Rosi Braidotti,
Roberta Mazzanti, Serena Sapegno e Annamaria Tagliavini
Baby Boomers
Vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant'anni
Astrea/Giunti
2003, pp. 192
€ 10
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I
piccoli fogli rettangolari gialli il cui nome è Post-it, che tappezzano
le nostre case dal bagno allo specchio dell'ingresso, che hanno il
pregio di non rilasciare sulle superfici alcuna traccia di colla (da
qui, immagino, il loro immediato successo: servono ma non restano),
su cui si scrive dal numero di telefono appena catturato dalla segreteria
telefonica all'idea sulla quale vogliamo lavorare e forse scrivere
addirittura un libro e che tenta di sfuggirci, hanno prodotto una
rivoluzione nascosta e discreta che non ha niente da invidiare all'Email.
Infatti essi partecipano di quella forma di scrittura che, per una
tacita convenzione ormai in uso, non si preoccupa né dell'ortografia
o degli errori di battitura, né della punteggiatura come si addice
a una parola che non è né veramente scritta né solo parlata. Non sembri
strano che venga introdotto così Baby Boomers, libro scritto
da quattro donne femministe, emancipate, visibili. Le donne in questione,
Rosi Braidotti, Roberta Mazzanti, Serena Sapegno, Annamaria Tagliavini,
hanno deciso di celebrare in questo modo il passaggio ai cinquanta
anni. Hanno perciò «composto» le loro quattro storie personali in
forma di racconto autobiografico con un occhio alla storia individuale
e l'altro alla dimensione collettiva e femminile nella quale sono
cresciute come autrici. Poiché il sangue non è acqua, come si dice,
così la loro esperienza di femministe scorre nelle vene dei quattro
racconti impregnandone le parole, i pensieri e, soprattutto il desiderio
che le ha spinte a fare questa esperienza pur vivendo in città e addirittura
nazioni diverse: «Ci siamo incontrate più o meno ogni due mesi, per
discutere le grandi linee dei nostri racconti, poi ciascuna tornava
alla propria scrittura, singolare ma intrecciata a quella delle altre,
grazie a frequenti scambi di posta elettronica».
Naturalmente lo stile delle scritture non ha niente della provvisorietà
né del Post-it né delle Email. Eppure qualcosa di questo libro lo
accomuna alle scritture-non scritture che caratterizzano alcune forme
di comunicazione della nostra epoca che non hanno il suono della voce
ma neanche la definitività del segno.
Mi chiedo subito se questa non sia la caratteristica di quelle scritture
autobiografiche, ormai abbastanza diffuse soprattutto tra le donne,
che si radicano nell'esperienza dell'autocoscienza e ad essa restano
debitrici tanto da aspirare a somigliarle il più possibile. «Per tutte
noi la narrazione autobiografica rappresentava una sfida. L'abbiamo
intesa come un bilancio individuale e collettivo insieme, una mescolanza
felice di parole e silenzi, d'autocoscienza e scrittura solitaria».
Se ne sono lette tante negli ultimi trent'anni di scritture che venivano
dall'autocoscienza, dalla trascrizione dei nastri registrati alle
scritture anonime collettive, con tutte le declinazioni attraverso
cui è passata l'aspirazione singolare-plurale del femminismo. E forse
è proprio il bisogno, dichiarato, di non separarsi dalla parola autocoscenziale
che lascia nel lettore, e soprattutto nella lettrice di questo libro,
l'impressione che qualcosa, per alcune addirittura l'essenziale, sia
rimasto a margine, né poteva essere diversamente, di una parola che
resta o vuole restare così prossima al vissuto.
Ci vuole coraggio, tanto più oggi, a rivendicare alla scrittura il
suo versante autocoscienziale e forse ancora più coraggio ci vuole
a legarsi alla tradizione autobiografica, che, malgrado spesso lo
si ignori, è proprio con l'autocoscienza che confligge maggiormente.
Da qui il primo interrogativo che un libro come questo solleva: perché
invocare l'autocoscienza per scrivere in forma autobiografica? Non
c'è il rischio di confermare la confusione e l'illusione, che è stata
di molte femministe, secondo cui la parola dell'autocoscienza garantirebbe
alla parola femminile un radicamento nella sessualità e nella carne
che si pone fuori del territorio che ha permesso a Flaubert di scrivere
«Madame Bovary sono io» ma anche alla protagonista di Cime tempestose
di Emily Brontëdi dire «Heathcliff sono io», affermando così un'identificazione
con una persona dell'altro sesso, rappresentante paradigmatico dell'alterità
che ci abita, che rende giustizia del fantasma che anima la storia
di ognuno di noi più di qualsiasi confessione, fosse anche la più
spudorata? Qual è nel caso delle nostre autrici il dispositivo che
permette alla persona, a queste quattro persone, di autorappresentarsi
e quindi simbolizzare l'esperienza della relazione con l'altra se
stessa e con le altre ?
