Maddalena Gasparini

Desiderio di maternità?

di Maddalena Gasparini


Se il Corriere della sera dedica all'evento l'apertura del 14 e poi del 18 settembre, gli altri quotidiani non rinunciano alla prima pagina: con toni equamente distribuiti fra il tifo per la mamma, la paura per i gemellini e il resoconto biomedico, i mezzi di informazione ci narrano una moderna storia di gravidanza, parti, nascite.
E' una storia a puntate irregolari (come "le tappe del parto") perché ancora oggi la "natura" e la "volontà di Dio" conservano quel tanto di autonomia che impedisce una programmazione rigorosa del palinsesto, ma a cui è difficile resistere, a giudicare dalle esclusive per giornali e TV pagate a suon di milioni: e del resto come non avere un moto di tenerezza, un sorriso augurale per chi nasce al mondo; un'emozione solidale con la madre, un'indulgente comprensione per il padre che si allontana a fumare una sigaretta? Sentimenti conosciuti, si direbbe, per una storia che si ripete dalle origini della civiltà; rassicuranti nella loro universale estraneità alla storia, alle culture, ai luoghi, alle tecniche.
L'amplificazione mediatica appare proporzionata all'insolito numero di gemelli: otto, solo due tre casi in passato. Tutto normale dunque, se non fosse per quelle immagini che affiancano la foto di famiglia alle tecnoculle, il viso paziente (dal verbo patire) della madre che da mesi non può muoversi dal letto e viene alimentata per via parenterale e le tabelle del personale sanitario impegnato nell'assistenza (centocinquanta persone, di reparti e ospedali diversi), per i freddi grafici a barre sulle probabilità di sopravvivenza e i rischi di danni permanenti di chi nasce troppo presto, troppo piccolo. Forse sta qui l'origine dell'insofferenza -devo confessarla- per questo racconto: non tanto la trasformazione in evento pubblico di un'esperienza intima seppure condivisa con l'umanità intera, ma la riproposizione pienamente consapevole, dunque responsabile, della "naturale" attitudine materna alla sofferenza in inedita alleanza coi protagonisti della "cultura" tecnoscientifica: l'esito è quello che il ministro Veronesi definisce "un eccesso di successo". Le opportunità senza dubbio straordinarie offerte dalla biomedicina, i radicali cambiamenti che essa va introducendo nelle esperienze più private delle nostre vite, dal nascere al morire, gli inediti effetti collaterali (fra cui plurigemellarità prima impensabili) producono un discorso pieno di luoghi comuni, già sottoposti a critica dal pensiero femminista, ma insieme ci dicono che questa è la cultura oggi, che oggi è "la tecnologia che traduce i corpi in storia" (Donna Haraway).
Qualcuno ricorderà l'affollato convegno svoltosi a Milano nel 1985 dal titolo "Le culture del parto": negli interventi la critica all'eccesso di tecnologia biomedica impiegata nel monitoraggio della gravidanza e del parto si intrecciava con l'analisi dei riti e dei miti che in civiltà diverse e distanti circondano questi eventi per sottrarli all'indifferenza della natura, alla pura finalità di riproduzione della specie. Ci fu la benedizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che nello stesso anno diffondeva un opuscolo teso a ridurre l'intervento biomedico e a favorire la libertà di scelta della madre sui luoghi, i tempi, i modi del parto. La contraddizione fra la difesa della "naturalità" dell'evento generativo e il riconoscimento del discorso costruito intorno ad esso, si stemperava nella pratica di numerosi gruppi di donne e ostetriche, che sostenevano una posizione attiva della donna nella scelta della modalità del parto come del contesto relazionale, senza rinunciare a minimizzare i rischi per la madre e il nascituro: Active Birth -Nascita Attiva- era il nome non casuale dell'esteso movimento nato in Gran Bretagna intorno a queste tematiche. E' degli stessi anni '80 l'approvazione in Italia di leggi regionali che legittimavano quella che si chiamò "umanizzazione del parto": stanze accoglienti al posto di camere operatorie, il rispetto dei tempi femminili piuttosto che delle esigenze ospedaliere, la vicinanza delle persone care al posto di una superflua sterilità chirurgica.
Negli anni '90 le terapie per l'infertilità e le tecniche di procreazione assistita ripropongono la riduzione del corpo femminile a corpo malato, con la sostanziale adesione di molte donne, la cui domanda di maternità trova una risposta letterale nelle procedure biomediche. Il cortocircuito fra il desiderio femminile e le promesse della medicina mette in ombra i rischi delle pratiche fecondative e i desideri dei protagonisti della tecnoscienza; impedisce un confronto responsabile fra quello che si può e ciò che è opportuno fare. "E' la più grande avventura che un ginecologo possa aver pensato di vivere" dichiara a Repubblica un medico, nuovo sacerdote dell'antica mitologia del Creatore Unico, garante della continuità fra le promesse della biomedicina e il discorso salvifico della religione, fra il consenso alle pratiche biomediche e l'affidamento alla volontà divina. "Un know how tecnico nuovo che ci arricchisce" dichiara un altro medico dell'équipe che si è spesa in questi mesi per trasformare l'eccesso in successo. Non mi sembra questa la "buona pratica clinica" cui fa riferimento il ministro Veronesi, precisando con buona ragione che non può essere oggetto di legge; la buona pratica clinica deve precedere, mettere in conto i rischi connessi all'intervento sul complesso intreccio biologico e psichico che sottende la procreazione, prevedere il contenimento degli "errori". Se possiamo studiare e capire la biologia della riproduzione e farne una norma generale, ogni bambino che nasce è unico per il desiderio, le relazioni, le storie che lo hanno reso possibile. Medici, biologi, genetisti, chiamati a entrare in questa fragile e preziosa rete, non possono accontentarsi di "andare incontro alla domanda manifesta di bambino" (Marisa Fiumanò); la buona pratica clinica include la ricerca delle possibilità e dei limiti reciproci fra domanda e offerta, perché il consenso informato non sia puro atto burocratico.
"Mi auguro che storie del genere non avvengano più. La gravidanza di questa signora è stata un errore. Non dovrebbe mai accadere… Un errore del medico. Oppure della coppia che non ha rispettato il divieto di avere rapporti sessuali nel periodo in cui la donna si è sottoposta a stimolazione ovarica" ci dice il prof Flamigni. Gli accadimenti inattesi del corpo, le zone oscure della riproduzione umana vengono messi in conto agli errori o a quanto ancora attende di essere svelato, messo in vista. Se il singolo maschio ha perso di potere di fronte alla donna, la biomedicina se ne fa supplente, mettendolo a parte, grazie alle tecnologie del vedere, di qualcosa da cui era escluso. Ma embrioni, feti, microneonati esistono grazie alla tecnologia e alla cultura visiva della tecnoscienza, attendono (da noi, donne e uomini) un nuovo statuto da quando abitano lo spazio pubblico assai più dei nostri corpi.
Se la tecnoscienza pretende di "trasformare corpi disordinati in scienza" (Donna Haraway), togliendo spazio e parola all'incerto sapere di sé del corpo gravido in precario equilibrio fra possesso e distacco, ogni donna vede incrinata l'illusione di un privilegio che pensava di non condividere con nessuno. Negli ultimi decenni la procreazione è stata al centro di battaglie scientifiche, tecnologiche, politiche, religiose, famigliari e di genere, ma il complesso interrogativo di cosa significhi libertà riproduttiva e quali ne siano le condizioni resta aperto per tutte e tutti noi.