A lezione di umanità dagli altri animali

Intervista a Jane Goodall di Graziana Moretti

 

Primatologa di fama internazionale, Jane Goodall è nota soprattutto per le sue ricerche sugli scimpanzé, di cui già a partire dagli anni '60 ha analizzato in profondità la vita sociale nella famiglia e nel gruppo, le strategie comunicative all'interno e al di fuori della specie e la struttura cognitiva nella soluzione dei problemi. A questo proposito, ha avuto grande risonanza ben oltre la cerchia degli esperti il fatto che Goodall è stata la prima a mettere in evidenza come alcuni scimpanzé abbiano imparato a servirsi di piccoli rami a mo' di esca per attirare le termiti di cui questi animali amano nutrirsi.

Tuttavia il principale apporto della studiosa all'etologia cognitiva e alla bioetica animale - due discipline che nella impostazione della scienziata britannica sono indissolubilmente correlate - è stata la formulazione del concetto di «cultura animale»: le ricerche di Jane Goodall hanno infatti dimostrato come si possa estendere anche agli animali non umani la capacità di formulare nuove idee o procedure, non in quanto frutto di una semplice risposta filogenetica di adattabilità «specie-specifica», ma come effetto di una vera e propria innovazione, emersa a livello ontogenetico (cioè del singolo individuo) e poi trasmessa al proprio gruppo sociale mediante meccanismi complessi di apprendimento - meccanismi che comportano quindi una identità legata al gruppo stesso, tanto che è possibile parlare di tradizione.
L'impatto che queste affermazioni hanno avuto sul panorama scientifico internazionale è stato tanto notevole da avviare una vera propria rivoluzione nel concetto di identità animale e nella dimensione etica della relazione dell'uomo con le altre specie.

Con l'obiettivo di promuovere anche al di fuori della comunità scientifica questa visione biocentrica, Jane Goodall ha fondato ormai trent'anni fa, nel 1977, un istituto che porta il suo nome e che attraverso una gamma assai ampia di progetti e di iniziative si propone di formare soprattutto i giovani al concetto di una vita vissuta in comunanza. Secondo tale orientamento ognuno, pur vivendo intensamente la propria esistenza, non dovrebbe mai perdere di vista la consapevolezza che, per usare le parole di Martin Buber, «qualsiasi cosa accada nell'angolo più remoto dell'universo, passa per forza attraverso di lui», in quanto parte, piccolissima ma irrinunciabile, di quell'unico corpo fisico e morale che è l'intera trama della natura.

Da un lato, dunque, il Jane Goodall Institute sostiene la ricerca etologica sugli scimpanzé in libertà proteggendone il diritto all'esistenza libera - secondo quelle che sono le caratteristiche della specie - in una area protetta che, in maniera assolutamente non invasiva rispetto all'ambiente circostante, rispetta il loro habitat naturale africano.
Dall'altro, però, non è azzardato affermare che il vero cuore dell'istituto sia il programma Roots & Shoots («Radici e germogli»), un progetto di ampio respiro che si propone di formare i giovani alla consapevolezza del proprio posto nella natura, a un forte sentimento di fratellanza con tutto ciò che vive e alla ricerca del proprio ruolo all'interno della catena dei viventi, non soltanto tutelando il proprio patrimonio comune, ossia l'ambiente, ma anche sviluppando le proprie potenzialità intellettuali e morali al fine di «rendere il mondo un posto migliore per tutti».
Avviato in quasi cento paesi, il programma, che prevede anche aiuti concreti alle attività sociali e culturali della Tanzania, propone corsi di sensibilizzazione, seminari, conferenze e gruppi di ricerca su tre temi fra loro interconnessi, l'ambiente, gli animali e l'uomo.
Delle attività dell'istituto, ma soprattutto del suo straordinario percorso di ricerca con gli scimpanzé, abbiamo parlato con Jane Goodall, nei giorni scorsi a Genova in occasione del Festival della Scienza.

Più volte lei ha affermato che fin da piccola «sognava di avvicinarsi così tanto agli animali da poter parlare con loro», un sogno poi che si è pienamente avverato. Come è giunta a una dimensione empatica così profonda con le altre specie?

