Le eterne invisibili

Geneviève Fraisse


 

Il servizio domestico, come cura tradizionale o assistenza ai più deboli, rileva dell’ironia, l’ironia di una questione sociale difficile (servire?), imbarazzante (l’uguaglianza di genere) e politicamente provocatrice. Criticarlo è arduo. Il lavoro domestico è un elemento essenziale della vita quotidiana della specie umana, e lo sfruttamento delle donne, sia domestiche salariate che casalinghe, resta invisibile per molte persone. La «questione» del lavoro domestico non consente risposte facili, la sua analisi non permette di evitare paradossi e contraddizioni.

Oggi, due scorciatoie sono all’ordine del giorno, due percorsi nei quali la questione democratica si intreccia con la vita privata: un evento – la ribellione di una dipendente di un grande albergo – da un lato (Si legga Rachel Sherman, «Grandi hotel, padroni e lacchè», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2011), l’utopia del servizio alla persona, dall’altro.

L’irruzione delle donne delle pulizie nello spazio pubblico è sempre un’immagine forte. Nelle strade di New York, nel maggio 2011, le loro manifestazioni a margine di un’audizione giudiziaria nel quadro dell’affare Strauss-Kahn venne descritta come una manovra sindacale, tanto l’immagine di queste lavoratrici, domestiche e casalinghe, è necessariamente quella di donne isolate, di una presenza frantumata negli spazi alberghieri. Esse hanno oltrepassato una barriera. Quella delle mura della vita privata e intima, di una casa privata o di un hotel. Superare la frontiera tra privato e pubblico è un atto trasgressivo. Allo spazio pubblico corrisponde una parola collettiva, uno slogan – in questo caso «Shame on you», «Vergognati», indirizzato al potente uomo sospettato di aggressione.

Spazio pubblico, parola pubblica: le domestiche, donne di servizio, non vi hanno accesso; e, tuttavia, esse affermano da più di un secolo, cioè dalla nascita del movimento sindacale, di essere «lavoratrici come le altre». Dai sindacati dei lavoratori domestici della fine del XIX secolo alla sezione «impiegati domestici» della Confederazione francese del lavoro (Cfdt) degli anni ’70, al Manifesto brasiliano dei domestici indirizzato all’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel giugno 2011, la rivendicazione politica e antropologica di questi lavoratori è di appartenere alla classe operaia e lavoratrice. Ricordiamo che gli operai dei primi anni del ’900 erano diffidenti di fronte a tale richiesta, venendo da chi viveva troppo vicino ai padroni….

Fuori dalle mura domestiche: un tempo li si vedeva all’esterno delle case, quando i servizi implicavano ruoli mondani, portieri, autisti; più raramente quando la «crisi della domesticità» sopraggiunse alla fine del XIX secolo, accentuata dalla prima guerra mondiale, e fu necessario ripiegare sulla semplice «donna di servizio», «donna tuttofare». Interessante è quindi un cortometraggio di Lépine, La greve des bonnes (1905), in cui un gruppo si organizza dallo spazio familiare verso il mercato, fino alla Borsa del lavoro e al commissariato!

Lo sciopero delle donne di servizio immaginato ieri è diventato oggi una manifestazione molto reale: un’espressione politica quasi incongrua rispetto al luogo del nostro immaginario protetto, la camera, l’appartamento, la casa privata. Si ricorderanno, a questo proposito, i recenti scioperi delle donne delle pulizie di Arcade, subappaltatrice di Accor (2002) e quello di Crowne Plaza a Parigi (2010). Tale rottura politica – la presenza nella strada, la vita sindacale, lo sciopero – evidenzia un paradosso contemporaneo.
Come pensare insieme servizio e democrazia, gerarchia domestica e uguaglianza sociale? Se i giornalisti e gli spettatori rimasero stupiti dall’immagine delle donne delle pulizie davanti a un tribunale di New York, è perché l’espressione democratica moderna si legava, davanti ai loro occhi, all’arcaismo di un servizio ancestrale, forte di una tradizione, vecchio come il mondo: il servo, la serva è un archetipo inossidabile. Al di là della dialettica hegeliana del padrone e dello schiavo, che caratterizza il rapporto e la lotta possibili, al di là del gioco dei drammaturghi del secolo dei Lumi che, da Marivaux a Beaumarchais, amavano rovesciare i ruoli tra domestici e padroni, il servitore è una categoria sociale ibrida: dentro e fuori la famiglia, familiare ed estraneo, povero che vive presso i ricchi.… Egli è inoltre situato (si veda Aristotele) con le donne e i bambini.

