L' autrice del libro L’alternativa negata. Le donne, la scienza, il potere ha presentato i contenuti della sua ricerca all'interno del ciclo "DONNE E SCIENZA: tre incontri con/tra donne di scienza" organizzato dalla Commissione per le Pari Opportunità dell' Università di Padova nel 2003. Pubblichiamo di seguito il suo intervento scusandoci per la mancanza dei grafici, che sono consultabili negli atti degli incontri pubblicati nel libro che porta il nome del ciclo e che è richiedibile a cpo@unipd.it

L'alternativa negata
di Giovanna Gabetta

 

Prima di iniziare il mio intervento desidero ringraziare la Commissione e in particolare Grazia per avermi invitato qui. Voglio anche puntualizzare che non sono una studiosa di sociologia o psicologia: sono una donna che lavora in campo scientifico, o meglio tecnologico; mi sono laureata in ingegneria nucleare nel 1975 dopo aver avuto una borsa di studio a Ispra per fare la tesi. Sono stata la prima donna laureata in ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, ma soltanto perché ingegneria nucleare esisteva da - relativamente - poco tempo; dovete ricordare infatti che la prima donna ingegnere in Italia si è laureata nel 1908, al Politecnico di Torino. Si chiamava Emma Strada ed era ingegnere minerario.
Una ricerca fatta sulla storia del Politecnico di Milano riporta un dato interessante: fino agli inizi degli anni ottanta le donne che si iscrivevano ad ingegneria erano l'1%. In seguito il numero è aumentato, ma non molto, visto che oggi rappresentano il 15-20% degli iscritti. Questo dato non varia molto nei diversi paesi del mondo.
Se confrontiamo questo 15-20% con il 54-55% di donne che si laureano in Italia, possiamo dire che nel campo dell'ingegneria si è rimasti indietro, anche di più di quanto avvenga nelle materie scientifiche in generale. Questo potrebbe anche essere legato ad un discorso di confronto tra "scienza" e "tecnica", e interessare in particolare l'esperienza di cui vi voglio parlare, e cioè il lavoro in azienda, soprattutto nelle grandi aziende, e la professione di manager, che a mio parere rimane un ruolo considerato sostanzialmente maschile.

Ma tornando alla mia esperienza, purtroppo essere una donna mi ha penalizzato nel trovare lavoro, anche perché, avendo quella borsa di studio ad Ispra, mi sono sposata subito dopo la laurea. Sono stata la prima del mio corso a finire di studiare, l'unica laureata a luglio del quinto anno - con un anno di tesi sperimentale. Tutti i miei compagni di corso, laureati dopo di me, hanno fatto il militare e hanno iniziato a lavorare, ma io ero sempre disoccupata. Tenete presente che a quell'epoca il nucleare era importante in Italia, e c'era molto lavoro in quel campo. Ma non per me, che ho iniziato a lavorare solo nel settembre del 1978, e solo grazie all'aiuto di un mio professore del Politecnico. Ho trovato lavoro in un centro di ricerca di un grande gruppo industriale: il tipo di azienda dove lavoro anche oggi, dopo aver cambiato nel 1994. Ho cambiato azienda, ma non tipo di azienda né tipo di lavoro. Dopo sei mesi negli Stati Uniti all'inizio del 1979, tornata in Italia, ho avuto tre figli: due gemelle che oggi hanno 22 anni, e un ragazzo di 19. Avere i figli è forse stato uno dei problemi minori: i miei problemi sono sempre stati in ufficio, non in famiglia. Ma ne parlerò più diffusamente tra poco.

