Secondo Giacobbi, Vecchiaia e morte nella società fetalizzata

Silvia Vegetti Finzi


Lo scopo di questa vasta, profonda, articolata ricerca intorno alla vecchiaia estrema e alla morte mi sembra mirabilmente sintetizzato nella frase di Searles che conclude la prima parte del libro, quella teorica. (pag. 110)
La connessione tra la curabilità dei pazienti anziani da una parte e la conoscenza di sé dell’analista, intesa come ricerca di una serena accettazione del morire, ben diversa dall’istantaneità della fine con cui la giovinezza immagina e al tempo stesso esorcizza la morte, impegna entrambi ad affrontare un lavoro sull’invecchiare, analogo ma non identico al lavoro del lutto.

Sul tema della morte, la riflessione di Giacobbi incontra uno dei saggi più ardui di Freud : “Al di là del principio di piacere” e lo ripercorre in una straordinaria disamina, che mi ha particolarmente appassionato. “Al di là del principio di piacere” è saggio storicamente più accantonato che affrontato perché Freud stesso rifiutò di sistematizzarlo, di racchiudere in un recinto ciò che si colloca all’intersezione di tre assi: la biologia, l’antropologia, la filosofia, e che la psicoanalisi si sforza di soggettivare ( vi riuscirà Melanie Klein, tentando una impossibile ma necessaria trascrizione nell’apparato psichico di ciò che lo attraversa e lo deborda. Comunque la si teorizzi, la morte rimane un “ad di là” rispetto alla nostre capacità di comprensione, intesa, la parola “comprensione” , nel senso etimologico di “ prendere dentro di sé”, di metabolizzare l’impensabile.

Confesso che, di primo acchito, il titolo del libro mi aveva lasciata piuttosto sconcertata . Il termine “società fetalizzata” mi risulta infatti piuttosto oscuro. Giunta al termine della lettura lo sostituirei piuttosto con “età fetalizzata” riferita alla IV età della vita. E’ vero che anche le adolescenze protratte dei giovani Niet potrebbero essere considerate una regressione alla pre-nascita ma l’analogia non cancella profonde differenze.

Difficile a questo punto dar conto di un’ avventura intellettuale perseguita con coraggio, competenza, lavoro e responsabilità morale davvero eccezionali. Soprattutto nel momento in cui la psicoanalisi sembra aver perso senso e mordente, travolta dalla fretta e dalle pretese di efficienza di una società che procede a vista, incapace di recuperare il passato e di prefigurare il futuro. Giacobbi invece dialoga, oltre che con i contemporanei, anche con pensatori lontani in senso storico ma prossimi nella passione della ricerca, siano essi psicoanalisti, scienziati, filosofi o letterati. L’inclusione è data dall’oggetto d’indagine, non dall’appartenenza disciplinare. Tra i suoi maestri, l’A. ne cita alcuni che condivido per l’atteggiamento critico e l’indipendenza intellettuale: Cremerius, Fornari e Pagliarani, per cui in queste pagine mi sento a casa come un ospite ben accolta.

Sin dalla prefazione, Giacobbi si propone di scrivere qualcosa di nuovo, che sia intellettualmente stimolante e clinicamente utile. Quanto alla prima domanda mi sento di rispondere positivamente: Sì, ci è riuscito. Il lettore si sentirà coinvolto, indotto a pensare, a interrogarsi, ad apprendere. Anche assumendo una prospettiva storica, la più desueta, come se ogni indagine psicoanalitica dovesse ogni volta ricominciare da capo.

Il modo di invecchiare e di morire, nota l’A. stanno antropologicamente cambiando. La vecchiaia si protrae progressivamente, il morire diventa sempre più umano, meno affidato alla imperscrutabilità della natura e del destino. Sono sempre più coloro che approdano alla IV età e che rischiano di ridursi, persa l’autosufficienza, a fantasmi fetalizzati. Mentre si protrae la durata della vita, non si prolunga la buona qualità della vita: l’autonomia, la buona salute. Ciò che viene normalmente considerato come un progresso positivo, come un indubbio successo della medicina e della farmacologia, viene da Giacobbi ripensato nell’economia della società tardo moderna, dominata dalla quantità e dal calcolo utilitaristico a scapito di ogni considerazione qualitativa.

