle polemiche sollevate delle ONG si veda Murphy ( 1995 ).
(6 ) Il traffico di donne è portato avanti con la complicità,
se non l'istigazione, della Banca Mondiale che preme sulle cosiddette
"nazioni debitrici" a pagare il proprio debito ad ogni costo.
Paesi come la Tailandia e le Filippine hanno appunto risposto a tale
appello promovendo il turismo del sesso e, secondo le nostre conoscenze,
la Banca Nazionale non ha mai protestato ( Mies 1986: 140-141; Gabriela
1996; Walden Bello e altri 1998 ).
( 7) Le persone internamente emigrate tra il 1985 e il 1996 sono raddoppiate,
passando infatti dai 10 ai 20 milioni ( Cohen e Deng 1998: 32 ); per
questa problematica si veda inoltre Macrae e Zwi (1994 ).
( 8) Secondo le nostre conoscenze non è ancora stato fatto
uno studio che misuri il differenziale tra uomo e donna in rapporto
alle cure familiari. Ciò di cui si è al momento in possesso
è un'estesa letteratura esperienziale per ogni paese che testimonia
il fatto che sono le donne che si occupano dei bambini e gli anziani,
persino nei casi dell'impoverimento più brutale, laddove i
partner maschili sembrerebbero più propensi a disertare le
famiglie, bersi tutti i salari, persino di fronte ai bisogni pù
impellenti, e, in cima a tutto ciò, a scaricare le proprie
frustrazioni sulle loro compagne con l'abuso fisico. Un fatto interessante
documentato dall'ONU è che in molti paesi, inclusi Kenya, Ghana,
Filippine, Brasile e Guatemala, sebbene i salari delle donne siano
decisamente più bassi di quelli degli uomini, nelle famiglie
a conduzione prevalentemente matriarcale i casi di malnutrizione infantile
sono decisamente più esigui ( ONU 1995b: 129 ).
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