Dopo più di vent'anni di esperienza in un ambiente a maggioranza maschile, posso dire di aver vissuto una situazione abbastanza particolare, con aspetti molto interessanti e piacevoli, e con difficoltà a volte inaspettate e inattese. All'inizio non mi curavo molto degli aspetti legati al genere, ma più di recente ho cominciato ad interessarmene. In particolare, ho cominciato ad approfondire gli aspetti della relazione tra le persone, e della relazione tra uomini e donne, nell'ambiente di lavoro scientifico/tecnologico. Ho letto molti libri sull'argomento, poi non mi sono saputa trattenere e ne ho scritto uno io, insieme ad una amica giornalista . Poi ho deciso di fare una inchiesta, di cui adesso vi parlerò.
La mia inchiesta

Tra il 1999 e il 2000 ho preparato un questionario, l'ho inviato alle colleghe di cui avevo l'indirizzo di posta elettronica, l'ho distribuito a congressi e a meeting. Ho chiesto a tutte le persone così contattate di aiutarmi, facendone avere una copia a loro volta ad altre amiche e colleghe. Ho raccolto 127 risposte e ho scritto un testo di circa 100 pagine con commenti e considerazioni. Nel maggio 2001, ho partecipato ad una conferenza presso l'Università di Berkeley (Women and science: the issues of power). Il testo del mio intervento è stato pubblicato nel febbraio 2003 .
Prima di proseguire, ci tengo a farvi presente che non sono una specialista del campo: ho studiato questi argomenti in modo amatoriale, con l'entusiasmo e la partecipazione che derivano dal mio coinvolgimento personale, ma senza mai ritenere di essere una esperta. Mi piace l'idea di avere raccolto un po' di storie da raccontare, e spero che mettendole in comune con voi possano esservi di aiuto perché dimostrano che, anche se ci sono tante difficoltà, vale la pena di andare avanti.

Non potrò esporvi tutte le considerazioni che ho ricavato dalle risposte al mio questionario: come ho già detto, ho scritto almeno 100 pagine di commenti, e forse non ho detto tutto. Mi limiterò a raccontarvi chi sono le donne che hanno risposto, e a darvi qualche spunto che - spero - potrà farvi riflettere.


Chi sono le donne che hanno compilato il questionario

Le due diapositive di Fig.1 e Fig.2 mostrano la distribuzione geografica delle risposte: come potete vedere, le mie corrispondenti vengono da 19 paesi diversi (da alcuni ho avuto una sola risposta). Non poche delle mie corrispondenti hanno dovuto cambiare paese per lavorare, e in particolare quelle che erano nate in paesi in via di sviluppo; tutte infatti lavorano nei paesi cosiddetti "sviluppati", e possono essere suddivise in tre gruppi: Nord America (39 risposte), Italia (29 risposte), Resto d'Europa (59 risposte).

Nelle figure 3 e 4 vi mostro la distribuzione delle età delle donne che hanno risposto, e il tipo di azienda in cui lavorano.

Le età rappresentate sono molto varie, si passa da 24 anni a 78. Il gruppo più numeroso è quello delle quarantenni. Per quanto riguarda il lavoro, circa un quarto è impiegato all'Università, e la metà in aziende con più di cinquecento dipendenti. Il rimanente quarto lavora in imprese medio - piccole.

Partendo da alcune affermazioni che si sentono fare normalmente, vorrei adesso analizzare i risultati della mia inchiesta per vedere se quanto si dice è proprio vero. Ancora una volta, non dimentichiamo che quanto racconterò è solo quello che risulta per il mio - piccolo - campione. Sono numeri statisticamente poco significativi, ma possono far riflettere su alcuni stereotipi di cui siamo convinti, "leggende" che tutti affermano ma che forse vanno per lo meno verificate.


Ho scelto tre argomenti, a cui corrispondono tre affermazioni che ho sentito fare spesso:
1. La carriera ("La donne non fanno carriera")
2. L'impegno ("La donne dedicano meno tempo al lavoro")
3. I figli ("Le donne devono scegliere tra figli e carriera")



La carriera

Non occorreva certo fare un'inchiesta per stabilire che le donne fanno meno carriera degli uomini; sono dati ben noti. Le donne hanno di solito posizioni a livello più basso, e a parità di livello guadagnano meno dei colleghi uomini. Questo è vero anche per il mio campione, ma va comunque ricordato che le mie corrispondenti si ritengono - in maggioranza - soddisfatte della posizione che ricoprono. Probabilmente, mentre gli uomni desiderano fare carriera, le donne sono già contente di poter partecipare. Come indicatore di carriera ho usato il numero dei dipendenti - non ho voluto chiedere a delle persone che non mi conoscono quanto guadagnano - e forse questo è comunque un indicatore di tipo "maschile". Il grafico di Fig.5 mostra in modo molto immediato come sia piccola la percentuale di manager con responsabilità tra le donne che hanno risposto alla mia inchiesta. Eppure le mie corrispondenti non sembrano darsene molto pensiero.


