Angeli biondi, single esuberanti e ragazze normali

Elisa Giomi

         


Frequentava la parrocchia accanto a casa (…) era considerata da tutti una ragazza buona e per bene; una ragazza bellissima, vistosa ma non eccentrica, che volva diventare assistente sociale, lavorare con i bambini. Di lei si potevano notare la dolcezza, la cortesia; senz’altro non passava inosservata, così bionda, slanciata, anche se non era il tipo da mettersi in mostra.

Benché sia descritta in forme che ricordano la timorata di Dio Lucia Mondella, la protagonista di questo brano non è una creatura romanzesca di fine Ottocento ma una giovane donne realmente vissuta e passata agli onori della cronaca (quella di Studio Aperto, per la precisione) perché uccisa a 23 anni in una chiesa, nel bresciano, da un ragazzo originario dello Sri-Lanka che svolgeva compiti da sagrestano.

Si tratta di Elena Lonati, una delle 188 donne assassinate in Italia nel 2006, e una delle 81 di cui i telegiornali italiani hanno parlato. Abbiamo infatti analizzato le edizioni di prime time di sei Tg (tre Rai e tre Mediaset) per l’intero anno 20061, mostrando come la disparità di trattamento nella copertura delle vittime di femminicidio2 si manifesti sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo: alcune donne ottengono decine di servizi, mentre altre non sono neppure menzionate; soprattutto, alcune vengono descritte come vittime perfette e altre subiscono invece un processo, neppure troppo implicito, di delegittimazione e stigmatizzazione, che finisce per “ri-vittimizzarle”.

E’ quest’ultimo aspetto che vorrei approfondire, perché credo che la divisione fra vittime cattive e vittime buone assuma particolare interesse anche alla luce del cosiddetto “Rubygate”: tale divisione è infatti prodotta dallo stesso regime, discorsivo e ideologico, sotteso alla narrazione di questa vicenda e all’insieme di commenti, denunce e appelli alla mobilitazione collettiva che sono scaturiti.

Gli 81 omicidi di donne riportati dai notiziari italiani nel 2006 ottengono, complessivamente, 478 servizi; da soli, i 7 casi più “coperti” (che coinvolgono 10 vittime di sesso femminile) ne occupano quasi metà, ovvero 245. Questi servizi hanno dunque costituito il corpus della nostra analisi, che ha rivelato una profonda coerenza tra i sei Tg nelle costruzioni retoriche attraverso cui le vittime sono idealizzate o criminalizzate. Il primo effetto di senso è prodotto da tre processi: a) la vittima vine infantilizzata; la vittima viene valorizzata nel suo ruolo di madre; c) la vittima viene trasformata in donna “angelica”.

L’infantilizzazione opera particolarmente in tre casi: quello della già citata Elena Lonati, quello di Hina Saleem, di origini pakistane, uccisa dagli uomini della sua famiglia perché rifiutava il matrimonio imposto con un cugino, e quello di Jennifer Zacconi, incinta di 9 mesi, barbaramente assassinata dall’ex amante (nonché padre del nascituro ma dotato di altra, “regolare” famiglia, come precisano i Tg). Le tre donne hanno età compresa tra i 20 e i 23 anni, sono sessualmente attive, sono economicamente indipendenti e/o studentesse universitarie, e, come nel caso di Hina, convivono con il fidanzato; ma ciò non impedisce ai notiziari, sia Rai che Mediaset, di definirle “ragazzine” o “ragazze che non hanno potuto divenire donne perché uccise prima” (Tg4 16 agosto).

I servizi sono corredati da inquadrature delle loro camere e di una selezione di abiti, borse e altri accessori particolarmente leziosi e infantili; soprattutto, non c’è servizio, che non inquadri animali di pezza delle più svariate razze e modelli: quelle che campeggiano sui letti delle vittime e quelli lasciati in ricordo sul luogo del delitto. Non sono poi molti, in realtà, ma si moltiplicano a dismisura nelle immagini dei Tg, perché ogni testata manda in onda le stesse immagini per tutti i giorni in cui dura la copertura del caso (10 in media). Le fotografie delle giovani donne, ignare e sorridenti, giustapposte in alcuni casi a quelle dei loro assassini, completano il processo, potenziando l’innocenza delle prime e, per converso, la crudeltà dei secondi.

Jennifer Zacconi costituisce un esempio eloquente del funzionamento della seconda strategia: l’informazione che la ragazza era incinta di 9 mesi al momento in cui è stata uccisa viene riportata da 28 servizi su 29 (quindi per l’intera durata della copertura), i commenti sottolineano che quella di Jennifer era una “gravidanza molto desiderata” (Tg5 8 maggio), mentre le telecamere inquadrano ossessivamente la sua camera, “dove tutto era pronto per il bimbo” (Tg3 7 maggio) e la madre della ragazza continua ad aprire armadi e cassetti per mostrare gli abitini del nascituro o leggere le annotazioni di visite ginecologiche dal diario della figlia.