La scrittura, ho affermato altrove, è l'esperienza, la pratica solitaria
(lo dicono anche le autrici), attraverso cui prende forma il quid
della relazione tra donne che inevitabilmente rimane ai margini
del linguaggio costituendone l'impensato e l'irrapresentato. A dispetto
degli interrogativi che solleva dunque, la scrittura, quale che sia,
si costituisce come il vero Altro di cui essa parla e questo vale
anche per questo libro.
La risignificazione della propria storia che avviene attraverso la
parola scritta (analogamente al racconto fatto in analisi) non è una
ricostruzione, né una testimonianza, due aspetti che pure sono presenti
in alcune scritture, bensì una vera e propria nuova costruzione che
colma i vuoti di memoria attraverso un'invenzione. Insomma ogni autobiografia
è l'insieme di posticcio e autentico, di storico e immaginario. Non
c'è nessun nucleo storico raggiungibile nella propria realtà, esso
sempre deve sottostare alle leggi della posterità, la sola che permette
al linguaggio di fare il lavoro di messa in forma dell'esperienza
viva.
E così, per questo motivo autocoscienza e autobiografia non possono
coincidere, poiché la prima si radica nella pratica discorsiva della
parola viva e circolante tra donne e la seconda nel desiderio (ancorché
spesso nascosto allo scrittore stesso) di essere ascoltato senza attendere
una risposta. Perché, va detto, chi scrive di sé in forma autobiografica
deve sospendere per un po' la curiosità per la relazione e rivolgerla
tutta verso il fantasma personale che perseguita e spinge verso la
scrittura. Ancora: chi scrive la propria autobiografia fuori dello
sfondo autocoscienziale, come le autrici sembrano dire, sfida la morte
e il non senso? Forse.
Ciò che io sottolineerei invece è il tentativo di elaborazione di
un lutto sul già fatto, detto e pensato che caratterizza ogni scrittura
e in modo particolare quella autobiografica. L'aspetto luttuoso di
questo tipo di scrittura tanto non sfugge allo scrittore, che spesso
le autobiografie restano nel cassetto per anni o rimangono incompiute.
Un inganno sempre più frequente è quello che promette volumi successivi
al primo come a dire che, a dispetto della parola scritta, segno indelebile
e immutabile, la vita e con essa la trasformazione continua.
Ma è proprio il bisogno di congedarsi dai primi cinquant'anni della
propria vita che ha spinto queste amiche a scrivere i loro quattro
racconti in forma «auto». E se è così, posso chiedere perché hanno
scelto questa forma «privata», anche se rivendicano alla loro scrittura
una tensione collettiva, offrendosi al voyerismo di coloro, uomini
e donne, che si illudono di scoprire finalmente ciò che si cela dietro
la porta dell'autocoscienza?
Ogni scrittore, si dirà, si espone allo sguardo dell'altro, si rassegna
ad essere frugato, frainteso, criticato.
Diciamolo: con la generosità e dissipazione caratteristiche della
femminilità da cui stiamo cercando di congedarci, talvolta mettiamo
il nostro amore di noi stesse, quel narcisismo di vita senza cui è
escluso che si possa scrivere e tanto più scrivere di sé, al servizio
del bisogno , maschile e femminile, di «penetrare» il mistero della
femminilità e soprattutto il modo in cui essa ha attraversato il femminismo.
Un bisogno che ha molti aspetti aggressivi e che taglia corto con
il linguaggio e il modo in cui esso mette in forma l'esperienza, cercando
di andare al «sodo»: quanti uomini o donne hanno avuto, quanto hanno
odiato la madre, hanno litigato con le altre donne?
Perché, allora, non credere un po' di più nella funzione della finzione?
Nella potenza espressiva della metafora? Forse, se le amiche avessero
potuto autocoscienzialmente separarsi dalla parola viva delle donne,
dall'illusione che essa possa passare «dentro» la scrittura, forse
ci avrebbero soddisfatto di meno ma incuriosito di più.
Questo
testo è apparso su
il manifesto del 17 Maggio 2003 con il titolo
Il
racconto comune si fa in quattro
Segnaliamo
dal sito "Donnestoria" la recensione di Donatella
Massara
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