Femminilizzazione dello spazio pubblico?

 Maria Grazia Campari

 

 


Sembra opportuno, in primo luogo, indagare come si presenti oggi lo spazio pubblico.
Opinionisti democratici lamentano la menzogna che ci governa, evitano, però, di considerare la prima delle menzogne: l’esclusione delle donne da quello spazio che molte vorrebbero praticare. Non tanto perché animate dal desiderio di spartire il potere sull’esistente, ma perché desiderose di raddoppiare e modificare le modalità del potere di fare, allo scopo di dotare questa democrazia di una capacità politica che si basi su una eterogeneità feconda  e renda parlante la differenza, dando un assetto stabile materiale e simbolico alla libertà critica che proviene dalla esperienza esistenziale e dalla elaborazione culturale femminile.
Una politica maschile autoreferenziale occupa, invece, lo spazio pubblico e offusca la verità delle loro ragioni, impedisce, quindi, il venire alla luce della verità tout court, il valore è indivisibile.
Nel corpo politico democratico si mostrano segni di grave sofferenza, si svilisce e opprime il corpo/mente delle donne, che subisce violenza anche nella sfera istituzionale, dall’interno stesso del governo che esibisce l’ingiustizia a livello nazionale e internazionale.
Come già avevamo rilevato nello scorso seminario, permane la carenza di cittadinanza politica piena per le donne, perdura la loro irrilevanza che rende incompiuta anche la cittadinanza sociale e civile, ciò che determina le imperfezioni gravi della nostra democrazia.
Una carenza di presenza pubblica che, a mio parere, riverbera effetti costrittivi sul pensiero femminile, costituisce motivo di insignificanza della pratica e della cultura femminista, in una situazione che, al contrario, potrebbe ricavare vantaggi considerevoli dalla sua valorizzazione.
La situazione in passato definita di stallo, appare oggi avviata verso il precipizio.      
La pratica politica autonoma delle donne dovrebbe ora farsi carico non solo di un doppio, ma di un triplo movimento. Vediamo come
Il primo movimento individuato è quello che consiste nella creazione di associazioni tematiche di base, comitati aggregati su obiettivi partecipativi di scopo ove le donne possono far giocare, come si è visto in molti casi, una capacità relazionale di ascolto e di interlocuzione capace di riarticolare in modo più ampio e paritario gli interessi e i desideri che si introducono nella sfera pubblica. Con la notazione essenziale che occorre operare con una modalità che intreccia una presenza nelle associazioni miste con una pratica politica nei luoghi del confronto e del pensare in presenza fra donne. Un metodo originale e proficuo del femminismo.
Il secondo contemporaneo movimento era stato indicato nella elaborazione di una cultura e nella presa in carico di una responsabilità rispetto alle istituzioni della polis.
Il richiamo è alla necessaria modificazione dell’ordine giuridico, alla pretesa di porre fine alla eteronomia per le donne, cioè alla pretesa di autodeterminarsi (autonormarsi), produrre regole capaci di dare qualità alla nostra esistenza.
Anche qui il concetto è indivisibile: ci si riferisce ad un tratto essenziale della libertà che deve essere patrimonio di tutti gli esseri umani comunque sessuati, o non sarà per nessuno.
L’ordine giuridico si può aprire a varchi, aprirsi a regole nuove che registrino valori creati nelle relazioni fra donne riconosciute come dotate di rilevanza sociale, mutare attraverso il riconoscimento e la mediazione fra principi differenti che originano da esseri umani diversamente sessuati che interrogano consapevolmente i propri desideri.
Su questo crinale ritengo dovrebbero essere condotti il pensiero e la pratica politica elaborati  nei luoghi separati del femminismo.
Non gettare alle ortiche quel tanto di democrazia che ancora possediamo, ma assumerla criticamente e confliggere per la modificazione.
Avevo suggerito di seguire l’indicazione di alcune femministe francesi e di varare una campagna per l’emanazione di regolamenti europei che imponessero agli Stati membri l’armonizzazione verso l’alto delle leggi che incidono sulle esistenze femminili, prioritariamente quelle che riconoscono e danno dignità giuridica all’autodeterminazione, l’habeas corpus delle donne.  
Una proposta di stretta attualità in un paese in cui, come dicevamo in un appello del giugno 2009, una spirale negativa è innescata dai comportamenti del ceto politico al potere: dai gesti quotidiani di disvalore verso il genere femminile, ad un attacco di stampo maschilista contro la stessa integrità delle istituzioni democratiche; da una democrazia incompiuta alla cancellazione stessa della democrazia.