La narrativa complessivamente costruita dai 6 Tg è molto coerente e riscrive la biografia della ragazza assumendo la maternità – in realtà nient’affatto pianificata – come snodo essenziale e presentando Jennifer in forme che ricordano, più specificamente, la “madre sacrificale”, espiante eroina di un intero genere cinematografico (il “melodramma materno”, ben analizzato da Linda Williams)3. Sono infatti retrospettivamente costruite come sacrificio consapevole e tenace non solo la sua morte orribile (e significativamente definita “un calvario”, Tg5 9 Maggio), ma anche l’intera gravidanza (“ha lottato per 9 mesi accanto al suo piccolo Hevan”, Studio Aperto 12 maggio) e, ancor più a monte, la stessa scelta di tenere il bambino (“una scelta che ha pagato con la vita” Tg5 8 Maggio).

Questo processo mitopoietico raggiunge il suo culmine nella copertura del funerale di Jennifer, quando, contro oggi legge biologica, il feto è chiamato “un bambino di nove mesi” e la giovane definitivamente installata nel ruolo di madre (“il saluto alla giovane madre”, commentano Tg1 e Tg2 12 Maggio). Di più: grazie al suo sacrificio, Jennifer diviene la Madre per eccellenza, icona dell’intera categoria e delle sue più fervide sostenitrici: “emozione, dolore, disperazione tra la gente, tra le madri accorse al funerale con i loro bambini, tra le volontarie del Movimento per la Vita che avevano assistito la ragazza nella difficile scelta di portare avanti la gravidanza” (Tg1 e Tg2 12 Maggio).

La celebrazione dell’abnegazione personale risulta il tratto dominante anche nella copertura di Raffaella Castagna, all’apparenza “mamma e moglie felice” (Tg1 12 dicembre), e della di lei madre Paola Galli, uccise nella cosiddetta strage di Erba: entrambe sono presentate solo come madri/nonne interamente devote alla famiglia, e le uniche informazioni aggiuntive che i 47 servizi sono in grado di darci appaiono significativamente confuse: Raffaella era “psicologa e volontaria in una comunità di recupero per tossicodipendenti” (Tg2 12 dicembre), “assisteva gli anziani” (Tg4 12 dicembre), “era educatrice in una comunità” (Tg1 13 dicembre). Non importa a quale categoria Raffaella prestasse i suoi servizi: è sufficiente che si tratti di categoria socialmente svantaggiata, per trasformarla in donna angelica e decisa a fare la “crocerossina, il Buon Samaritano” del marito tunisino Azouz Marxouk, “che voleva salvare a tutti i costi”, come commenta il padre di lei, Carlo Castagna (Tg1 12 dicembre): è anche attraverso osservazioni come questa che si delinea quello schema dello scontro di civiltà sistematicamente evocato dai tg, in cui la ferocia di Marzouk viene contrapposta alla carità cristiana di Carlo, “patriarca di un’intera famiglia dedita alla solidarietà” (Tg5 14 dicembre) che “abbraccia il genero anche se potrebbe essere implicato nel delitto” (come molti ricorderanno, lo stesso è commesso da due italianissimi vicini di casa, i coniugi Romano, e il tunisino non solo non ha nessuna responsabilità ma viene scagionato immediatamente).

In alcuni casi, il processo di “angelicazione” si fa ancor più esplicito: Maria Pane, uccisa assieme al resto della sua famiglia da un cugino, è definita un “angelo” dal prete con cui aveva avuto “un incontro spirituale il giorno prima” (Tg1 30 marzo), mentre Elena Lonati gode addirittura della variante “angelo biondo” (Studio Aperto 22 agosto). Se le donne Castagna sono esempi di madri e mogli devote, quest’ultima incarna il ruolo della figlia e nipote perfetta, “che non era mai in ritardo per cenare con la sua famiglia” (Tg4 23 agosto) e si prendeva cura della anziana nonna, ospite di una casa di riposo. Elena è presentata come una ragazza casa e chiesa nel senso letterale del termine, la cui “unica colpa fu quella di andare in chiesa a accendere un cero” (Studio Aperto 22 Agosto). La citazione riportata in apertura ben esemplifica il processo di idealizzazione cui è sottoposta la giovane, che, nel racconto dei Tg, finisce per incarnare tutte le virtù della femminilità tradizionale: bellezza, devozione, amorevolezza, modestia, e, naturalmente, castità.

