DONNE  E  TORTURA
di Marta Ghezzi

Artemisia Gentileschi


Le immagini delle soldatesse americane sorridenti vicino agli irakeni torturati mi hanno profondamente colpito e addolorato. Sia perché sono una persona  che vuole impegnarsi per la nonviolenza  in ogni sua forma sapendo che la violenza è terribile e inaccettabile in ogni sua manifestazione, materiale o psicologica. Sia perché sono una femminista convinta che le donne sono più portate degli uomini a prendersi cura di sé e del mondo in quanto portatrici di una cultura diversa essendo un genere differente.  

Eppure come persone e come donne non possiamo distogliere il pensiero, gli occhi e il cuore da quelle terribili immagini e dobbiamo cercare di capire, chiederci come è stato possibile.

C’è chi sostiene come alcune femministe che quel comportamento è un’adesione completa al modello maschile imperante basato sulla esibizione della forza e del potere portato più a vincere il nemico demonizzandolo che all’ascolto delle “sue ragioni”.

C’è chi lo vede come un segno dei tempi in cui il processo di emancipazione ha portato le donne dalla sottomissione alla competizione  col maschio, per dimostrare che “sono così brava che so fare tutto meglio di te”

C’è chi considera quelle donne perfettamente inserite nel loro contesto e quindi attribuisce alla cultura americana provinciale tutte le nefandezze possibili e le mette sul politico dimenticando che negli Stati Uniti ci sono gruppi pacifisti coraggiosi e coerenti.

C’è chi parla di crisi della civiltà occidentale, di ritorno al Medioevo, di barbarie alle porte.

Siamo di fronte di un eccesso di omologazione al modello maschile oppure le donne concorrono in proprio agli orrori della contemporaneità come si chiede Elettra Deiana del Forum delle donne di Rifondazione? Oppure se l’hanno fatto una volta sola non è un reato come recita l’emendamento del nostro Governo sulla tortura… E se come sembra è un fenomeno reiterato e diffuso qualcosa di cui vantarsi ed esibirlo agli amici con foto ricordo?

Non si può in ogni caso non pensare a una caduta di valori, quei valori che molti attribuiscono alla nostra civiltà superiore che abbiamo la presunzione di esportare .

E’ caduta l’illusione del ruolo di civilizzazione che alle donne competerebbe per il fatto in sé di essere donne.

Quello sconvolgente rovesciamento dei ruoli sessuali e sociali, lo sfregio di un corpo maschile denudato e oltraggiato da una donna soldato non potrà che bloccare o far regredire le spinte alla liberazione umana, la ricerca di dialogo, gli sforzi di convivenza e integrazione  tra oriente e occidente.

Qui non si tratta di Giuditta che prima seduce Oloferne e poi lo decapita con la sua spada per liberare il suo popolo. Non sono eroine le donne soldato in Iraq, complici, imitatrici o emule dei loro compagni uomini, così come non sono eroine le donne kamikaze .

Qui forse a capire ci può aiutare Hanna Arendt che dopo aver osservato il tedesco Eichmann durante il processo fattogli a Gerusalemme ha scritto “La banalità del male”. Già sapevano di tedesche collaborazioniste durante il nazismo e non solo come kapo nei lager, ma vedere donne contemporanee che per guadagnarsi i soldi per studiare si compiacciono di torturare, si divertono e ridono dell’altro ridotto a oggetto inerme ci fa male e fa scempio della nostra idea di diversità delle donne. Hanna Arendt ci ha spiegato che in ogni persona “normale” c’è il seme del male .Tutti siamo capaci di indifferenza, obbedienza cieca, conformismo, emulazione nel fare del male. E’ facile scambiarlo a volte come il proprio dovere, quando l’educazione ricevuta  ha sottolineato più il dovere dell’obbedienza che il senso di responsabilità e la voce della coscienza.

E’ vero che nelle statistiche dei maltrattamenti e delle violenze le donne rientrano più come vittime che come soggetti attivi ma non si può liquidare come mostri sadici tutte coloro che uccidono, torturano, seviziano, offendono. Una certa forma di sadismo e di aggressività è in tutti gli esseri umani. E non basta certo la cultura o la fede  per estirpare l’es congenito che è in tutti noi.

Occorre riflettere sul fatto che la non violenza  non è un dato scontato ma un processo lungo, un percorso difficile che parte da dentro. Una cosa che  va coltivata, nutrita, sperimentata perché diventi contagiosa e sconfigga la banalità del male.

Per questo mi piace la proposta della mia amica Chiara di fare discussioni di gruppo in stile socratico sul tema  “la violenza dentro e fuori di noi”.

 

Pavia, 23 maggio 2004