Se una donna si riduce al ruolo di carnefice

di Nadia Fusini


Kathe Kollwitz
 

Da “La Repubblica” del 19 Maggio 2004

 

Di fronte a quelle foto che ritraggono donne-soldato che si divertono a torturare, a umiliare il nemico, lo shock è autentico, il dolore vero. Enorme. Enorme la vergogna. Sì, mi vergogno perché sono donna anch'io. E se non americana, occidentale.

Ma la reazione è ingenua. Perché aspettarsi che le donne siano diverso? Perché aspettarsi che le donne siano diverse? Perché aspettarsi che “en masse” non vinca l'imprinting alienante del ruolo, sul carattere individuale? Perché non capire che l’"uomo di guerra" è una macchina, e la donna pure? E non si è più né uomo, né donna in quelle condizioni?

Quando lady Macbeth decide di collaborare col marito (anzi, lo istiga) nell'uccisione del buon re Duncan, cosa fa per entrare nella nuova parte di assassina regicida? Invoca gli spiriti della notte, e si consacra loro con la specifica richiesta di "desessualizzare" il suo corpo. Toglietemi il sesso, chiede. Il suo corpo non dovrà offrire latte, ma versare il sangue dell'altro; la testa del suo bambino, invece di carezzarla, la schiaccerà tra le mani, la fracasserà... I carismi femminili - l'accoglienza in sé dell'altro, il dono della vita, la compassione, la debolezza - dovranno essere pervertiti perché la donna si trasformi in macchina di guerra.

Al di là dei generi, la guerra, è evidente, non è cosa che stimoli l'animale razionale a dare il meglio di sé. Che cosa rende invece l'animale razionale adatto alla civile conversazione? Il riconoscimento dell'altro. Non è civile la conversazione che esclude l'altro. Che non lo riconosce. L'altro inteso anche come nemico, prigioniero, l'altro inteso come vittima. Quello che rende possibile diventare torturatori è quando fallisce in noi la capacità tutta umana di identificazione con l 'altro. Torturo, se non so immaginarmi nella posizione dell'altro. Il torturatore, inoltre, immagina che i suoi mali vengano dal di fuori; mentre è dal di dentro perlopiù che la vergogna affiora. E il riflesso condizionato è sempre di negare la vergogna e di sfogare la collera, per l'appunto, sull’altro. Vigliaccamente, sull’altro inerme.

E non vale difendersi dicendo: eseguivo degli ordini. L'abbiamo sentita già troppe volte quella frase in bocca a chi nella tortura ci ha preceduti: nazisti, fascisti, comunisti... I quali così dicendo dicevano soltanto che trovavano nella cultura un'ampia condivisione di valori. E' così oggi? Quegli uomini, quelle donne americane che torturano condividono della loro civiltà i valori che li portano a umiliare l'altro? Come prima di loro altri fecero così coi neri, coi vietnamiti?

Se è così, questo è l'orrore. Significa che c'è un valore condiviso della tortura. Ecco perché si sentono autorizzati a farlo. Si capirebbe così l'allegra indifferenza di quelle foto abominevoli, la banalità con cui compiono il male. Sono i figli di un'America che in nome della difesa di sé si sente autorizzata al peggio. Quei gesti stridono con l'idealità proclamata in alto loco di voler diffondere la democrazia. Apparentemente stridono, perché è invece proprio nella volontà di potenza americana che sta il male. Impari l'America a rassegnarsi alla propria impotenza di fronte alla sofferenza altrui. Si rassegni a riconoscere la propria separatezza.