E’ questa è la dote in assoluto più richiesta per ottenere un passaporto di cittadinanza nel mondo delle vittime “senza macchia”, status definitivamente attribuito durante le cronache dei funerali. Le stesse espressioni rimbalzano da notiziario a notiziario, al punto tale che sembra di ascoltare un’unica elegia per un’unica donna: “rose bianche sulle bara di Elena, per simboleggiare la sua gioventù e purezza” (Tg4 23 Agosto); Maria Pane “aveva già compiuto 18 anni, ma è stata messa in una bara bianca proprio per esaltare la sua pulizia” (Tg2 1 aprile); “una sola bara bianca, dove Jennifer e il suo bambino riposeranno per sempre, abbracciati l’uno all’altra” (Tg5 12 Maggio).

Anche il caso di Luciana Biggi, potenzialmente, presenterebbe tutti i requisiti per candidarla a vittima ideale: “trovata senza vita, con la gola tagliata in questo vicolo del centro storico di Genova, stanotte, intorno alle tre: una giovane donna, di carnagione chiara, età tra i 30 e i 40 anni, nessun documento addosso. (…) L’abbigliamento - felpa, jeans, stivaletti- fa pensare che la vittima non appartenga all’ambiente della prostituzione” (Studio Aperto 28 aprile). Ma quando le generalità della vittima divengono note, la cronaca prende un’altra piega, ben illustrata dal seguente passaggio:

Luciana Biggi era attirata dalle notti bianche, da passare in questi vicoli. Alta, atletica, esuberante, sicura di sé, da due giorni era sparita di casa. Morti entrambi i genitori, abitava con la sorella gemella, che ora dice: “La sua apparente sicurezza mascherava una profonda ingenuità. Ed è rimasta chiusa, da sola, in una trappola mortale” (Tg4 29 aprile).


La stessa costruzione, da cui sono esenti i Tg del servizio pubblico, pervade i tre Mediaset e si caratterizza per una forte ambivalenza, che diviene addirittura antinomia: la personalità, i comportamenti di Luciana sono marcati, da un lato, come “eccedenti” (sicura si sé, esuberante, “estroversa” tg5 29 aprile) e dall’altro come insufficienti (ingenua, “si fidava troppo delle persone”, Studio Aperto 29 aprile). Oscillando continuamente tra “iper” e “ipo”, la descrizione di Luciana fa in ogni caso perno su un troppo che ne segnala il derogare dalla giusta misura, stabilita dai modello di genere convenzionali. Se l’è cercata, insomma: questo il sospetto che viene insinuato dai notiziari, rafforzato dalle immagini che la ritraggono truccata e in minigonna o mentre si esibisce in esercizi di ginnastica.

Il sospetto in alcuni casi viene chiaramente enunciato: “single, frequentatrice abituale dei locali del centro storico, che ogni notte sono affollati da migliaia di giovani. Qui, secondo gli investigatori, Luciana potrebbe aver coltivato amicizie pericolose: ‘Non disdegnava compagnie occasionali…anche di uomini, cittadini extracomuitari” (TG5 28 Aprile).

Con il suo essere single, amare la movida, vestirsi in modo “vistoso” (almeno secondo i canoni dei Tg) e soprattutto concedersi compagnie occasionali, Luciana viola le regole del decoro femminile, e pertanto viene stigmatizzata. E’ una vecchia storia: molti studi, sviluppati entro cornici disciplinari diverse, mostrano che il criterio utilizzato nel discorso giornalistico così come in quello giuridico per costruire vittime buone e vittime cattive è la storia sessuale delle stesse ed il loro conseguente conformarsi o meno ai modelli di ruolo tradizionali4. Zacconi, Castagna, Lonati, Pane appartengono alla prima categoria perché non “eccedono” i confini imposti al loro genere – l’espressione non eccentrica, predicata di Lonati, è molto significativa – e tanto meno quelli che ne disciplinano la condotta sessuale. Sono “brave ragazze” perché “pure”: le tre strategie di idealizzazione che abbiamo rilevato, infatti, producono figure in diverso modo asessuate (la bambina e la donna angelica) o piuttosto caratterizzate da una sessualità “appropriata”, sviluppata cioè entro i limiti e secondo i dettami della norma eterosessuale (la madre).