ATTENZIONE: Questo atteggiamento critico non rientra però nell’antimodernismo di destra, reazionario e anti-illuminista. Si colloca piuttosto nella prospettiva della Scuola di Francoforte, riprendendo la sua denuncia all’autoritarismo, ai pregiudizi, al conformismo. Rischiando di essere inattuale, il miglior antidoto ai processi di degrado culturale e civile sembra a G. la psicoanalisi e in particolare l’elaborazione della vecchiaia che comprendere l’ultimo orizzonte ma lo include nella narrazione dell’ esistenza .

E alla psicoanalisi GIACOBBI chiede quindi un modello teorico che, evitando l’opposizione vita-morte, collochi il morire all’interno dei processi vitali: una morte dentro la vita dunque. Come scrive Heidegger: “ la morte è parte non antagonistica della vita”. Ma quando i processi vitali divengono esperienze vissute, biografie, non sono mai disgiunti dal contesto sociale e culturale in cui si svolgono. Le scelte del singolo impegnano la comunità? Si domanda l’A., mi pare che risponda di sì, ma gli chiedo in proposito un approfondimento del tema.

Sul rapporto natura-cultura, Giacobbi fonda la critica all’antropocentrismo, una critica convalidata da Hans Jonas quando nota che un tempo la tecnica imitava la natura, ora intende sottometterla. Basta pensare agli interventi di fecondazione artificiale che rifiutano il termine “artificiale” quanto più si allontanano dai processi naturali. Come aveva già denunciato Freud nella metafora delle “tre ferite narcisistiche” ( Introduzione alla psicoanalisi vol. VIII p. 446 ) : nonostante le convincenti teorie di Darwin, noi rifiutiamo di considerarci appartenenti all’ordine della natura, non vogliamo essere iscritti, almeno per certi versi, nella genealogia animale, ci sentiamo, come l’uomo vitruviano di Leonardo, al centro dell’universo.


Ma, in realtà, la corrente della vita ci attraversa e ci trascende: c’era prima di noi, proseguirà dopo di noi. Rifiutandoci di ammetterla ci aggrappiamo a un ingannevole antropocentrismo. Mentre non resta che vivere attivamente, conferendogli senso e valore, ciò che si subisce passivamente. Osservando il modo con cui la vecchiaia si avvicina alla morte, Giacobbi coglie, con grande acutezza clinica, un comportamento adattivo che non direi istintuale ma culturale. Una spontanea impresa di accettazione consapevole e responsabile della caducità, che comporta un lutto della vita precedente, cui le istituzioni contrappongono, sono parole dell’A, “orribili ludoterapie”.

Condivido in proposito, la critica rivolta alla bioetica cattolica (secondo Jacques-Alain Miller una “bioteologia”) che santifica la mera vita, l’esistenza astratta, disincarnata, affidando alla medicina il compito di gestire i morenti addomesticando e procrastinando la morte. Una morte che Cattorini definisce “offesa”. I medici, educati non a curare ma a guarire, considerano la morte del paziente una sconfitta. I due atteggiamenti concomitanti, della Chiesa e della medicina, hanno trasformato la morte in un Tabù di Stato, implicitamente convalidato dal narcisismo imperante, insofferente del limite e della misura. La buona morte chiede che l’intervento medico persegua la qualità della vita con cure palliative e che consenta a ciascuno di morire secondo i propri valori e la propria vita. Giustamente Cosmacini propone un testamento, non biologico, ma biografico in cui la morte costituisca l’ultimo capitolo della propria narrazione. Lo scopo è costituito dalla riconciliazione con sé e con l’Altro come esito di un atteggiamento di perdono, lo stesso che attualmente viene propugnato laicamente da Recalcati e religiosamente da Padre Bianchi.

