Le due piazze
di Stefania Giorgi


Marianne von Werefkin


C'è senza dubbio da rallegrarsi ma c'è anche da porsi e porre qualche domanda sul doppio appuntamento di sabato, sulla concomitanza delle due manifestazioni nazionali di Milano e di Roma, sul dispiacere di molte e di molti di non possedere il dono dell'ubiquità per non dover scegliere tra i due appuntamenti. A Milano «Usciamo dal silenzio», in difesa della legge 194 e della libertà femminile, e a Roma «Tutti in Pacs», per la richiesta di patti di unione civile, possibili in quasi tutti i paesi europei e occidentali.

Una convergenza casuale di date che è diventata una scelta rivendicata: nelle intenzioni di promotrici e promotori non c'è rischio di sovrapposizione, né di reciproca elisione, al contrario la doppietta si presenta come un'opportunità di far sentire la voce di donne e di uomini che si ribellano alle molestie vaticane e all'aggressività mortifera del centrodestra. A Milano - cuore pulsante di «Usciamo dal silenzio» -, ma anche a Roma, le migliaia e migliaia di donne riunite in più di una assemblea e in costante dialogo in Rete, hanno deciso di non far slittare la data proprio per non scivolare in posizione seconda rispetto alla mobilitazione per i Pacs.

Il «ponte tra Milano e Roma» può diventare - come si legge nel documento «Libertà del vivere e del convivere» della Casa Internazionale delle donne firmato, tra le altre, da Bianca Pomeranzi, Maria Rosa Cutrufelli, Edda Billi, Lea Melandri, Maria Luisa Boccia - «una dimostrazione di come l'autonoma autodeterminazione delle donne possa incontrare persone altrettanto consapevoli e capaci di nominare il proprio sapere sessuato, quindi parziale e non universale, per costruire nuove forme di convivenza e un diverso concetto di libertà: quella dell'essere e non dell'avere».

Queste le intenzioni. Il rischio - e di qui le domande da porre e porsi - è però quello che le affinità finiscano con lo scivolare nell'assimilazione. Un vero e proprio «gemellaggio» delle due manifestazioni siglato da un collegamento via maxischermo tra le due piazze. Assimilazione, su questo c'è ben poco da farsi illusioni, su cui giocherà l'informazione.

Sotto il cappello delle leggi che mancano (per permettere convivenze libere, civili e riconosciute al di fuori del matrimonio eterosessuale santificato) e di quelle che si tenta di smontare (la 194), la comune rivendicazione dei diritti. Contro il tentativo di mettere sotto regime di vaglio e controllo le scelte in materia di sessualità, convivenza e procreazione la comune rivendicazione della laicità dello stato. Ma proprio qui sta il punto su cui riflettere.

La posta in gioco - oggi come negli anni `70 - è del tutto eccedente dalla sfera del diritto e della laicità. Ed è quello che rischia - ancora una volta - di esser lasciato fuori dalla scena. Dalla battaglia contro l'aborto clandestino che si innestò nel primo femminismo degli anni Sessanta all'approvazione della legge 194, nelle parole e nella pratica politica del femminismo la scelta di interrompere una gravidanza non è mai stata né letta né declinata con il linguaggio del diritto né, tanto meno, di una laicità contrapposta alle professioni di fede cattolica.

L'aborto è stato interrogato per un verso come l'esperienza che ogni donna conosce anche se non l'ha vissuta sul proprio corpo, che molto dice e molto rivela della sessualità e dei rapporti tra uomini e donne, dentro e fuori le camere da letto. Per l'altro verso, come termometro infallibile delle ricorrenti prove di una politica istituzionale esangue che si rianima sul controllo del corpo e della libertà femminile nella procreazione.

Non esiste un «diritto» ad abortire. (Gli unici a rivendicarlo come tale sono stati i Radicali). Esiste la libertà di ogni donna di decidere se e quando essere madre. Non esiste uno Stato abortista - la legge 194 è tutt'altro che permissiva e giova ricordare che fu frutto di mediazioni tra Dc e Pci, fra Udi e Pci e fra Udi e quel femminismo che proponeva la depenalizzazione. E c'è la consapevolezza che, anche oggi che siamo di fronte al tentativo reiterato di disciplinare il primato femminile in materia di procreazione, nessun divieto, legge o Stato ha mai impedito alle donne di abortire.

Nel giorno sdoppiato dei Pacs e dell'aborto, c'è da augurarsi che la parola «diritto» non cancelli né le affinità né le differenze. In primo luogo tra uomini e donne in materia di libertà.



questo articolo è apparso su il manifesto del 11  gennaio 2006