Frammentazione e pratica politica” resistente”

  Maria Grazia Campari

 

Nell’imminenza delle elezioni per il Parlamento e per il governo di alcune regioni, assistiamo alla candidatura di parecchie donne nelle liste predisposte dai vari partiti politici. Assistiamo è, secondo me, il verbo che allude al cuore del problema, come vedremo. Si profila una sperimentazione di elettorato passivo per le donne, questa volta, non solo in dosi omeopatiche, una acquisizione dovuta a pressioni femminili e, in parte, anche femministe.
Sul senso e la qualità di questa inedita possibile partecipazione alla cosa pubblica, non mancano dubbi, quesiti, perplessità. Fra i tanti, ne scelgo liberamente alcuni che mi paiono significativi.

Si obietta: non esiste una strategia del movimento su scelte politiche “amiche delle donne”. Inoltre il ruolo parlamentare ben potrebbe essere sentito da molte come frutto di abilità individuali nel tessere relazioni secondo la logica delle cordate (Noi Donne “Che genere di politiche?”).
Su questo piano fa da contrappunto il quesito su come l’eventuale sapere di questa o quella candidata possa portare “un po’ di aria nel discorso pubblico”, quale sia il desiderio che la muove e quali le strategie per acquisire forza (Libreria delle Donne di Milano, gennaio 2013).
Inoltre, si nota come quelle stanze del potere mostrino oggi la propria consunzione, e ci si chiede quale sistema di democrazia accolga oggi l’eventuale governo delle donne. Molti temi cruciali non risultano proposti con forza dalle candidate, né risulta visibile un loro fermo proposito di metterli in cima all’agenda politica (Paestum 2012 ”Quale democrazia per la terra, per le donne, e per tutti?”).

La mia ferma opinione è che queste e altre perplessità (o contrarietà) spesso espresse nella forma di domande di chiarimento, abbiano  origine nel ruolo ancora una volta riservato alle donne, anche alle femministe attive in una pratica politica di relazione: quello di essere spettatrici anziché agenti della scelta. Noi donne assistiamo, non dettiamo l’agenda per progetti anche minimi fra noi discussi e condivisi. Non ci autorappresentiamo perché la delega a rappresentare e rappresentarci in quanto cittadine di questo Stato è stata esercitata da uomini potenti negli apparati dirigenti dei partiti che hanno scelto per noi e per tutti. Nessuna opinione femminile mi risulta collettivamente espressa. Potranno queste donne, alcune delle quali certamente stimabili, operare le rotture per me necessarie, compiendo atti pubblici di disobbedienza? Scelta ardua, resa quasi impossibile, appunto, dalla mancanza di un’agenda politica frutto di confronto preventivo, messa a punto e condivisa nella relazione politica fra donne.

Quando proponevo la costruzione di una rete di relazioni orizzontali fra donne ponevo l’accento sulla modalità procedurale di un percorso di autonomia/autodeterminazione destinato a coltivare le relazioni, enfatizzando la loro caratteristica plurale capace di assumersi il destino collettivo come compito proprio. Si tratta di una dinamica pensata a contrasto con l’individualismo competitivo che parcellizza i destini di tutte e tutti, con esiti pessimi per la grande maggioranza del genere umano, donne in testa.  Etica del collettivo versus pratica della frammentazione (dell’individualismo), questa era l’idea, per una pratica politica “resistente” allo stile della contemporaneità. E’ il percorso che determina la qualità del progetto. Nell’agire collettivamente si può contribuire a creare una democrazia critica capace di controllo dal basso, una prassi di modifica istituzionale che promuova il conflitto quale agente di modificazione di tutte le decisioni conclusive assunte ai livelli più alti.

Qui veniamo alle perplessità su un progetto di rappresentanza attuato nell’ambito di una democrazia apparentemente svuotata come quella delle cui manchevolezze siamo spettatrici quotidiane. E’ vero, lo spettacolo quotidiano di questa “politica istituzionale” è desolante. Tuttavia, questa democrazia, per quanto manomessa per mano maschile va frantumata e ristrutturata, non può essere abbandonata alle cure di una casta di uomini che la gestisce in modo esclusivista e autoreferenziale.

La nostra Costituzione, per quanto figlia di padri costituenti e solo assai parzialmente di madri, è soprattutto figlia di un popolo di donne e uomini resistenti e porta in sé il germe della libertà e anche la possibilità della liberazione femminile. Serve non l’abbandono, ma la maieutica. Serve, come dicevo, una pratica politica fra donne resistente alla frammentazione individualistica, aperta alla elaborazione di obiettivi su progetti condivisi, attenta al percorso, aperta alla critica decostruttiva e ricostruttiva. Un percorso collettivo in cui si sceglie il chi e il come sulla base di una pratica politica dal basso, costruita e condivisa fin dall’origine.
Non mi pare sia questa la situazione in cui ci si trova oggi.

 

 

8-2-2013

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