Il secondo indicatore che ho considerato è il sesso del capo, che si vede nella diapositiva di Fig.6.

Oltre a notare che ben l'86% delle donne del mio campione ha un capo uomo (senza contare il 2% che non risponde alla domanda), contro un 5% - soltanto - di capi donna, va tenuto presente che il 7% (quelle che ripondono: "non ho capo", oppure: "il capo sono io") ha una ditta propria. In effetti, come alcune hanno spiegato, per una donna che desideri fare carriera, cioè assumersi delle responsabilità decisionali, è spesso necessario mettersi in proprio. Sono donne imprenditrici, molto dinamiche, che avrebbero certamente avuto il carattere e le capacità per emergere anche nelle aziende che hanno lasciato. Credo che le aziende in questione abbiano perso molto quando loro se ne sono andate.

Vorrei anche farvi notare un altro punto interessante: le donne del mio campione dicono di avere con i loro capi, in genere uomini, una relazione abbastanza buona. Solo il 5% di loro deve fare i conti con un capo che non è mai incoraggiante ed è sempre un problema. Le donne capo sono decisamente più apprezzate, anche se sono solo sei, cioè un campione ancora più piccolo, troppo piccolo per essere significativo. Tuttavia, si può almeno sperare che le organizzazioni capiscano che un buon capo è molto importante per la vita di lavoro e per ottenere buoni risultati. Se è vero che le donne devono lavorare più duramente degli uomini per raggiungere un risultato in termini di carriera e di promozione, è possibile che quelle poche siano davvero capi migliori; è un'osservazione importante. Nelle aziende, varrebbe la pena di fare uno sforzo per avere una migliore selezione anche degli uomini, così che le posizioni di responsabilità possano andare alle persone più adatte.

La Commissione Europea ha pubblicato di recente un interessante rapporto , nel quale si conclude che sono necessarie trasparenza e regole chiare per le promozioni. La trasparenza e le regole chiare, anche senza entrare nel merito, da sole aiuterebbero ad ottenere una divisione più equa delle posizioni decisionali tra maschi e femmine (e, aggiungerei io, tra ogni gruppo sociale e/o culturale). Pensando al dibattito che si sta facendo in materia di leggi sulle eguali opportunità, tendo a credere che ci sia una soluzione possibile del problema: stabilire un chiaro meccanismo di selezione, applicarlo con trasparenza e permettere la discussione. Naturalmente, qualsiasi genere di meccanismo di selezione è sgradevole e spesso ingiusto, ma se si prova a renderlo il più aperto possibile, anche alla critica, lo si farà automaticamente meglio. Credo che la valutazione sarà l'argomento trattato da Bice Fubini nell'incontro di martedì prossimo, perciò non mi dilungo su questo.

Tornando al nostro campione, l'opinione positiva che hanno dei loro capi conferma che le donne sanno cooperare abbastanza bene nei gruppi e accettano l'autorità altrui. Mi sembra interessante ricordare quello che diceva poco fa Sara Sesti su Enrico Fermi e sulle sue affermazioni poco lusinghiere nei confronti delle studentesse che colllaboravano con lui. Lui le disprezzava, anche se erano in tante a seguire le sue lezioni. Probabilmente, invece, le ragazze davano un giudizio positivo su di lui, magari lo ammiravano. E non è una cosa che capitasse solo allora: ho la sensazione che adesso come cinquanta e più anni fa, noi donne per prime, e gli altri intorno a noi, tendono a chiedere: "Come ti sei comportata, tu, donna, per essere trattata in questo modo? Cosa puoi fare tu, donna, per cambiare la situazione?". Invece io suggerirei che si cercasse di educare gli uomini. Non dimentichiamoci che sono loro che hanno creato questa situazione; e sono loro che, avendo le posizioni di potere, hanno i mezzi per cambiarla.