Notavamo allora che gli “svaghi privati” in luogo destinato a fini pubblici del potente di turno avevano prodotto l’attribuzione di cariche ministeriali e parlamentari (italiane ed europee), elargite come riconoscimento al fascino fisico delle candidate. Ciò che comportava la messa in atto di una deriva autoritaria tipica di una società incardinata sulla esclusione svalorizzante delle donne e sulla disuguaglianza (di sesso, di razza, di classe).
Proponevamo di dare avvio ad un movimento capace di elaborare in forma partecipata azioni incisive per la civile convivenza fra diversi nel rispetto dei principi democratici.
Mi sembra di dover constatare che il secondo movimento proposto risulta ad oggi incompiuto, forse neppure iniziato, ciò che, a mio parere, ci avvicina al precipizio di cui dicevo.
E’ questo, a mio parere, un atteggiamento specifico della quasi totalità del movimento femminista italiano che ha manifestato per decenni una lontananza piuttosto sprezzante rispetto ai temi delle istituzioni democratiche e in particolare dell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che, sempre a mio parere, le donne italiane sono destinatarie della legislazione più arretrata, quanto ai diritti civili, del nucleo di Stati costituenti dell’Unione europea. Saremmo, quindi, in linea teorica le più interessate ad una clausola progressista imposta per via di regolamento europeo, ma, anche a questo proposito, ogni proposta viene lasciata cadere nel vuoto, con quali magnifiche sorti progressive ognuna può vedere sol che voglia sollevare lo sguardo dal teleschermo televisivo e rivolgerlo al mondo reale, prendendo nozione della realtà, anzicchè imbambolarsi avvinta dalla narrativa di un improbabile mondo dei sogni.
Questo atteggiamento non era e non è un esito obbligato per conservare l’autenticità del movimento, in Spagna e in Francia gran parte (per non dire la maggioranza) del movimento femminista ha assunto la responsabilità di una partecipazione conflittuale alle istituzioni della democrazia, comprendendo, come scrive Antoinette Fouque, fondatrice del movimento di Liberazione delle Donne nel 1968, nel recente libro “Génération MLF” che “La menzogna creazionista smentita da Darwin e da altri scienziati fa il paio con la menzogna della costola di Adamo. Ciò non impedisce che la menzogna determini situazioni derivate dall’uomo per la donna nell’accesso alla civitas.”
Pertanto, “Non è la fraternita degli uomini senza le donne che potrà risolvere il conflitto fra libertà ed eguaglianza, ma un’etica dei due sessi”.
“La scelta di un parternariato con la sinistra per la maggioranza delle donne del movimento (Alléance des femmes pour la démocratie”) ha significato battersi con lucidità per ottenere per legge la cittadinanza economica, sociale, civile. Solo la parità a livello politico può garantire il perfezionamento della cittadinanza acquisita in altri campi”
Concetti sui quali varrebbe la pena di soffermarsi a meditare dopo un sommario esame della legislazione francese nell’ultimo decennio: la mobilitazione femminile ha determinato una  modifica della Costituzione nel senso di favorire mediante azioni positive,  la partecipazione paritaria di donne e uomini alle funzioni elettive, imponendo a partiti e gruppi politici di contribuire alla piena effettività del principio mediante presentazione di liste paritarie alle elezioni comunali, regionali, nazionali ed europee, prevedendo multe elevate nei casi di violazione dell’obbligo. Nello stesso periodo sono stati adottati i PACS, riconoscimento dei diritti civili a tutte le coppie comunque sessuate. Ovviamente, in Francia l’autodeterminazione è garantita per l’inizio e il fine vita.
Un pendolo della rappresentanza fra donne consapevoli, collocate dentro e fuori le istituzioni rappresentative che non  permette violenze sottaciute alla libertà e alla dignità femminile.
