Proponiamo
la storia di una donna afgana così come è stata raccolta
da Marina Forti, inviata de il manifesto, che ringraziamo
Le
donne di Kabul
di MARINA FORTI
Da
il manifesto del 15 novembre 2001
Fakria Assad è una giornalista di Kabul tv. O meglio, lo
era: perché quando i Taleban hanno preso la capitale afghana, nel
1996, rovesciando il regime di Burhanuddin Rabbani, hanno messo fine anche
alla tv - e per quanto riguarda le donne anche a ogni spazio di vita pubblica.
Vale la pena ricordare quel momento, ora che Kabul "è caduta".
Dal '97 Fakria vive a Peshawar, come gran parte dell'intellighenzia e
della minuscola classe media afghana urbana e istruita, almeno quella
che non ha avuto la possibilità di emigrare: migliaia sono andati
in Pakistan, dopo l'avvento dei Taleban, perché le loro figlie
potessero almeno andare a scuola. La incontro in un minuscolo ufficio
dall'aspetto dimesso nella parte più affollata e polverosa di University
Town, due stanzette da cui conduce l'attività di una minuscola
associazione per i diritti umani in Afghanistan - soprattutto attività
culturali con le donne.
Siamo qui per parlare dei profughi e della guerra, ma quando nomina Kabul
tv riemerge un ricordo sepolto. Nel 1996, mesi prima che i Taleban
prendessero Kabul, era circolato un appello firmato da un gruppo di giornaliste
della radio e tv afghana. Denunciavano la progressiva chiusura degli spazi
per le donne nell'informazione. Fakria, scopro, era tra le firmatarie
di quell'appello e ora le si illumina il viso: "Te lo ricordi? C'era
un clima terribile a Kabul. il presidente Rabbani cercava compromessi
politici per rafforzare il suo governo, e noi siamo state un prezzo del
compromesso. Ricordo benissimo quando ha tirato dentro quel Abdul Rasul
Sayyaf (leader pashtun, fondatore di un partito di credo wahabita, cioè
dell'islam più conservatore diffuso in Arabia Saudita, ndr).
La prima cosa che fece, entrato nel governo, fu mandare una circolare
per dire che giornaliste e annunciatrici in video dovevano avere il viso
coperto fin sul naso, esclusi solo gli occhi, e dovevano coprire bene
i polsi. I programmi condotti da donne erano cancellati. Quattro mesi
dopo un nuovo editto: le donne dovevano lasciare radio e tv".
Ancor prima dei Taleban, dunque, le donne erano state epurate dai media
dagli stessi mujaheddin che ora sono le colonne dell'Alleanza del Nord,
sostenuta dall'occidente, e che hanno preso Kabul. Questa signora ben
pettinata e con un po' di rossetto, elegante in un abito di seta bruna,
rappresenta dunque quel 40% delle donne di Kabul che lavorava - giornaliste,
insegnanti impiegate - sia nei regimi filosovietici che nei successivi,
turbolenti regimi dei mujaheddin.
Perso
il lavoro a Kabul tv, Fakria Assad si è trasferita a Mazar-i-Sharif,
la città del nord allora controllata dal generale Dostum (anche
lui oggi è nell'Alleanza del Nord). "Un collega mi aveva offerto
di lavorare alla radio, redarre e leggere le news del mattino. Giorno
per giorno annunciavo l'avanzata dei Taleban e il conflitto tra le fazioni
che nel frattempo si contendevano la regione. La tensione era molto alta.
La radio aveva anche problemi finanziari. E poi le fazioni facevano pressioni
su di noi: ricordo che il comandante Ahmad Shah Massud un giorno fece
appello agli altri comandanti a 'rispettare i giornalisti'. Ma intanto
era un lavoro, potevo mandare i figli a scuola...".
Poi è cominciata la tragedia, dice Fakria. Era la fine del '96,
inizio del '97. I Taleban assediavano le truppe di Dostum, "combattevano
villaggio per villaggio, strada per strada, una carneficina. Ormai erano
sempre più vicino a Mazar-i-Sharif. Per la prima volta ho visto
cadaveri squartati per le strade, e uomini armati che non parlavano pashto
né dari (la variante del farsi parlata in ampie zone dell'Afghanistan,
ndr). I morti erano centinaia, da entrambe le parti. E poi c'era
il conflitto tra Dostum e Massud, che infine diede ai Taleban un'ottima
occasione per l'attacco finale.
Una mattina, andando come al solito alla radio, vidi le strade piene di
miliziani col turbante. Arrivata in ufficio alle 8, mi dissero di lasciar
perdere le notizie e scappare, i Taleban stavano entrando in città
e noi tutti eravamo in pericolo". Mazar-i-Sharif era la prima città
del nord che cadeva in mano al movimento guidato da Mullah Omar - che
del resto si presentava come la forza che pacificava il paese insanguinato
da guerre di fazione, violenze, stupri, rapimenti. "I Taleban pacificavano
il paese con due strumenti, altrettanto convincenti. Uno era l'appello
al Corano, con cui imponevano ai poveri afghani analfabeti quella che
loro consideravano la legge divina. L'altro erano i soldi: hanno letteralmente
comprato la fedeltà dei capi tribali. Ho visto decine di comandanti
mujaheddin cambiare copricapo, mettere il turbante e diventare all'improvviso
Taleb... Poi i Taleban riscuotevano: i notabili pagavano per avere un
posto di capo dell'amministrazione o comandante di polizia".
Le milizie Taleban cominciarono a "ripulire" la città.
"Una sera si presentarono a casa mia. Cercavano quella che aveva
lavorato alla tv, dissero - stavano cercando tutti, direttori e giornalisti.
Sono entrati, mi hanno schiaffeggiato, hanno spaccato tv, video, cassette.
Urlavano di seguirli dal comandante. Se ne sono andati solo quando gli
ho dato dei soldi, tutti quelli che avevo in casa, promettendo di tornare.
Quella notte siamo scappati verso Bhalk, ancora fuori dal controllo dei
Taleban. Ma avanzavano. Ci nascondemmo di nuovo in città, finché
mio fratello mi ha portato a Kabul: là seppi che mio marito era
stato arrestato a Mazar, e che io ero stata condannata a morte in contumacia
dall'Alta corte islamica istituita dai Taleban per essermi mostrata alla
tv". Fauzia è fuggita a Peshawar, dove è nata la bimba
che ora gioca ridendo col foulard della madre: "erano due gemelli,
ma sai, quella fuga è stata un po' dura. E' rimasta lei".
Non si sente tranquilla, dice, "i Taleban sono anche qui".
"Spesso mi sono chiesta perché le organizzazioni internazionali
dei giornalisti non hanno detto nulla su di noi. In fondo io sono condannata
a morte solo per aver fatto il mio lavoro...".
E questa guerra? "Non pensare che io difenda i Taleban. Ma fa impressione
vedere le nazioni occidentali campioni dei 'diritti umani' lanciare bombe
su un paese così povero e stremato come l'Afghanistan. Ora vediamo
arrivare questa povera gente, profughi, e per loro non ci sono campi né
assistenza, acqua potabile, cure, cibo". Mostra le schede di circa
200 persone, alcune con foto e firma, altre con solo l'impronta di un
pollice: "Ho visto uomini adulti piangere in silenzio quando abbiamo
detto che l'Unhcr non può registrarli". Tornare a Kabul ora?
Ride, triste: "Inshallah. Ti inviteremo alla televisione. Ma non
avverrà presto".
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