E poi, riflettiamo anche su questo: se le donne hanno di solito una buona relazione col capo e con l'azienda, perché allora i capi e le aziende non hanno fiducia in loro, ed evitano di promuoverle? I dirigenti, anche quelli intermedi, sono quasi sempre responsabili delle promozioni degli impiegati che dipendono da loro. Allora, perché le donne tendono ad avere una buona opinione di capi che, almeno statisticamente, non hanno invece una buona opinione di loro? Una delle ragioni può essere la mancanza di fiducia in se stesse.

Molte volte si è detto - e se ne è avuta esperienza - che le donne tendono ad accettare di essere perdenti; mancano di autostima. Spesso, la mancanza di autostima è la conseguenza della mancanza di aiuto e sostegno. Spesso la mancanza di aiuto e sostegno può assumere l'aspetto della protezione e del paternalismo. Può darsi che in qualche caso noi crediamo di essere aiutate e sostenute dal nostro capo, che invece tende a proteggerci e non ci aiuta a crescere, a sviluppare le nostre abilità e ad assumerci le nostre responsabilità. Personalmente, come donna ingegnere all'inizio della mia vita professionale avevo una buona autostima. Mi sentivo in qualche modo diversa e speciale. Ma abbastanza spesso mi è mancato sul lavoro il necessario sostegno per mantenere questi sentimenti positivi su me stessa. Fortunatamente, sono sempre stata aiutata e supportata da mio marito e dalla mia famiglia.

Sul lavoro, spesso sembra che gli stessi uomini non si rendano conto del loro comportamento. E' molto difficile farli ragionare su questi problemi, forse anche perché non vogliono mettersi in discussione. E così ci troviamo, uomini e donne, intrappolati nei ruoli tradizionali. Questo è un punto cruciale nelle aziende, come pure nelle università e nei partiti politici. Per esempio, mi sembra emblematico quando ci si meraviglia che le donne non votino per le altre donne. Io penso che di solito le cose importanti nella vita si fanno insieme a persone dell'altro sesso: per esempio, le famiglie e i figli. Le donne lo sanno bene. Mi domanderei piuttosto perché gli uomini non votano per le donne, e perché non scelgono, come collaboratori, in qualsiasi occasione, le donne: dovrebbero essere più attirati da loro che dagli altri uomini, oppure no?


L'impegno

Nella mia inchiesta ho cercato di capire quanto tempo dedichiamo al lavoro e quanto lavorano i nostri partner. Ero incuriosita dai diversi aspetti della questione: quanto il nostro lavoro è impegnativo, la necessità di conciliare lavoro e famiglia, le diverse soluzioni che si possono escogitare… ma soprattutto mi ha colpito negli ultimi tempi una sorta di cambiamento di rotta. Forse voi siete troppo giovani, ma io ricordo i dibattiti sul tempo libero degli anni '70. Vorrei citare un passaggio da un libro americano di quell'epoca: "L'industria americana dovrebbe iniziare a capire che deve fare fronte... alle implicazioni di lungo termine dei bisogni economici delle donne e alla probabile incapacità dell'industria di procurare sufficienti opportunità di impiego per tutte le persone che hanno bisogno di un lavoro... L'accesso al lavoro di gruppi prima esclusi può procurare all'industria americana la fonte individuale più importante di nuova creatività. Perciò senza dubbio la risposta finale sarà di dividere posti di lavoro e compensi più equamente tra un maggior numero di persone. L'idea della settimana lavorativa di 4 giorni diventerà pratica normale. Anche l'idea della settimana lavorativa di tre giorni potrebbe avere un seguito, di modo che per ogni settimana lavorativa ci saranno più posti di lavoro per più persone - ognuno di durata più breve e di minor compenso economico" .