Da venticinque secoli, la «servetta di Tracia» non ha nome

Si sa anche che il domestico (maschio) non è cittadino sotto la rivoluzione francese. Dal momento che dipende da altri, la sua autonomia politica individuale è evidentemente problematica.

Non ci si stupirà, quindi, che una donna delle pulizie sia innanzitutto senza volto: dopo venticinque secoli, la «servetta di Tracia» di cui parlano i filosofi non ha nome. La servetta di Tracia è conosciuta per ridere quando Talete il saggio, occupato dalle stelle, cade in un pozzo. Essa non ha nome perché è interscambiabile: è una funzione sociale, una necessità domestica. E dovrebbe chiamarsi «Marie», «Marie la domestica», scrive Léon Frapié in un romanzo dell’inizio del XX secolo intitolato La Figurante (1908). Ma perché l’uomo potente, politico o intellettuale, ha un nome e un viso?

Mentre una rottura politica ci ricorda l’arcaismo della figura del servitore, si apre un dibattito sulla necessità del «servizio alla persona», della cura, del care, della sollecitudine, del legame da costruire e ricostruire tra le generazioni e tra gli individui atomizzati dalla società contemporanea. Non si tratta più, ormai, di «servire» qualcuno più privilegiato di sé, ma di «rendere un servizio» necessario ad altri. Il servizio alla persona sposta radicalmente lo sguardo su colei o colui a cui si rende tale servizio. La convenzione collettiva definisce oggi la persona posta in una situazione di servizio come «dipendente da un datore di lavoro privato». Si apprezzerà la perifrasi.

La volontà di sopprimere la parola «servizio» si iscrive in una lunga storia terminologica. Venne prima proposta l’espressione «impiegato di casa», poi «impiego familiare», per sfuggire allo stigma e per scongiurare la squalificazione della «donna delle pulizie». La sfida era, ancora una volta, di integrare la persona «a servizio» nel mondo globale del lavoro contemporaneo. Resta da distinguere utilmente, in questo contesto, la cameriera di un grande albergo dalla donna delle pulizie che lavora part time, un sottoimpiego. Resta anche da precisare che la cura di una persona anziana non è lavoro domestico, anche se le cose spesso si confondono.

Si possono ordinare per gradi i cosiddetti lavori di servizio dal più piacevole (la persona) al più spiacevole (la sporcizia), si può tenere in considerazione la necessaria solidarietà umana e l’ineluttabile oppressione sociale. Ciò non può fare sì che la sessualizzazione della storia del servizio possa essere cancellata. Si potrebbe anche sostenere che esso non è mai stato tanto femminile come oggi. Va ancora detto che il servizio domestico affonda le sue radici nel lavoro domestico «gratuito» delle donne? È necessario ricordare che alcune sono pagate per fare ciò che altre fanno gratuitamente (cura o lavoro domestico)? Come non stupirsi del fatto che tale parte della nostra vita contemporanea resti una sorta di tabù politico? «Tabù politico», dato che la contrapposizione tra gratuità e salario è inasprita dalla nostra epoca che ha fatto dell’autonomia economica dell’individuo un riferimento essenziale.

Così, paradossalmente, la femminilizzazione crescente di tale lavoro è legata alla storia del XX secolo, allo sviluppo della condizione salariale da una parte e al tentativo di professionalizzazione della padrona di casa dall’altra. Ci si dovrebbe quindi seriamente stupire di fronte al fatto che il dipendente del «datore di lavoro privato» sia presentato come una persona neutra, asessuata, quando oggi, concretamente, nel 98 % dei casi si tratta di donne.