Il terzo capitolo della prima parte del libro affronta il tema anticipato dal titolo “La società fetalizzata” inserendolo nelle coordinate della psico-socio-analisi proposta da Gino Pagliarani. Utilizzando la teoria dei Codici affettivi di Fornari, l’invecchiamento umano viene messo in relazione con la nostra nascita prematura, con la neotenia del neonato umano, la stessa che ritroviamo nell’invecchiamento estremo. Ma è un’analogia errata perché il vecchio non è un bambino e le relazioni che s’instaurano nei suoi confronti necessitano di una nuova etica. Quanto alla “società fetalizzata”, Giacobbi riprende i modelli fornariani di società paterna (capitalista) e materna (socialista) proponendo, per la tarda modernità, il modello della “società fetalizzata”, elevata poi ad archetipo Junghiano, privo però della dialettica puer/senex approfondita da Hillman.

Ma la discussione più interessante la trovo, almeno per me, nella riflessione sul dualismo freudiano centrata nel testo “Al di là del principio di piacere”, come dicevo un testo ermetico, non privo di contraddizioni. Per Freud il Principio di piacere persegue la riduzione delle tensioni, in conformità al generale Principio di costanza, che regola l’attività di tutti gli esseri viventi. Ma la sua finalità è contrastata da altre forze.

1) Prima di tutto dai conflitti interni tra pulsioni, soprattutto tra pulsioni in atto e pulsioni rimosse;
2) secondariamente dal Principio di realtà dove l’onnipotenza inconscia del “Voglio tutto subito” deve lasciare il passo a “voglio ciò che è possibile.
3) Ma un terzo ostacolo al raggiungimento della calma piatta dell’apparato psichico, il più misterioso, il più segreto, è costituito dalla coazione a ripetere, “una forza demoniaca” che ci spinge intrinsecamente, per una spinta antagonistica alla vita, verso la morte.

“Ogni essere muore per motivi interni”, dice Freud, “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte”.

SIN QUI IL MODELLO TEORICO FREUDIANO SEMBRA ESSERE DOMINATO DA UNA UNICA DINAMICA: quella che va verso la morte.

MA A QUESTO MONISMO SUBENTRA POI UN RADICALE DUALISMO.

“L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volare…. Egli è veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale (Il germen, le cellule riproduttive)”, S.Freud Introduzione al narcisismo, volume VII, p.448)
(per un ulteriore approfondimento: Silvia Vegetti Finzi, “Il bambino della notte.Diventare donna Diventare madre”, Oscar Mondadori)

Alla luce di questa costruzione teorica, la sessualità si configura come uno strumento finalizzato alla continuazione della specie, sostenuta da un premio di piacere che non ha comunque di mira la sopravvivenza individuale, ma quella della catena generativa. Per Freud vi sono quindi due correnti: l’una, genetica, che richiede la morte dell’individuo perché la specie viva, l’altra, psichica, che gli ingiunge di procreare e allevare un figlio (non un cucciolo qualsiasi ma un figlio) che prenda il suo posto. Giustamente, osserva Giacobbi, la psiche stratificata consente la coesistenza di dinamiche opposte.

Ma torniamo a Freud: “L’amore parentale ( osserva in Introduzione al narcisismo in Vol. IX , p. 461) così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita….”

Mentre la corrente genetica, impersonale, silenziosamente finalizzata alla continuità della specie richiede la morte dell’individuo, quella psicologica vuole continuare a mantenere la vita proiettando l’amore di sé nell’amore del figlio. Non un cucciolo qualsiasi ma il “proprio figlio”, quello che porta, simbolicamente, il nome del padre. Le pulsioni di autoconservazione, di potenza e di autoaffermazione (prolungate nella filiazione) hanno il compito di trovare vie alternative al diretto precipitare della vita nella morte. Ognuno giunge al traguardo finale secondo itinerari personali. Ognuno muore a modo suo.