Sono trascorsi più di 20 anni da quando è stato scritto il libro che ho citato sopra, e la tendenza sembra essere verso l'opposto. Almeno per quanto posso osservare in Italia, la gente che ha un lavoro lavora più ore di qualche anno fa, forse perché le conoscenze e i mezzi tecnologici sono aumentati così tanto che non si riesce a star dietro a tutto. Ma nello stesso tempo un gran numero di persone, specie giovani, non lavorano. Si tratta di un problema che dovremmo tentare di affrontare. Siamo sicuri che l'attuale organizzazione del lavoro sia la migliore possibile? Vale la pena, o all'opposto è quasi impossibile una condivisione dei doveri tra persone con differenti qualità?
Un buon numero delle mie corrispondenti sono consapevoli del problema, e qualcuna, ma poche, soprattutto in Europa, sceglie il part-time, che però penalizza ancora una volta sul versante della carriera.

La diapositiva di fig.7 mostra il numero di ore di lavoro settimanali - in ufficio e a casa -dichiarate dalle mie corrispondenti e dai loro partner, quando ci sono. Tutti lavorano molto, non c'è una differenza significativa tra le diverse categorie, e chi lavora di più sono le single. La cura della casa e degli altri è più importante nella distribuzione degli impegni delle donne con partner che in quello delle single, anche se il partner probabilmente oggi dà una mano molto di più di quanto si usava un po' di anni fa. Tuttavia, il tempo dedicato dalle donne alla cura della propria persona o ai propri hobby è spesso considerata "una perdita di tempo". La cura degli altri è un problema per le donne che fanno parte di una coppia, ma per le aziende è abbastanza spesso anche una buona scusa per discriminarle.

La maggioranza lavora duramente fuori casa, in termini di orario, e le single, come si vede nella Fig.8, in alcuni casi sostengono dei ritmi altissimi. Sono persone che dedicano la vita al lavoro, in senso letterale.

Vediamo però di analizzare meglio cosa succede quando ci sono figli, confrontando l'impegno con quello - dichiarato - dei partner.
Nel grafico di Fig.9 ho inserito le ore settimanali di lavoro in funzione dell'età del primo figlio. I punti in rosso rappresentano le mie corrispondenti, quelli azzurri i loro partner. Cosa si può dedurre? Almeno due tendenze. Prima di tutto, noterei che quando si hanno figli piccoli, gli uomini tendono a lavorare (in ufficio) un po' di più, le donne tendono a lavorare un po' di meno. Si potrebbe ironizzare che con i bambini piccoli i nostri compagni preferiscono stare alla larga da casa! Io credo che ci sia una ragione culturale: dagli uomini, ci si aspetta che procurino ai figli benessere, e quindi soldi; un padre deve fare carriera e impegnarsi nel lavoro fuori casa. Le madri invece, devono dedicare ai figli il loro tempo.

La stessa azione, dedicare del tempo al lavoro, ha un significato diverso se fatta da un uomo o da una donna. Questo, indipendentemente dalle risorse e dalla creatività che ciascuna può dimostrare nel conciliare gli impegni di famiglia e il lavoro, è uno dei più grossi problemi da affrontare. La sensazione che ho avuto è stata quella di sbagliare comunque; in un certo senso, mi sembrava che non si aspettasse altro che di avere una scusa per potermi tenere da parte. Se mi dedicavo al lavoro, non solo ero una madre snaturata, ma il mio sforzo veniva spesso ignorato.

Un altro aspetto importante che si deduce dai dati in Fig.9 è che le donne tendono a lavorare molto a lungo, più a lungo dei loro partner. Addirittura, c'è una tendenza ad aumentare i ritmi di lavoro man mano che si invecchia, al contrario di ciò che accade per gli uomini. Naturalmente, non ci si deve meravigliare: noi facciamo un lavoro molto gratificante, ed è probabile che quando la famiglia ci chiede di meno, siamo portate a dedicare più tempo alla professione. Però, ancora una volta, siamo penalizzate per la carriera: perché tutti dicono che la carriera si fa da giovani; e noi da giovani abbiamo altre cose da fare.