La gerarchia tra padroni e servitori ha attraversato i regimi politici

Malgrado tutto, questa nuova prospettiva solleciterebbe a riflettere in modo diverso: i dibattiti sulla cura e sulla sollecitudine, sul care e sulla presa a carico dell’altro vulnerabile, non trasformano in profondità il ruolo, lo statuto e la funzione della persona che si mette «a servizio di»? Si sa che la gerarchia sociale, imposta dal rapporto tra padrone e servo, o padrona e serva, ha attraversato i regimi politici e, che se essa fu evidente nelle società monarchiche, non sembra esserlo meno per una società democratica interessata all’eguaglianza.

Da ciò le sfide teoriche e politiche del nostro presente: come porre in essere un’organizzazione sociale adeguata all’allungamento della vita e alla domanda accresciuta di cura dei bambini trasformando una subordinazione ancestrale in utilità sociale? O, al contrario – e i sostenitori del care ci invitano fortemente – come rinnovare lo spirito democratico pensando al servizio non come sottomissione e servitù, ma come dono e legame?

In questo caso, l’assenza di simmetria, l’impensabile uguaglianza tra chi serve e chi è servito non ha alcun senso, e non è un problema politico. D’altronde, ci viene detto, il «servizio alla persona» sottolinea che è la persona servita, e non quella che serve, la più fragile. Quindi, l’utilità sociale e la solidarietà tra individui isolati formano, insieme, l’orizzonte di un cambiamento sociale. Tuttavia, notiamo che anche chi serve è in una condizione di vulnerabilità. Il servizio alla persona è quindi una relazione tra due soggetti deboli.

La sfida politica è chiara: ricostruire il legame sociale, ridare un senso a tale legame, è pensabile a partire dal luogo stesso del lavoro primitivo, il servizio. Di conseguenza, c’è un ribaltamento completo della situazione: se il servizio ha perso nel corso dell’ultimo secolo la sua importanza, esso tornerà a essere un luogo centrale della società futura, illuminato eventualmente da una sovversione politica.

Poiché porrebbe di colpo nello spazio pubblico ciò che attiene a una necessità privata. Da questo punto di vista, vi è una possibilità di ripensare la «frontiera» tra la sfera pubblica e quella privata. A ciò va aggiunta una seconda sfida: occuparsi dell’altro in quanto vulnerabile, malato, anziano o bambino piccolo permetterebbe di attingere dal vivaio delle qualità umane conosciute, storicamente femminili, domestiche, materne, successivamente di farle circolare nello spazio pubblico, di esternalizzarle, come si dice, valorizzando all’esterno del mondo domestico doti definite e riconosciute come femminili, che possono così essere immaginate dissociandole dal sesso della persona portatrice.

Jeanne Deroin, femminista radicale della Rivoluzione del 1848, parlava già all’epoca di quella «grande casa disorganizzata dello stato» in cui contava di operare in futuro. E proponeva di utilizzare politicamente il valore domestico fuori dal focolare. L’argomento valeva come strategia militante di persuasione, e tale paradosso serve ancora oggi in molteplici spazi politici; ma se ne conosce la relatività, ovvero la pochezza storica. Inoltre, la mescolanza di questo lavoro di servizio è all’ordine del giorno soltanto nel pensiero magico di una società senza gerarchia tra i generi e senza dominazione maschile.

Attualmente, il campo di questa nozione di servizio è delineato da due poli: l’arcaico e il futuro. Da un lato, vi si legge la vecchia storia del servitore tenuto lontano dallo spazio pubblico, dal diritto di sporgere denuncia davanti alla giustizia, di manifestare la propria collera, di ridere dei potenti. Dall’altro, si può ascoltare la storia rinnovata delle inesauribili qualità del genere femminile, disponibile da tutti i punti di vista, sesso e proprietà, cura e nutrimento, con la speranza di coniugare, senza troppe spese egualitarie, vita privata e vita pubblica. Vi è una sola certezza: il servizio alla persona non è il futuro della mescolanza di genere.


da Le monde diplomatique il manifesto, 9-11

 

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