Al contrario, Luciana Biggi, il cui appellativo di esuberante è speculare al non eccentrico di Lonati, attraversa i limiti e le frontiere. Le attraversa in senso letterale, perché ama vivere fuori, sconfinando così dal privato e occupando lo spazio pubblico; non solo: Luciana si “avventura in vicoli scarsamente illuminati, dove pochi hanno il coraggio di avventurarsi” e che rappresentano “un azzardo per le ragazze” (Studio Aperto 29 aprile): calca lo spazio urbano e notturno, quello spazio che la retorica politica e giornalistica va descrivendoci come crescentemente periglioso soprattutto per le donne sole (e bianche!), da presidiare quindi con telecamere di sorveglianza e poliziotti di quartiere. Ma Luciana attraversa i confini anche e soprattutto in senso metaforico, perché invade i territori, tipicamente connotati al maschile, dell’autonomia di movimento e della libertà sessuale. E così facendo pone una minaccia ai sistemi di regolazione e controllo patriarcali.

I Tg non rendono giustizia, né a Luciana Biggi né alle vittime perfette, che avrebbero diritto alla visibilità e a una cronaca lucida anche senza bisogno di costruirle come “donne a metà”, privata della dimensione sessuale e del corpo.

C’è naturalmente un dato che accomuna queste donne: tutte sono uccise da uomo perché non si conformano al suo volere, desiderio o legge; ma nei notiziari, e nel discorso pubblico in genere, la violenza maschile contro le donne – incluse quelle “perfette” - viene affrontata solo e esclusivamente come questione di ordine pubblico (e non di violenza di genere, quale è). Verrebbe allora da concludere, osservando le recenti cronache scandalistico-giudiziarie italiane, che il corpo femminile è in assoluto il dispositivo di controllo sociale più multitasking che sia mai stato prodotto dalla retorica politica e giornalistica: utile per creare consenso intorno ai regimi, fondamentale per farli cadere; ieri vòlano della campagna anti-immigrazione, agitato come spettro per la messa in campo di politiche repressive e securitarie e per drenare voti intorno ai partiti che più hanno saputo rappresentarle; oggi oggetto di uno scambio sessuo-economico entro il governo del Bunga bunga e strumento di attacco allo stesso da parte dei suoi oppositori.

Nell’uno e nell’altro caso, ritornano le stesse, mistificatorie opposizioni tra donne “perbene” (le vittime ideali; le donne che scendono in piazza al grido di “Io non sono una puttana”) e donne “perdute” (le vittime che se la sono cercata, le frequentatrici a pagamento di Arcore), le une contro le altre armate. Ma il regime che produce Ruby e le altre è lo stesso che muove le mani di uomini incapaci di accettare il diritto all’autodeterminazione della propria compagna; è lo stesso che disegna le rotte internazionali dello sfruttamento della prostituzione, che tollera e occulta le aggressioni sessuali alle “ospiti” dei CIE, che richiede prestazioni in cambio non solo di denaro, ma di buoni voti, appoggi, favori e carriera; è lo stesso regime che, saldandosi con il modello economico-produttivo contemporaneo, si serve di pezzi di corpo femminile per vendere mozzarelle e pannelli fotovoltaici o piuttosto si serve di interi corpi – e la figura della badante è solo l’esempio più eclatante - per far fronte al lavoro di cura e accadimento che da tempo identifica la segregazione professionale di genere, e oggi, in epoca di crisi e assenza di servizi, sta tornando a determinare anche quella domestica. Questo regime, oggi come ieri, si chiama patriarcato e, bel lungi dall’essere agonizzante, sopravviverà all’attuale governo e ai prossimi, anche perché, come tutti i regimi, sa che per imperare a lungo bisogna dividere profondamente.


NOTE

1 Cfr. E. Giomi, “Neppure con un fiore? La violenza sulle donne nei media italiani”, Il Mulino, n. 452, vol. 6, 2010, pp. 1001-1009

2 E’ il termine introdotto da Diana Russell per distinguere l’uccisione di una donna da quella di un uomo e mettere in risalto la comune matrice che hanno tutti i tipi di violenza di genere, compresa questa forma estrema, consentendone dunque un’analisi, anche criminologica, che tenga conto delle relazioni gerarchiche di potere imperniate su ruoli socialmente e politicamente costruiti (D. Russell, Femicide in Global Perspective, New York, Teachers College Press, 2001).


3 L. Williams, “Something Else Besides a Mother: Stella Dallas and the Maternal Melodrama”, Cinema Journal 24, n. 1 (1985): 2-27.

4 Per una recente analisi dell’ambito giuridico, nel panorama italiano, si veda A. Simone, Corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio, Milano, Mimesis, 2009; per l’ambito mediale veda, tra gli altri, H. Benedict, Virgin or Vamps: How the Press Covers Sex Crimes. New York, Oxford University Press, 1992; K. Boyle, Media and Violence: Gendering the Debates, London, Sage, 2005; D. Humphries (a cura di), Women, Violence and the Media, NH, Northeastern University Press, 2009.

10-11-2011

 

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