Figli e carriera

Arriviamo così ad un terzo luogo comune di cui vorrei parlare: quello secondo il quale le donne devono scegliere tra figli e carriera. Mi sembra quello che finora ha le maggiori conseguenze, e vorrei farvi riflettere su alcuni punti:
1. Nessuno chiede agli uomini di scegliere tra figli e carriera, anzi solitamente chi ha figli viene considerato più maturo, più consapevole. E viene aiutato, perché "deve mantenere una famiglia"
2. Nel caso delle donne, è proprio vero che rinunciando ai figli si fa carriera? Ora vi mostro alcuni dati (per quello che può valere il mio piccolo campione)

Prima di tutto, il numero dei figli delle donne che hanno risposto al mio questionario è piuttosto basso; quasi la metà non ne ha, e un altro quinto ne ha uno solo (Fig.10). E' vero che alcune sono giovani e potrebbero ancora averne: nella Fig.11 vi mostro il numero di figli distribuito nelle diverse fasce d'età (per fare un confronto, i dati sono in percentuale, dal momento che le diverse fasce d'età sono diversamente popolate).

Tolte le più giovani, non c'è una grande differenza in funzione dell'età; forse per le più anziane rinunciare ad avere figli sembrerebbe un po' più difficile, ma non molto.

Per tutte però, mi piace far vedere come il mio indicatore di carriera - numero dei dipendenti - sembra correlato al numero di figli: la tendenza, se si può considerare tale, è verso una maggiore carriera per chi ha più figli. Per questo mi sento di darvi un consiglio: l'unico - e comunque fatene l'uso che preferite. Rinunciate ai figli se volete, ne avete tutti i diritti, il mondo è sovrappopolato, il futuro è incerto… ma non rinunciate ai figli sperando che serva per fare carriera. Ve lo diranno, ma non credeteci. Le donne non fanno carriera per tante ragioni, ma non per i figli. Chi non vuole che facciamo carriera, li usa come pretesto.

Un ultimo dato che voglio farvi vedere è nella prossima diapositiva. Si tratta della età che le donne del mio campione avevano al momento della nascita del primo figlio. Anche questo dato va un po' in controtendenza rispetto alle aspettative, e ci dimostra che per le donne ad alta scolarità l'abitudine di avere i figli più tardi non è solo una tendenza degli ultimi anni. Anzi, probabilmente c'è sempre una certa percentuale che preferisce avere i figli da giovane, e terminare gli studi poi. Come dice una mia corrispondente: "Ho studiato ingegneria perché avevo dei figli da mantenere!"


Argomenti da approfondire

Per cercare di concludere, ci sono ancora molti argomenti su cui si potrebbe riflettere. Si parte dall'esistenza stessa del problema, che molti mettono in dubbio. Molti dicono che le donne non sono trattate in modo diverso dagli uomini, e soprattutto non sono discriminate; io invece penso che la discriminazione nei confronti del femminile esista, da parte di tutti (uomini e donne), e che per capire meglio il nostro stesso comportamento va presa in considerazione, e approfondita, al di là delle facili battute, questa benedetta differenza tra uomini e donne, che più che biologica è culturale.

Tu Sara chiedevi prima se la scienza ha un genere oppure no. Io tendo a pensare che la differenza tra persona e persona è molto più grande della differenza tra categorie, qualsiasi sia la categoria che noi prendiamo in considerazione, anche biologica. Veramente non credo che vi sia una differenza grossa tra uomini e donne nel modo in cui affrontano la scienza piuttosto che la tecnica. Credo che vi siano persone creative sparse sia tra le donne che tra gli uomini. Ma c'è una certa tendenza ad indirizzare sia gli uomini che le donne secondo certi stereotipi culturali, e qui occorre lavorare, anche se è molto più difficile.