L’argomento in discussione viene attualizzato anche per noi dalla recente edizione di uno scritto prodotto dalla Libreria delle Donne di Milano denominato “Sottosopra un manifesto del lavoro delle donne” che esordisce con un indirizzo alle lettrici esprimendo la seguente convinzione: “oggi non trovi una sola donna che si senta categoria debole....nell’eterno gioco di rincorsa alla parità” e prosegue affermando: “….voglio dire la mia sul lavoro, sull’ambiente, sull’economia, sul futuro. Sulla politica meno: è già stato detto molto e non vedo molta disponibilità ad ascoltare. Anzi a me la politica par di farla solo quando riusciamo a dar parole pubbliche ai nostri punti di vista
L’affermazione è troppo generale per essere condivisibile: è apprezzabile un invito a non ripiegarsi sull’autocommiserazione, lamentando una debolezza che deriva dalla appartenenza ad una “categoria sociale” svantaggiata, purchè, però, ci si intenda chiaramente sulle modalità (anche conflittuali) mediante le quali porre riparo collettivamente a situazioni economiche spesso assai deteriori che, in misura variabile, riguardano ancora oggi le lavoratrici dell’Europa mediterranea (dati Eurostat).
Una via è quella, indicata, di farsi carico di molte problematiche interconnesse, prendendo parola pubblica su tutti i temi evidenziati. Ma anche qui, non è comprensibile la contrapposizione proposta fra il desiderio di occuparsi con parola pubblica di argomenti socialmente rilevanti,  quali ambiente, economia, lavoro e, d’altra parte, la contrarietà ad occuparsi di “politica”: lo spazio pubblico è, in democrazia, lo spazio della parola  che mette in comunicazione gli esseri umani rendendoli protagonisti di una cittadinanza partecipata; è un confronto incessante e uno scambio attraverso parole (anche conflittuali) che  registrano una comune responsabilità nella sfera pubblica. Questa è politica.
Forse con l’espressione “politica” lo scritto intende riferirsi allo stato attuale della cosa pubblica cui è possibile accedere solo grazie al benvolere di oligarchi, professionisti della occupazione di tutte le strutture, anche istituzionali, o attraverso aperte cooptazioni o attraverso fittizie competizioni elettorali.
Occorre, allora, esplicitare il concetto e agganciarlo ad una critica della situazione presente perché, in caso contrario, si rischia di offuscare la possibilità di qualsiasi azione per il cambiamento.
Ecco il terzo movimento che deve oggi essere previsto in aggiunta ai precedenti due: esso consiste nella presa in carico di una indagine conoscitiva e di proposte di merito sulle politiche del lavoro e sul reddito sociale minimo in particolare per le donne, che scontano uno svantaggio di sesso sul piano economico.
Il lavoro si presenta come un agente importante di partecipazione allo spazio pubblico, purchè non passi attraverso l’estensione della cura famigliare e la soggezione alle variabili esigenze altrui tipiche del lavoro informale. Nel lavoro formale per il mercato un simile atteggiamento ha il senso di soggezione al variabile comando di impresa, una modalità per cui desideri e autonomia si annullano completamente.
Altro dato negativo risiede nella enfatizzazione della capacità relazionale femminile come leva per una contrattazione individuale che può ben essere controproducente per chi la conduce, oltre che depotenziante e regressiva per la collettività dei soggetti cointeressati presenti o potenziali.
Nel manifesto è giustamente ribadita la critica delle economiste femministe le quali da molti anni insegnano che i soggetti nei rapporti di produzione sono donne e uomini, che si verificano intrecci fra condizioni di vita e di lavoro. Qui, tuttavia, si dimenticano i conflitti che questi intrecci producono -a causa della doppia presenza femminile- nella struttura stessa  del mercato del lavoro. Anzi, si sostiene una sorta di felice innesto nell’attività lavorativa di un sapere femminile sulla quotidianità: “un lavoro imprenditivo e creativo” che “non si vede nel PIL, non si vede nella busta paga, non si vede negli indicatori di benessere delle nazioni e degli individui”
L’assenza di compenso per questi apporti innovativi e preziosi, lungi dal determinare conflitto aperto, viene constatata pacificamente; si sottolinea, anzi, che esiste una “parola magica per rimuovere il conflitto: conciliazione tra i due lavori (produttivo eriproduttivo) per entrambi i sessi”.
Nel mondo reale ciò non si verifica, si ammette,  ma, in ogni caso, le donne decidono: “Scegliamo tutto. Il piacere di stare con i figli e di lavorare bene. Il doppio sì”
Questo è, a mio parere, il fulcro di tutta l’argomentazione, già ampiamente sviluppata nel Quaderno omonimo di Via Dogana.
Si tratta del  part time conciliativo che consente alle donne la doppia scelta del lavoro e della maternità, concetto in cui è inserito, sottaciuto, tutto il lavoro riproduttivo domestico e di cura famigliare, quale appendice normale; situazione che, inoltre, enfatizza le funzioni femminili, prolungandone l’efficacia (gratuita) anche nella prestazione lavorativa: si tratta di capacità relazionale/gestionale non prevista nell’entità della retribuzione.
