Proposte  FIAT per Pomigliano: dal sogno maschile al sogno cinese? 
         
        di Maria Grazia Campari 
        
        
        
        
      In  questi giorni i lavoratori dello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco (il  maschile, riferito agli addetti, non è casuale) sono sottoposti ad una  trattativa esclusivamente fondata sulle pretese della piattaforma padronale, il  minacciato piano B: o aderire di buon grado o veder svanire la produzione verso  orizzonti polacchi cedendo il lavoro ad altra fabbrica  della medesima proprietà. 
        E’  la fine del conflitto capitale-lavoro, nota compiaciuto il ministro Tremonti;  un accordo “dove si accetta il modello più povero del mondo, quello cinese,  mentre noi vogliamo guardare ai francesi e ai tedeschi” osserva Mario  Di Costanzo, rappresentante sindacale della  FIOM-CGIL (Il Manifesto, 15.6.2010). 
        Quali  sono le pretese della società torinese verso i propri operai meridionali, nel  momento stesso in cui prospetta la chiusura di alcuni insediamenti al Sud  (Termini Imerese, per tutti) e come si è potuti giungere a forme tanto aperte  d’imposizione, fra l’altro subito accolte da tutti i sindacati metalmeccanici,  con la sola eccezione della FIOM.  
        La  FIAT esige il lavoro su tre turni per tutti gli addetti alla produzione e per i  collegati (otto ore a turno per sei giorni), con alternanza di settimane a sei  e a quattro giorni lavorativi; lo spostamento della pausa mensa a fine turno,  con possibilità di utilizzo della medesima per eventuali recuperi produttivi;  la riduzione delle pause per gli addetti alle linee da quaranta a trenta minuti  giornalieri; l’aumento annuo delle ore di lavoro straordinario da quaranta a  centoventi senza possibilità di controllo sindacale; la formazione obbligatoria  a discrezione d’impresa, con oneri a carico dei lavoratori e della collettività  (retribuita con ricorso alla sola cassa integrazione guadagni); il controllo a  distanza tramite computer dei movimenti e dei tempi utilizzati nelle attività  lavorative per giungere a una drastica riduzione dei medesimi, con l’ulteriore  possibilità di effettuare spostamenti interni degli addetti; l’annullamento  dell’indennità di malattia a carico dell’azienda quando questa riterrà, a sua  discrezione, l’assenteismo anomalo o eccessivo; la punibilità disciplinare, con  sanzioni progressive fino al licenziamento per chiunque aderisca ad iniziative  di contestazione  dell’accordo o della  sua concreta esecuzione. 
   La maggior parte delle clausole imposte viola  precetti costituzionali e legali (per tutti: lo Statuto dei Lavoratori e la  direttiva europea sull’orario). Solo per esemplificare: la tutela della salute  dei cittadini e dei lavoratori (art. 32 Cost, art. 5e 9 S.L.) compromessa  dall’intensificazione dei ritmi produttivi, dalla riduzione delle pause e dalla  decurtazione salariale in malattia; il divieto di controllo a distanza con  appositi macchinari (art. 4 S.L.); il divieto di modifica unilaterale di  mansioni e di luogo di lavoro, salvo prova della indispensabilità caso per caso  (art. 13 S.L.); il divieto di riduzione di salario a discrezione d’impresa  (art. 13 S.L.), il divieto di limitazioni al diritto di sciopero (art. 40 Cost.  e 14 S.L.) 
        Il  pensiero corre inevitabilmente ai principi fondanti della nostra civile  convivenza: l’articolo 1 della Costituzione che definisce l’Italia una  Repubblica democratica fondata sul lavoro e, a proposito dei “rapporti  economici”, l’art. 35 che dichiara: “La Repubblica tutela il lavoro, in tutte  le sue forme ed applicazioni”, l’art. 41   che precisa “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi  in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,  alla libertà, alla dignità umana.”; quest’ultimo articolo pone anche il compito  per i pubblici poteri di intervenire per indirizzarla e coordinarla a fini  sociali. 
        Regole,  forse, un tempo condivise, oggi quasi un libro dei sogni, precetti obliterati  da inadempienze pluriennali, senza necessità di ricorrere a libri bianchi sui  lavori e a modifiche costituzionali in Parlamento; una situazione in cui, da  gran tempo, la Repubblica italiana appare piuttosto fondata sul profitto di una  minoranza a scapito del benessere di una maggioranza di cittadini. 