Penso di avervi dimostrato con i miei esempi che non conviene fidarsi delle "leggende". Si sente tante volte dire "è così" e ci si crede, si generalizza. Io sento tante volte dire "Non è vero che le donne sono discriminate nelle aziende". Quando tiro fuori l'argomento, spesso mi dicono che sono matta, perché, ad esempio, insisto sul fatto che le donne non fanno carriera. Vediamo qualche numero: all'ENI per esempio ci sono il 2,5% dirigenti donna, alla Fiat l'1,5%, nel settore pubblico, dove c'è la carriera anche per anzianità, si arriva a mala pena al 15% . L'Italia è uno dei paesi al mondo con il numero più basso di dirigenti donna. Ho trovato un rapporto dell'ONU del 1998 in cui si parla per l'Italia di 4 donne dirigenti ogni 100 uomini, alla pari con Iran e Turchia. Più di noi ne ha l'Algeria (6 ogni 100), e anche il Giappone (9 ogni 100). E noi crediamo di essere un paese all'avanguardia. Sempre in questo rapporto, si dice che le donne che fanno mestieri di tipo tecnico sono la maggioranza in Kazakistan. Ricordo che quando sono andata a Mosca nel 1990 ho incontrato molte ingegneri donna che lavoravano come interpreti o guide turistiche perché così guadagnavano molto di più. I dati quindi vanno sempre interpretati, non bisogna dare le cose per scontate, bisogna confrontare i numeri con le esperienze e vedere cosa significano.

Ma vorrei ribadire un punto molto importante: ricordatevi che le regole di solito sono di tipo maschile: quando io mi comporto da mamma faccio quello che devo secondo le regole "sociali", ma sono vista male nel mondo del lavoro perché quel mondo non vuole le mamme. Nel mondo del lavoro, nonostante tutti gli studi sulla gestione del personale, non si riesce a interiorizzare le teorie secondo le quali si afferma che le modalità della mamma possono essere utili. Invece secondo me c'è posto per tutti, per le modalità di tipo maschile così come per quelle di tipo femminile. Chi riesce a dare il meglio è chi mette insieme tutti e due gli aspetti della personalità. Per il momento la nostra società - e io direi molto più la società delle aziende piuttosto che quella civile -, tende ad essere molto maschile e a non volersi accorgere che potrebbe essere interessante e utile cambiare le regole, sperimentare qualcosa di nuovo. Le possibilità sono moltissime, ma siamo portati a non cambiare nulla. Ci fossilizziamo su un modo di lavorare e perdiamo tutto il resto. E così le regole continuano ad essere fatte da uomini per gli uomini e noi restiamo escluse.

Non è un caso che spesso agli uomini il femminile fa paura: "Il femminile appartiene a tutti noi, agli uomini come alle donne, come un modo di essere... Possiamo sentire la sua assenza nel senso di inferiorità, e nella rabbia compensatoria, che le donne soffrono riguardo il loro fisico, la loro incapacità di affermarsi effettivamente, il senso di impotenza e disperazione per quanto riguarda la possibilità di essere capite a fondo dai loro partners maschi come persone che hanno un'anima loro propria. Possiamo anche sentire la sua assenza nell'attitudine degli uomini verso la presenza del femminile in loro stessi. In molti uomini, quando sono costretti a confrontarsi con l'immaginario del femminile sorge lo scherno, l'impazienza, la rabbia e spesso anche il terrore. Si sentono imprigionati, spaventati, incerti, sottoposti a richieste eccessive, e quasi invariabilmente hanno una reazione di resistenza impaurita "

Invece la necessità di valorizzare le modalità e i valori femminili è stata spesso messa in evidenza in libri e articoli, a partire da un bellissimo libretto di Virginia Woolf ("A room of one's own). Nonostante Virginia abbia scritto questo saggio nella prima metà del Novecento, mi sembra che non sempre le sue idee siano state capite e messe in pratica, e in particolare dalle organizzazioni industriali e dalle aziende. Tutti sappiamo bene che per formare una famiglia e per molte altre situazioni della vita è meglio, se non necessario, essere in due. Ma per le aziende e per la gestione del potere non è così. Il nostro è un mondo maschile, e le donne che vogliono partecipare devono adattarsi alle regole che sono fatte dagli uomini e per gli uomini.