Nel vantato favore femminile per questo tipo di contratto risulta completamente offuscato qualsiasi criterio materialistico di lettura della realtà: da quale posizione sociale e da quale reddito si parla, con quali ipotizzabili conseguenze sul benessere ovvero sulla povertà femminile e minorile nei casi di rottura della compagine famigliare (separazioni e divorzi), con quali riflessi sull’entità delle pensioni.
Anche l’elogio del lavoro di cura, quale modalità per un ampliamento delle conoscenze, dei punti di vista e delle capacità gestionali femminili, allude ad un concetto ambiguo, vero e contemporaneamente forzato in una limitazione dello sguardo sul mondo.
Non è dubbio, infatti, che l’ampliamento di conoscenze oltre che nel lavoro riproduttivo e nelle relazioni di cura possa conseguirsi attraverso il confronto fra culture (incontri, letture, formazione plurilingue, approfondimenti teorici, relazioni professionali multidisciplinari), mentre le capacità gestionali possono essere create e valorizzate anche attraverso lavori di organizzazione delle risorse condotti professionalmente e come tali retribuiti, non erogati gratuitamente.
Inoltre, l’articolazione dell’attività femminile giornaliera in molteplici campi, nel lavoro formale per il mercato e informale per la famiglia, spesso avviene a scapito delle conoscenze e degli approfondimenti culturali, anche della formazione continua, ormai richiesta per gli impieghi qualificati e ben retribuiti. La giornata essendo di ventiquattro ore per tutti.
La mia esperienza mi dice che la valorizzazione delle doti femminili come leva per una flessibilità contrattata nel mercato del lavoro, riguarda settori percentualmente molto ridotti di occupazioni specialistiche e non può certo essere utilizzata per formulare regole generali.
La scelta del doppio sì definita  come libera scelta materna, forse potrebbe essere interrogata come scelta conveniente perchè a-conflittuale, che si verifica per esigenze varie anche economiche, pur in assenza di condivisione dei compiti in famiglia. La rilevata mancanza di recriminazioni femminili intrafamigliari per scelte penalizzanti sul lavoro (blocco o regressione di carriera per cura dei figli), potrebbe trovare spiegazione nel “desiderio adattativo” (scelgo ciò che la cultura dominante mi indica come preferibile/obbligatorio), utile ad evitare il conflitto coniugale, mentre tale desiderio può regredire là dove la cultura (sindacale) autorizza il conflitto.
A mio parere, il pensiero che enfatizza la positività del doppio sì manca completamente di sottoporre ad esame il futuro di chi si carica della doppia presenza: basso reddito professionale destinato a creare nuove povertà per madri e figli minori, accorciamento della carriera lavorativa che determina pensioni insufficienti in età avanzata, segnata da bisogni superiori, in assenza di un welfare pubblico che vi provveda
La forte figura femminile ricompresa nella definizione di “donna realista ed elastica” pare alquanto fantasticata: ad uno sguardo attento appare piuttosto adattativa all’esistente e inconsapevole rispetto alla propria vita futura.
Purtroppo questa impostazione trova importanti consonanze sul piano legislativo, un piano di forte impatto simbolico e di sicuro condizionamento materiale per le vite di molte donne.
Mi riferisco al disegno di legge (DDL 784/09) presentato dal Partito Democratico nel gennaio 2009, recante “Misure per favorire l’occupazione femminile e la condivisione e conciliazione fra cura e lavoro” che non sembra destinato neppure a scalfire la situazione in atto attraverso una equa ripartizione dei compiti famigliari, poiché la conciliazione fra attività di lavoro produttivo e riproduttivo sembra ancora una volta a carico esclusivamente delle donne.
Basti dire che fra le provvidenze troviamo la concessione di una detrazione fiscale a favore delle lavoratrici madri a basso reddito di soli quattrocento euro annui per il primo figlio, la estensione del part time alle dipendenti del settore privato e l’elargizione di soli dieci giorni di assenza – retribuiti al cinquanta per cento dello stipendio- per cura dei figli neonati a favore dei padri.
Queste relazioni dispari fra i sessi, preoccupanti sul piano materiale perché determinano la precarietà economica delle donne, sul piano politico hanno precise ricadute sui diritti di cittadinanza e sulla qualità della democrazia: esse producono la estraneità delle donne dalla sfera pubblica, ciò che concorre a determinare una insufficienza degli assetti democratici.

27-10-09