        La  FIAT lo fa presente praticando l’obiettivo, come si sarebbe detto, alcuni anni  or sono. 
        Sono  concetti antichi: il divide et impera che propizia la pax romana si  traduce nella guerra fra poveri che elimina il conflitto contro i potenti. 
        Sono  anche, purtroppo, esperienze assai più recenti vissute proprio negli  stabilimenti meridionali della FIAT, nella stessa Pomigliano d’Arco . 
        E’  una storia di diritti negati e di legge a valenza costituzionale violata (la  legge di parità fra uomini e donne sul lavoro, espressione degli articoli 2 e 3  della Costituzione), che si è svolta in quella fabbrica, con l’avvallo delle  organizzazioni sindacali, strette in un patto leonino con l’imprenditore che  negava l’assunzione alle donne del coordinamento delle disoccupate, tutte  iscritte ai primi posti in lista al collocamento (allora pubblico e numerico)  per assumere piuttosto uomini, assunti attraverso contratti di formazione  lavoro (nominativi). Scelta quasi esclusivamente maschile confermata da un  accordo sindacale, malgrado l’ordine di assunzione delle disoccupate contenuto  in una sentenza del giudice del lavoro. 
        Per  le disoccupate napoletane un lavoro in FIAT restava un sogno solo maschile. 
        Infatti,  all’interno del conflitto di classe con il padronato, si era acceso anche un  conflitto di sesso (definito allora dal sindacato guerra fra poveri) per  l’appropriazione delle già scarse risorse. Gli uomini erano stati assunti di  preferenza e avevano prevalso nel conflitto di sesso, ma la FIAT aveva prevalso  su tutti in entrambi i conflitti, di sesso e di classe, perché era riuscita a  ottenere ciò che aveva fin dall’inizio deciso, in violazione di qualsiasi legge  e sentenza.  
        Oggi  l’attitudine, mai dismessa, anzi viepiù autorizzata, si manifesta in tutta la  sua imponenza e investe, a macchia d’olio, l’intera classe operaia meridionale  (per ora). 
        E’  un aspetto di ciò che viene definito “femminilizzazione del lavoro” nel mercato  capitalistico globale e consiste nell’estendere agli uomini le condizioni  deteriori e di precarietà della prestazione già destinate alle donne. 
        Il  mercato del lavoro si femminilizza, avido di sovrapprofitto e di un di più  qualitativo e quantitativo di cui appropriarsi a prezzi simbolici, al limite  della gratuità, come è da sempre avvenuto per i lavori femminili, poco  remunerati o gratuiti.   
        Ora  si pensa anche di togliere di mezzo l’ostacolo formale dello Statuto dei  lavoratori in favore di uno Statuto dei lavori. Livellare apertamente tutti al  livello più basso di assenza di diritti certi e giustiziabili.  
        E  ancora una volta la manovra trova estimatori in un arco apparentemente  insospettabile di forze sindacali e politiche. 
        Sembra  urgente aprire gli occhi, dirigendo lo sguardo nella direzione indicata dal  rappresentante sindacale della FIOM, verso le nazioni più civili, facendo  attenzione, però, ad attivare il doppio sguardo che permette di vedere e di  tenere in conto entrambi i conflitti, di classe e di sesso, operando le opportune  mediazioni, senza cancellazioni che dividono e indeboliscono la classe. 
        In  particolare, dando spazio all’autonomia e all’auto rappresentazione di tutti i  soggetti collegati in una relazione che li renda partecipi dei processi  decisionali, chiarendo, con la precisa individuazione di bisogni e desideri, la  parzialità del soggetto maschile fin’ora costantemente delegato e  rappresentante unico nella sfera pubblica. 
        Forse  è ancora possibile iniziare utilmente, su queste premesse, un percorso europeo,  attivando la confederazione europea dei sindacati (CES), pretendendo  l’applicazione di una clausola sociale di trattamento minimo uniformemente  garantito, a livello salariale e normativo, a tutti i dipendenti di aziende con  diverse sedi nazionali, rivendicando dai governanti l’imposizione di sanzioni  economiche pesanti alle delocalizzazioni selvagge e senza scrupoli, effettuate  in contrasto con l’utilità sociale e il benessere minimo dei ceti  economicamente svantaggiati  
    16-06-2010 
      
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