Potrei dire semplicemente che mi sono aperta all'incontro con loro, anzi, che sono stati gli stessi scimpanzé a guidarmi in questo rapporto di empatia di cui loro, come del resto anche molti altri animali, sono veri maestri. È stato grazie agli scimpanzé che ho potuto comprendere meglio il mio posto nella natura: con infinita pazienza, con la dignità del loro esempio quotidiano, mi hanno insegnato l'umiltà necessaria per accettare la mia particolarità animale. Gli esseri umani fanno parte di un continuum, di una trama naturale di cui si trovano all'apice solo per i loro traguardi razionali, ma non possono avere nessuna presunzione di superiorità specista: perché la bellezza dell'umano intelletto ha prodotto, è vero, grandi meraviglie, come la complessità del linguaggio, le opere d'arte, i risultati della scienza e della tecnica, ma è anche capace di enormi atrocità verso la natura, gli animali e i suoi simili, e questo dimostra che la razionalità non è di per sé motivo di superiorità. L'unica vera risposta allora, quando si comprende la propria animalità, è la relazione.

Nella sua lunga carriera scientifica, cominciata nei primi anni '60, può individuare delle evoluzioni significative, che hanno portato a questo metodo di indagine così personale e soggettivo, tutto imperniato appunto sull'empatia e la relazione?

Fin da quando ho iniziato a studiare la vita e il comportamento degli scimpanzé ho inteso la mia ricerca non come una distaccata, oggettiva osservazione analitica di oggetti in esame, ma come il tentativo di comprendere soggetti con una loro particolare «alterità», con i quali entrare in relazione. E già in quei primi anni, quando sentivo alcuni colleghi affermare che gli scimpanzé, come tutti gli animali, non possiedono pensieri, sentimenti, volontà e intelligenza sapevo che avevano torto. Le ricerche, mie e di altri studiosi, hanno poi dimostrato l'assoluta contiguità tra il mondo emotivo umano e animale e solo una differente tipicità intellettiva.

Il particolare criterio metodologico da lei usato per lo studio degli scimpanzé potrebbe essere utilizzato come protocollo anche nella ricerca etologica rivolta ad altri animali?

Ne sono pienamente convinta. Per comprendere un altro essere vivente è necessario entrare in relazione con lui: solo così quello che ho sotto gli occhi, non è più solo un «materiale» da analizzare, ma anche una modalità di vita, una interiorità da scoprire. Vorrei però sottolineare un altro aspetto spesso trascurato: il modo con cui instauriamo un rapporto con gli animali rispecchia esattamente il modo con cui ci confrontiamo con i nostri consimili. In questo senso, una etologia etica ha anche un valore educativo nel rapporto interumano.


La sua ricerca, tanto importante quanto coraggiosa, ha dimostrato come gli scimpanzé siano capaci di costruirsi i propri utensili, di cacciare con complesse strategie di squadra e di elaborare una vera cultura, locale e trasmissibile. Pensa che accettare un concetto così difficile quale è quello di «cultura animale» possa migliorare l'autoconsapevolezza umana?

Credo proprio che sia così. Esistono quattro livelli evolutivi che coinvolgono ogni specie: il primo è quello fisico che parte dai fossili e si caratterizza nella evoluzione filogenetica che ha portato gli esseri viventi alla situazione attuale. C'è poi l'evoluzione culturale, capace di inventare nuovi modelli adattativi e di trasmetterli agli altri membri della propria specie tramite il complesso meccanismo dell'apprendimento: in questo campo senza dubbio l'uomo non ha rivali.
Il terzo livello evolutivo è quello morale che apre il soggetto all'attenzione per l'altro, all'empatia: tutti ambiti in cui noi umani avremmo parecchio da imparare dalle specie sociali come gli altri primati, ma anche come il cane.
Per ultimo viene il livello spirituale, quello che permette misericordia e compassione, nel quale ci si percepisce come parte integrata del mondo e si sente un profondo senso di comunanza con tutto ciò che vive. E qui l'uomo, che continua a tollerare mostruosità come guerre, torture e genocidi, è ancora molto inferiore agli animali.

 

articolo apparso in il manifesto del 30 Ottobre 2007
 

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