Il femminismo a Milano Anni ‘70

di Lea Melandri

 

Prima puntata

La stazione di Milano occupa un posto del tutto particolare nei sentimenti che mi legano alla città. Sono arrivata qui nel novembre 1966, abbandonando all’improvviso due famiglie  -quella d’origine e quella in cui ero entrata da pochi mesi per un matrimonio infelice-, e il liceo scientifico dove avevo appena preso servizio come insegnante di ruolo. Avevo 25 anni, venivo da un paese di provincia, in Romagna, cresciuta in una famiglia molto povera di contadini mezzadri –tre nuclei famigliari in una cascina di poche stanze-, ma figlia unica che aveva avuto il privilegio di studiare.
La fuga, benché meditata a lungo, è avvenuta con uno strappo improvviso quando mi è sembrato che la mia vita fosse ormai definita una volta per sempre: la laurea, il matrimonio, un lavoro sicuro. Un orizzonte di sogni, attese , che si eclissava.
Il treno per Milano significava la libertà, l’uscita dal tempo sempre uguale della campagna, la possibilità di una nuova nascita. Ho scoperto più tardi che a fare quel passaggio, alla fine degli anni ’60, erano stati molti giovani, maschi e femmine.
“La città rende liberi” è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Quando torno, dopo un viaggio, è sempre come se mi lasciassi alle spalle una stazione di provincia.

Il primo anno non è stato facile: senza lavoro, senza fissa dimora, ho dormito qualche volta qui in stazione, sulle panchine, ospite di una coppia di compaesani, in pensioni di basso costo. Ma, insieme a paure e angosce, c’era l’euforia di un nuovo inizio e la sicurezza che in una città così grande nessuno avrebbe potuto trovarmi e riportarmi a casa. Ho amato Milano per le sue strade, i suoi tram, i suoi bar, le sue cabine telefoniche, i suoi parchi. L’anonimato mi faceva, paradossalmente, sentire protetta.
La svolta che avrebbe cambiato profondamente e durevolmente la mia vita è venuta poco dopo, verso la fine del ’68, quando ho ottenuto il trasferimento nella scuola media di Melegnano e ho cominciato ad accostarmi con interesse alle assemblee del movimento non autoritario degli insegnanti. La politica passava finalmente vicina alle mie esigenze più intime: i vissuti più significativi e dolorosi, legati alla condizione sociale, all’essere femmina, alla sessualità, agli affetti famigliari, rimasti il “fuori tema” per tutto il mio percorso scolastico, diventavano il tema. La scelta della provincia e della scuola primaria non furono casuali: avrei incontrato alunni che venivano per lo più dalla campagna, bocciati più volte da una scuola diventata di massa e fortemente selettiva, potevo, rifiutando mezzi repressivi e coercitivi –come il voto, le bocciature, le note disciplinari- aiutarli a prendere parola, vincere la passività, la paura, la resa al più forte. Non si trattava di escogitare nuove pedagogie, ma di stabilire rapporti capaci di liberare energie, creatività, pensiero critico, di garantire la partecipazione ugualitaria alle decisioni che si prendevano nella scuola, quanto a contenuti, ruoli, tempi.

Piazza Missori. La prima manifestazione a cui ho partecipato è stata qui. Ero arrivata in anticipo e non avendo visto quasi nessuno ho chiesto a un poliziotto se aveva visto degli insegnati. In quel preciso momento si è avvicinato qualcuno che mi ha messo un cartello al collo. Il giorno dopo la mia foto era sulla prima pagina dell’ “Unità”: io con l’aria un po’spaesata, un cappottino da provincia e il cartello con la scritta “Studenti e insegnanti uniti nella lotta”. A distanza, mi verrebbe da dire, un segno del destino: cominciava lì un impegno, una passione culturale e politica che non mi avrebbe più abbandonato. Come me, furono molti, donne e uomini di quella generazione a uscire dalla dimensione ‘privata’, grazie a una politica che usciva dalla sua separatezza per andare –si disse allora- “alle radici dell’umano”, e le radici sono appunto l’infanzia, la prima formazione degli individui.
Nella primavera del ’70 ho conosciuto lo psicanalista Elvio Fachinelli, di cui avevo letto le interessanti analisi sul ’68, sulla dissidenza giovanile, sulla necessità di portare l’interrogazione analitica fuori dal rapporto duale, nei luoghi dove stavano avvenendo grandi cambiamenti sociali: Il desiderio dissidente (febbraio ‘68), Gruppo chiuso o gruppo aperto?(novembre ’68). Fachinelli aveva appena dato vita, insieme ai promotori di un contro corso di pedagogia all’Università statale di Milano, a un “asilo autogestito” in corso di Porta Ticinese, n.86 e stava preparando, con insegnanti, studenti, psicologi, operatori sociali un convegno sulla pratica non autoritaria nella scuola. Le riunioni si tenevano nel suo studio, in via Ansperto 9. Fu lì che incontrai per la prima volta Luisa Muraro, che condividerà poi con me l’avventura del femminismo. Dietro invito di Fachinelli, preparai una relazione sull’esperienza fatta nella scuola media di Melegnano, e fu quello il mio primo scritto pubblico. Il “partire da sé”, la possibilità di dare voce alla soggettività, alla storia personale, a tutto ciò che è stato considerato “non politico”, cominciò lì. Il movimento delle donne lo avrebbe solo approfondito riportandolo all’appartenenza a un sesso a all’altro.