Tornando alla discussione sul genere della scienza, anche la psicologia da salotto distingue tra differenze genetiche e fattori ambientali; ma non basta. E' molto importante l'interazione con gli altri. Lo vedo applicato a me stessa nel mio ambiente di lavoro: se di fronte a me trovo una persona aggressiva, sviluppo un certo comportamento di reazione alla sua aggressività. Ovviamente, non tutti reagiscono allo stesso modo di fronte ad una controparte che aggredisce, ma ci sono cambiamenti nel nostro comportamento che si verificano quando incontriamo una persona piuttosto che un'altra. E a proposito della personalità, ricordate che in generale le persone che hanno risposto al mio questionario, pur non avendo fatto carriera, sono contente. Io condivido il loro atteggiamento: al di là della carriera, sono molto contenta del mio lavoro, ho l'impressione di aver fatto alcune cose buone nella mia vita. Però, non partecipare alle decisioni è un peccato. Chi prende le decisioni non è sempre così migliore di me, non è sempre qualcuno di cui mi fido. Ci sono meno grattacapi, certo, se chi decide è un altro. Prendere decisioni significa anche esserne responsabili. Ma è un peccato restare fuori dai giochi, non poter dare il proprio contributo. Le organizzazioni, le aziende, la politica perdono una parte importante delle risorse umane se penalizzano la parte femminile (non significa necessariamente donne: ci sono donne assolutamente d'accordo con le logiche e i comportamenti maschili, così come ci sono uomini che sono in sintonia con quello che vi sto dicendo, uomini che usano le modalità femminili).

Quindi per cambiare le cose occorre agire sulle regole. Un ultimo esempio, è quello della democrazia. Noi crediamo di essere democratici, ma non lo siamo abbastanza, come dimostrano anche tanti avvenimenti recenti. La democrazia non è solo la vittoria della maggioranza: è la capacità di valorizzare i contributi di tutti. E quando dico che "le aziende dovrebbero essere più democratiche", non intendo sostenere che bisognerebbe eleggere i dirigenti con i voti dei dipendenti, ma dico che ci dovrebbero essere regole chiare, condivise e trasparenti e che queste poi dovrebbero essere davvero rispettate. Invece nelle aziende i meccanismi di valutazione e di avanzamento sono segreti, a volte quasi mafiosi. Nel rapporto ETAN che ho citato prima si denuncia che in Europa troppo spesso vince la logica dell'"old boys' network". Gli uomini scelgono altri uomini, si sostengono tra di loro, chiamano i loro amici di vecchia data. Le donne tendono a non farlo. Ma non credo che spingere le donne a copiare gli uomini in questo sia una buona soluzione. La cosa migliore sarebbe lavorare "in qualità", cioè seguire procedure chiare, controllare i risultati, tendere al controllo e al miglioramento continuo. Il meccanismo di controllo deve portare ad un miglioramento, non deve andare in cerca del colpevole per punirlo.

Non vorrei dire di più su questo punto, sono solo piccole considerazioni che ho fatto per spingervi a riflettere; Gustavo Zagrebelski, uno dei giudici della corte costituzionale, ha scritto un libro molto bello sulla democrazia in cui ci mostra come, nel processo a Gesù, la folla che grida "uccidetelo" dà l'idea che ci sia stata una scelta democratica. Invece Pilato utilizzava la folla per i suoi scopi. La vera democrazia non è utilizzare la folla, è cercare la verità, e nello stesso tempo sapere che siamo limitati, che la perfezione è sempre più in là del punto a cui siamo arrivati.
Insomma, è un piccolo libro un po' difficile - almeno per me che non sono abituata al linguaggio della legge - ma voglio chiudere con una citazione tratta proprio da lì. Pensateci su. E tanti auguri per un futuro pieno di soddisfazioni

"Il difetto di qualità nella democrazia diviene un onere affinché tutti, principalmente coloro che si ritengono al di sopra degli altri per capacità, raddoppino i loro sforzi per colmarlo. Il senso della comune appartenenza e la consapevolezza che nessuno può ritirarsi in se stesso, creando solchi e mondi separati, sono, alla fine, la forza che rende possibile il miglioramento comune ".


Giovanna Gabetta
L’alternativa negata. Le donne, la scienza, il potere
Egea ed; Milano; 2003
pp. 134; euro 12,00
Acquistabile on line sul sito www.egeaonline.it