Genere ?

di Nicoletta Buonapace


Doris Salcedo



Le donne hanno un diverso linguaggio dagli uomini, anche se parlano la stessa lingua.
Un diverso codice corporeo, un diverso sguardo, un diverso modo di percepire l’ambiente circostante.
Tuttavia, non ce ne appropriamo davvero. Piuttosto, imitiamo il linguaggio altrui. Piuttosto, è più facile che ci sentiamo “escluse”, “mute”, soprattutto se non abbiamo gli strumenti della cultura e l’appoggio di altre donne.
Siamo significate da linguaggi che non ci appartengono: moda, cinema, televisione, per nominare i più grossolani.

E’ evidente: c’è un sistema di potere costruito sul diritto del più forte, che ha forgiato culture e saperi funzionali alla sua conservazione. Un sistema gestito dallo sguardo, dal desiderio e dal bisogno maschili. Ha un nome e si chiama patriarcato, anche se una certa teoria ha trionfalmente concluso che il patriarcato è morto e il femminismo è l’unica battaglia di pensiero che è stata vinta. Ma noi sappiamo che non è così e lo sappiamo dal mondo che ci circonda, se lo ascoltiamo e lo osserviamo invece di allucinarlo.

Torniamo a noi. Ricordo la tristezza di un’amica quando raccontava: “lui non capisce quando dico: il mare è di piombo”. Io sapevo cosa intendeva con quella espressione e lei sapeva che la capivo. Non da un discorso credo, ma da un altro tipo di linguaggio: un certo sguardo, movimenti del volto o del corpo, una carezza forse, non so. So cosa significa intendersi, capirsi, anche se non so dirlo. Un po’ come Pino Ferraro (Liberazione 20 novembre 2005) che dice: “so perché gli uomini uccidono le donne, ma non so dirlo.”

Vedo la sicurezza di molti miei colleghi quando dicono sorridendo: “è inutile sforzarsi di capirle”, ed è chiaro che quel che rimane loro è quella certa accondiscendenza che rende un po’ infantili le donne, o la violenza che impone loro un punto di vista, una scelta. E’ anche altrettanto chiaro che tra loro s’intendono bene. Dicono anche: “non capisco, ma mi adeguo.”
La differenza più grande sta nel fatto che mentre le donne si rattristano, gli uomini o ridono o si arrabbiano o si “adeguano”.


Tra capire e non capire c’è una questione di potere. Chi detiene il potere non ha bisogno di capire. Agisce, sostenuto da un sistema che, fin dall’inizio conferisce potere. Linguaggi, codici, desideri e comportamenti non sono estranei a quel potere.

E’ lo stesso sistema che dice cosa sia una “mascolinità matura” o una “femminilità matura”, definendone codici, linguaggi, desideri, fondati sulla complementarità, sul sogno d’una fusione che diviene cancellazione dell’una a favore dell’altro, sulle opposizioni che ben conosciamo di natura/cultura, corpo/spirito, alto/basso, terra/cielo, buono/cattivo ecc.

Dunque alla base del nostro pensiero c’è un paradigma.

Un tempo alla base del pensiero c’era l’idea che fosse il Sole a girare intorno alla Terra.
Si è dovuto rompere uno schema mentale per capire che era la Terra a girare intorno al Sole. C’è voluto che la Chiesa smettesse di bruciare gli scienziati in piazza perché essi potessero affermare che non era la Bibbia a poter spiegare il moto dei pianeti.
Più tardi si è dovuto rompere un paradigma mentale per concepire la relatività in fisica.
Ecco, il nostro pensiero è basato sul paradigma di una binarietà sessuata, finalizzata alla riproduzione della specie e all’oppressione di un genere, quello maschile sull’altro.

Non m’intendo di fisica, di biologia, né di matematica, ma so che la natura ci mostra in realtà un certo dimorfismo sessuale, e una varietà di specie infinita e molte altre cose meravigliose e strane e molti modi di riprodursi e credo che alla base della vita non ci sia un’unica differenza, quella tra il maschio e la femmina, ma infinite diversità che chiedono tutte di essere viste, pensate, nominate.

Il potere e la cultura che esso si è dato, creando quel che chiamiamo “senso comune”, ha ridotto a zero le contraddizioni e semplificato al massimo, per i suoi scopi, la realtà che ha una complessità e un’articolazione più grandi del nostro pensiero.

In questa logica, a me sembra che quando gli uomini e le donne decidono di parlarsi e confrontarsi sono convinti entrambi di incarnare “la” differenza, perpetuando di fatto quel sistema binario sessuato attraverso tutti i paradigmi mentali che in loro si sono depositati. Non ci accorgiamo che declinare tutte le parole al maschile e al femminile segna l’esperienza quotidiana, materiale, di non poter far altro che declinarsi secondo le figure del maschile e del femminile pensate da un sistema in cui gli uomini uccidono e violentano le donne.
La violenza è già insita nel pensiero.
La famiglia ci declinerà fin dal principio e noi da subito sapremo cosa dovremo fare e come dovremo comportarci, per essere donne e uomini.

Mia nonna, quando m’insegnava musica, mi parlava con un linguaggio che mi suonava stranissimo. Ricordo certe espressioni tipo “pianissimo”,”andante con brio”, “allegretto” e molte altre che leggevamo sugli spartiti e che mi sembravano misteriose, ma che tuttavia capivo come un’altra lingua parlata dalle dita sui tasti del piano quando, ad esempio, mentre suonava una composizione di Chopin, diceva: “questo è il mormorare dell’acqua” o “questo pezzo Beethoven l’ha scritto per raccontare a una ragazza cieca il chiaro di luna”.
Anche se lei non lo sapeva m’indicava la possibilità di un altro tipo di linguaggio, nel quale cose diverse potevano stare insieme, non escludersi.