Il fatto che il corpo rechi in sé un impulso mortale mentre la psiche si batte per non cessare mai di esistere trova due importanti conferme. La psicologia e la psicoanalisi contemporanee negano infatti che la psiche ricerchi la quiete, il nirvana, sottolineando piuttosto la nostra tendenza a mettere in crisi gli equilibri raggiunti, a cercare nuovi stimoli a costo di destabilizzarci. D'altro canto la neurofisiologia, con la voce di Jean Claude Ameisen, confermando l’intuizione freudiana, afferma che tutte le nostre cellule possiedono in ogni momento la capacità di scatenare la loro autodistruzione prima che qualche cosa dall’esterno la provochi. La morte biologica è provocata da un istinto di morte che l’energia muscolare cerca di esportare all’esterno con lo stesso processo che osserviamo nell’attività immunologica delle cellule. ("In ogni caso, conclude Freud, il principio di piacere si pone al servizio della pulsione di morte”. (p.71) in una dinamica di masochismo originario)

Nella visione freudiana, meccanismi di vita e di morte si implicano ma alla fine la vita appare subordinata alla morte. Nulla si oppone alla morte, intesa come processo di disgregazione dell’individuo, che come tale può solo essere procrastinata e individualizzata (ognuno muore a modo suo) se non Eros, il principio di aggregazione, che si oppone a Thanatos, il principio di morte. Il monismo, insito nel prevalere dell’istinto di morte del soggetto, ridiventa dualismo alla luce di due principi filosofici. Qui Freud è quanto mai vicino alla cosmologia di Ferenczi. La forza aggregatrice di Eros procede in ogni dimensione: cellulare, organica, psicologica e sociale. Anche la sessualità può essere considerata una forma di unione retta da Eros.

A questo punto Giacobbi pone una necessaria distinzione tra istinto di morte e pulsione di morte, considerate da Freud equivalenti, ma in realtà appartenenti, l’una all’organico, l’altra a una dimensione intermedia tra il corpo e la mente dove l’istinto di morte non è di casa ma può sempre fare irruzione. Un impulso demoniaco che si può cogliere clinicamente nell’aggressività distruttiva (necrofila) e nelle resistenze alla guarigione. Che Giacobbi vede intrinseca al transfert e che, come tale, sembra confermare il profondo pessimismo di Freud sulla guarigione.

Non mi soffermo, per ragioni di tempo, sulla interessante rassegna dei contributi post-freudiani alle questioni poste da “Al di là del principio di piacere!”. Ma Giacobbi mi sembra, riportando la posizione di Francesco Conrotto, vedere in atto il Principio di morte in condotte aggressive, individuali e sociali, prive di senso, scariche istintuali immotivate, precipitazioni nella morte. Di qui il compito della psicoanalisi di risoggettivare e rioggettivare i comportamenti umani, inteso come opera di civilizzazione e non come “bene di consumo”. A costo di essere inattuale.

Superando il concetto di fetalizzazione (che sembrerebbe escludere ogni relazione intenzionale e cosciente), Giacobbi propone quindi con forza e convinzione l’estensione della psicoterapia psicoanalitica a tutta la vita umana, senza esclusione preconcetta di età o di patologie. L’importante è restare fedeli allo spirito della psicoanalisi senza codificare un metodo. (Assurdo dilemma: lettino o vis a vis?).

L’importante è scoprire le potenzialità insite anche nella vita al tramonto e recuperarle per il bene del morente e dei suoi familiari. Essenziali, in proposito, le ultime parole del libro. (p.192).

 

Presentazione di Silvia Vegetti Finzi alla Casa delle Cultura, Milano, 7 maggio 2014

 

 

Secondo Giacobbi, Vecchiaia e morte nella società fetalizzata
Mimesis, 2013, p.202, €13,60


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