Quei funerali e il senso del limite
di Lea
Melandri
Quello che stiamo vedendo nelle piazze, nei servizi televisivi e
giornalistici, sarebbe il cattolicesimo che deve insegnare la moderazione
all'Islam? O il paese laico che fino a poche settimane fa alzava allarmato
la voce contro l'invadenza della Chiesa nella vita pubblica?
Non ho mai avuto dubbi che il confine tra credenti e non credenti fosse
alquanto esile, visto che viviamo in una società dove sono ancora le
parrocchie il luogo primo della formazione dell'infanzia e
dell'adolescenza, e dove la morale religiosa è presa come una legge
"naturale", regolatrice dei comportamenti e delle relazioni umane. Ma non
potevo immaginare che la scomparsa di un Pontefice, sia pure di forte
rilievo storico e con un riconosciuto carisma, si trasformasse in un
precipitato di medioevo e di virtuosismi spettacolari, di sussulti
intimistici e di esaltazione collettiva.
Il "vuoto", il "nulla", su cui si sono soffermati con un florilegio
retorico da far invidia ai Secentisti quasi tutti i giornali nazionali,
non è quello lasciato da Giovanni Paolo II, ma quello di gran lunga
preesistente che la sua malattia e la sua morte, fatte oggetto di una
venerazione quasi mistica, hanno riempito fino all'eccesso, al di là di
ogni civile rispetto per la libertà di tutti i cittadini. Poter dire che
si tratta di un artificio dei media, affamati di eventi eccezionali, o del
ricorso strumentale alla fede da parte delle forze politiche che trovano
nei credenti il loro maggior sostegno, sarebbe un sollievo, così come
intravedere dietro le folle piangenti il cinismo di chi punta
maliziosamente l'obiettivo sulla lacrima, sullo sguardo smarrito, sul
gesto o sulla parola più adatta ad accendere la commozione. Viene il
sospetto che non sia così, e che questa convergenza di milioni di sguardi,
sentimenti e pensieri su un uomo solo, sfigurato idealmente fino a farne
il Cristo crocefisso e risorto, il Padre e la guida spirituale del mondo
intero, sia invece il frutto, peraltro prevedibile, della miseria di una
civiltà che si vede passare davanti agli occhi ogni giorno morti,
violenze, ingiustizie, atrocità di ogni genere, e che non sa più provare
un sentimento adeguato né avere abbastanza fiducia in se stessa e nei
propri simili da prospettarsi un cambiamento.
Quando una singola persona diventa depositaria di tutti i valori e di
tutte le buone azioni che dovrebbero appartenere ad ognuno, vuol dire che
si è perso il senso della realtà, la capacità critica e la conoscenza dei
limiti, segnali preoccupanti e già noti alla storia del secolo che abbiamo
alle spalle. La grandezza di un individuo non può mai estendersi fino ad
occupare tutto l'umano pensabile, senza rischiare di rivestire,
indifferentemente, tutto il male e tutto il bene possibile.
«Come sarà la nostra vita senza la sua testimonianza? Senza la sua parola?
Senza il suo incoraggiamento? Senza la sua presenza?», si chiedeva
qualcuno dei presenti in piazza San Pietro.
Se è vero, come ha scritto Wojtyla nel suo ultimo messaggio ai fedeli, che
l'umanità sembra "smarrita" e "dominata dal potere del male, dell'egoismo
e della paura", e se crediamo davvero che la parola di un capo religioso
sia l'unico argine al decadimento totale, allora sappiamo di avere davanti
a noi un mondo globalizzato, divenuto teatro di immensi poteri economici,
militari e religiosi, di lotte apocalittiche tra Bene e Male, una
prospettiva che ci permette di occultare le nostre responsabilità terrene
con una delega incondizionata alla potenza redentrice di Dio.
Nell'analisi di tutti i "rischi" che corre la nostra società
-impoverimento, guerre, disastri ambientali, individualismo,
mercificazione dei corpi e dei sentimenti -, non sembra essere stato preso
in considerazione l'unico che ha il potere di cancellarli tutti: il colpo
di spugna di una contagiosa incontenibile commozione, ingigantita oggi da
potenti mezzi di comunicazione, ma sostenuta soprattutto dal venir meno di
una progettualità collettiva capace di dar voce e agire politico a tutti i
problemi che si stanno addensando nella vita del singolo e nella vita di
relazione, da quando sono saltati i confini tra privato e pubblico, tra
interrogativi esistenziali e questioni sociali.
Anche se la liturgia religiosa e mediatica sta occupando tutto
l'orizzonte, come quei nebbioni padani che fanno perdere l'orientamento,
non si può dimenticare che solo pochi giorni fa il mondo si accaniva
intorno alla sorte di Terri Schiavo, a quel suo stato indecidibile tra la
vita e la morte che costringe a ripensare il senso dell'umano; allo stesso
modo, non si può far finta che lo scontro tra laicità e religione non
riguardi oggi cambiamenti profondi, come il rapporto tra i sessi, la
padronanza del proprio corpo, la sessualità, la maternità, la famiglia,
cioè vicende fondamentali dell'esistenza, su cui Wojtyla è stato
particolarmente conservatore, ma su cui nessuno osa più esprimersi, per
non turbare una beatificazione chiesta a furore di popolo.
Chi avrà più il coraggio di riprendere la discussione sulla Legge 40,
sull'aborto, sui matrimoni gay, quando una folla immensa, estesa a tutto
il globo, celebrerà la parola unica, indiscutibile, dell'uomo consacrato
da Dio per la salvezza del mondo, la stessa parola che ha denunciato la
rinascita dei totalitarismi e dell'ideologia del male nelle leggi dei
parlamenti democratici ispirate ai valori della laicità e delle libertà
individuali? L'intimidazione che viene da questa ondata di infervoramento
religioso di massa, così estesa e carica emozionalmente da mettere in
ombra le correnti più integraliste dell'Islam, può chiudere molte bocche,
farne impazzire altre, e arrecare danni imprevedibili alla fiducia che
uomini e donne di appartenenze e provenienze molteplici avevano trovato
nel progettare nuove forme di convivenza tra diversi - per sesso, cultura,
lingua -, ma anche tra credenti e non credenti, credenti di una religione
o di un'altra.
Riprendersi parola e pensiero critico, anche mentre si stanno celebrando
solenni cerimonie funebri, non è sicuramente più indiscreto del dubbio
interesse, feticista e necrofilo, di quanti si sono messi a disquisire se
le spoglie del Papa assomigliassero al Cristo del Mantegna o semplicemente
a quelle di un "vecchio fragile", se le sue scarpe fossero da contadino,
da montanaro o da missionario camminatore, se le tre suore polacche che
l'hanno accudito nella sua ultima ora non si fossero poi immobilizzate
accanto al suo feretro per il segreto desiderio di seguirne la sorte.
Per una società "senza padri", che stenta a riconoscersi nei rami divisi e
oggi sempre più intersecati della famiglia umana, la tentazione di ergere
al di sopra della babele delle lingue e delle convinzioni la figura
solenne di uomo-dio, unità armoniosa di forza e dolcezza, gioia e
sofferenza, umanità e trascendenza, è sicuramente una facile via d'uscita,
ma per sentire la voce dell'unica Guida che conta si potrebbe finire
tragicamente per voler zittire tutti.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 6 aprile 2005
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