A scuola invece il senso comune operava secondo linguaggi che non lasciavano scampo. A proposito dell’essere declinate: l’insegnante di ginnastica che, con aria vagamente spaventata, in seconda media, mi dice: “ ma che bacino piccolo hai! Avrai difficoltà a fare figli!”. Senza sapere come, avevo d’un tratto l’idea di avere un corpo sbagliato. Non c’è una violenza invisibile in questo? Se penso a tutte le energie che ho dovuto sprecare per convincermi di non essere sbagliata provo una rabbia furibonda.
La stessa che provo quando vedo che in fondo le cose non sono poi così cambiate:
Non c’è nessuna donna che non abbia ricevuto una qualche forma di molestia sessuale.
Non c’è nessuna che a un certo punto della sua vita, guardandosi allo specchio, non si sia sentita inadeguata.

Questa declinazione di genere segna pesantemente la vita quotidiana, materiale, delle donne. Anche degli uomini, certo. La differenza tuttavia è che in ogni caso è sempre a vantaggio degli uni sulle altre.

Allora il mio “no” è un no contro questo invisibile modo di opprimerci che agisce nella vita di tutti i giorni,attraverso il “senso comune”.
Il “no” contro quei modelli che le istituzioni della famiglia e dell’eterosessualità ad essa connessa impongono ad ogni persona. Parlo di istituzioni, non di comportamenti. L’istituzione che sancisce la riproduzione di figli “legittimi”, riconosciuti cioè dal padre, non “figli” semplicemente. Si riconoscesse di essere semplicemente, come diceva A.Rich, nati e nate da donne avremmo forse un’idea diversa di relazione, ma siamo nella legge del padre.

Un’istituzione, quella della famiglia e dell’eterosessualità, violenta, che nega in realtà la differenza, riducendola a pura biologia. Infatti il comportamento omosessuale non è detto che sfugga all’istituzione eterosessuale – significati e significanti, all’interno dell’immaginario che fonda la relazione, possono rimanere assolutamente immutati. Come sempre, il problema si annida nel pensiero, nell’essere, nella possibilità o meno di modificarsi.
Il mio no è un no molto difficile e complicato. Quel no, segnala un vuoto, un indicibile.

Alcun* segnalano questo vuoto così, con un asterisco.
L’asterisco segnala lo sforzo di uscire dal teatro in cui recitano l’“Uomo” e la “Donna”, da quel teatro in cui, come dice Grazia De Benedetti (novembre 2005 – Scrittura interna al gruppo di riflessione: “Pensare e scrivere il rapporto tra sé e il mondo” Libera Università delle Donne) c’è “l’assurda, crudele propensione degli uomini a perseguitare, anche quando sono vittime, qualcuno più vittima e sfortunato di loro”, il più debole acquistando, di fronte agli altri uomini, un segno meno di genere femminile ed è interessante che usi il termine “propensione”, quasi fosse un dato biologico, così come la “cura” viene spesso pensata come una propensione delle donne alla conservazione della vita in virtù d’un dato misteriosamente biologico.. e non, entrambi, comportamenti codificati e più o meno consapevolmente scelti.

Posso dunque esprimere concettualmente il mio “no” in un asterisco che è una finzione, tanto quella della barra M/F. Tuttavia queste finzioni grammaticali hanno un senso. Sono segni nuovi.
Esattamente come in fisica e matematica si sono dovuti inventare segni per designare concetti prima inesistenti. L’asterisco chiede di cambiare paradigma mentale.,

Dirmi che c’è un indicibile che spezza il senso d’identità e continuità tra il sesso e il genere, così come potrebbe essere tra l’appartenenza alla Terra come pianeta e un paese, tra la spiritualità e una religione istituzionalizzata, mi pone a margine di questo oceano nel quale nuotiamo…incapaci di concepire una qualche terra emersa. L’asterisco potrebbe essere il primo accenno di sistema respiratorio per affrontare una nuova tappa evolutiva del pensiero. Un pensiero difficile ma in grado forse di darci una libertà sconosciuta.

Hanno voluto farci credere che la separazione che dà di fatto origine al linguaggio, è quella relativa al sesso, che individui sono coloro che s’identificano come maschi e femmine, identità rigorosamente codificate e definite e, che l’amore è ed è soltanto tra l’Uomo e la Donna e che questo è ciò che garantisce l’accoglienza della differenza e della diversità. Mai menzogna fu più grande. Se fosse vero gli uomini non ucciderebbero e non stuprerebbero, né si farebbero guerre o si perseguiterebbero persone di altro colore, cultura, orientamento affettivo.

La separazione, questo è ciò che sempre ho oscuramente sentito, è data dalla separazione dal corpo della madre, è il taglio del cordone ombelicale, è il pianto dopo la nascita, di un corpo nudo gettato nel mondo, condannato all’altalena tra dolore e piacere ed infine gettato nella solitudine e nella morte.
Solitudine e morte che il linguaggio e la cultura fanno di tutto per occultare dietro il sogno d’un impossibile amore e ritorno all’unità.

Ma dire che, nella fantasia, nella cultura, nell’immaginario sia radicata l’idea d’un amore impossibile portatore di violenza e oppressione di un genere sull’altro, non significa che l’amore non esista, o che nei bambini non vi sia innocenza o che non ci sia speranza di trasformazione per l’umanità. Significa solo, di nuovo, che è necessario fare uno sforzo grande d’intelligenza e immaginazione.


Io so cos’è l’amore, anche se non so dirlo.
 

26 dicembre 2005