Il convegno si tenne all’Umanitaria nel giugno 1970 e poi in settembre dello stesso anno. Le relazioni, più altri scritti di studenti e insegnanti, furono raccolte nel libro L’erba voglio, pubblicato da Einaudi nel ’71. A seguito del grande successo –cinque edizioni in pochi mesi, tremila cartoline che ci chiedevano collegamenti- decidemmo di creare una rivista omonima, con l’idea di estendere la pratica non autoritaria ad altre aree sociali. Ne usciranno 28 numeri, dal ’71 al ’77, e, a seguire, una collana di libri, edizioni Erba Voglio. La sede, e il luogo dove materialmente la rivista veniva fatta, era il mio piccolo appartamento in via Eustachi 35, mentre le riunioni si tennero per molto tempo al Bar Magenta. Tra i collaboratori, per la parte grafica, ci furono Tullio Pericoli, Alfredo Chiappori, Albe Steiner.
L’ambizione della rivista era di raccogliere materiali da singoli e gruppi esistenti in varie città, “tenere voci diverse in un insieme comune”, attenersi alla logica del desiderio e dell’accomunamento. Si può dire che la rivista L’Erba voglio, di cui sono stata redattrice fino al 1976, e il movimento delle donne che ho incontrato sempre nel ’71, hanno rappresentato un prolungamento del ’68, dei suoi temi, delle sue radicali pratiche politiche. Purtroppo, di quel decennio, si ricordano quasi solo la guerriglia urbana, il terrorismo, il riflusso prodotto dalla lotta armata.
Corso di Porta Ticinese 86.  L’idea di fondare un asilo autogestito nasce dal contro corso di Pedagogia all’Università Statale di Milano nell’inverno ’68-’69, a cui era stato invitato Elvio Fachinelli. Avrebbe dovuto essere una “istituzione modello per l’educazione collettiva”, capace di tener conto dei rapporti col corpo, con la dimensione biologica degli individui. Dietro c’era la convinzione che l’autoritarismo comincia dall’infanzia attraverso la famiglia, e che se non si vuole far crescere individui passivi, adattati, sfiduciati o violenti era necessario abituare i bambini a un’autoregolazione più naturale, non coercitiva.
“A partire dalla famiglia  aveva scritto Elvio Fachinelli- ma anche negli asili nido e nelle scuole materne, chi comanda usa tutti i sistemi per plasmare individui timorati e ossequienti, rispettosi dell’autorità e dell’ordine costituito, in modo che accettino il destino che è stato loro preparato: lavoro e famiglia, evasioni comandate e il voto ogni cinque anni”. Nel momento in cui si elimina la figura dell’adulto, investita di autorità e potere, “si vede sorgere una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza; sembra di trovarsi in una società tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte protegge quelli della sua famiglia. E concludeva: “Qui la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio è una politica radicale, nel senso marxiano di prendere l’uomo alla radice”, fin dall’infanzia.
La scelta del luogo è in parte casuale. Del gruppo promotore facevano parte genitori che abitavano nel quartiere e la sede – in corso di Porta Ticinese 86-, un appartamento al secondo piano di due stanze più cucina, bagno e terrazzo, viene messa a disposizione da una conoscente che vi sarebbe entrata solo in primavera. L’asilo si apre il 12 gennaio 1970, dopo molte riunioni e volantinaggi casa per casa, con l’invito a partecipare attivamente all’iniziativa. Il gruppo che si era occupato dei problemi organizzativi è aperto, sceglie l’autotassazione e l’impegno di cucinare e pulire a turno. I bambini non dovevano essere più di quindici, scelti per metà nel quartiere tra quelli, figli per lo più di immigrati che non avevano trovato posto negli asili comunali, e metà di estrazione borghese. Non si voleva che fosse di tipo elitario, ma una struttura del quartiere, allora sostanzialmente popolare.
Hanno partecipato in tutto 18 bambini, con due assistenti, Nando Ballot, maestro elementare e studente di filosofia, e Clementina Pavone, studentessa di filosofia.
All’inizio, porsi in una situazione non autoritaria viene intesa in modo rigidamente ideologico  -non punire, non intervenire quando i bambini si sporcano, distruggono il materiale che viene loro dato-, una libertà che da alcuni genitori viene interpretata come debolezza. Anche il vicinato comincia a dare segni di insofferenza per la presenza rumorosa dei bambini, tanto da far interviene il comando dei vigili, che farà una contravvenzione per mancato rispetto delle norme comunali per gli asili.

Alle discussioni animatissime degli adulti che seguono l’esperienza partecipano anche maestre degli asili comunali, che cercheranno di avviare un’esperienza analoga nei loro luoghi di lavoro. Dopo la prima fase sperimentale astensionista, e con l’arrivo di una scultrice, Mara Manfredi, si arriva a capire che il giusto rapporto tra il bambino e l’adulto comporta che un “uso reciproco in vista di un reciproco imparare, divertirsi e modificarsi insieme”. E’ come se tutti, in quell’esperienza, fossimo diventati un po’maestri d’asilo.

 

17-11-2015

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