Senza il dominio il maschio è perso

di Lea Melandri


Basta uno sguardo alla lista dei ministri proposta da Romano Prodi per capire che la messa a tema della “questione di genere” - elementare ma faticosa conquista del femminismo - è uscita effettivamente dalla bocca di alcuni politici durante la campagna elettorale, per scomparire subito dopo nel momento cruciale della spartizione delle cariche del nuovo governo.

Se non vogliamo dubitare che alcuni impegni siano stati presi con sincera convinzione - di testa se non proprio di cuore - e chiuderci nell’inutile lamentela sulla strumentalità delle promesse e sulla protervia del potere maschile, allora non resta che riconoscere verità più inquietanti, scomode e difficili da portare alla coscienza per entrambi i sessi.

Innanzitutto, il significato equivoco che si continua a dare al termine “genere”, esteso oggi alle costruzioni culturali del maschile e del femminile, ma di fatto applicato a un sesso solo, una versione solo formalmente corretta per isolare ancora una volta la condizione della donna, il suo “svantaggio”, dalla relazione di potere che l’ha creata, evitando agli uomini il fastidioso obbligo di interrogare la forma che ha preso storicamente la virilità, le violente ricadute che ha avuto sul diverso e sul simile.

Nel corso di una campagna elettorale che sembra non avere mai fine - dalle politiche alle comunali, al referendum sulla Costituzione - non si può dire che le donne siano rimaste innominate. Uomini soli, nei salotti televisivi, nelle sedi dei partiti, nei comizi, nelle più varie comparse pubbliche, hanno sentito ogni volta aleggiare il fantasma di un’assenza e, per un qualche oscuro sentimento di riconoscenza, di colpa o di senso civico, si sono affrettati, per un verso, a proclamare diritti di parità, per l’altro a elogiare la “saggezza” di mogli e madri, la loro “maggiore capacità”, mai peraltro sperimentata, di governare la vita pubblica.

Le due sponde, tra cui abbiamo visto oscillare programmi politici pieni di buone e disattese intenzioni, sono purtroppo le stesse che hanno tenuto a lungo il movimento delle donne in una strada senza uscite: parità o differenza, rapporto con l’uguale o col diverso.

All’uguale, su cui pesa una ingiusta marginalizzazione, si riconoscono dei diritti, al diverso si fa dono di un paradossale capovolgimento di prospettiva: la diversità, causa prima di schiavitù, sfruttamento, subordinazione, diventa “risorsa”, “ricchezza”, riserva di civiltà.

Dietro le parate di quella che giustamente Chiara Saraceno ha chiamato una “gerontocrazia politica maschile”, abbiamo intravisto figure femminili famigliari, comprensive, accuditive, plaudenti, le tante signore o signorine Smith che, come scriveva già un secolo fa Virginia Woolf, fanno da specchio al narcisismo maschile, lo confermano e lo alimentano quotidianamente. Ma forse, a questo punto, dovremmo dire: lo creano.
Non è vero che il potere è solo maschile, e non è vero che appartiene solo alla polis. L’ “hitlerismo inconscio”, la passione per il dominio, che tengono insieme da sempre gli uomini nella sfera pubblica, hanno il loro contrappeso, sempre meno nascosto, nelle case, nell’indispensabilità che il lavoro di cura - di bambini, mariti, anziani, malati ecc. - porta con sé, e che oggi, per effetto dell’emancipazione, una parte del femminismo vorrebbe tradurre in maternità sociale: generatrici della società e del mondo, oltre che di esseri umani.
E’ un potere malriposto, faticosissimo, fatto di rinunce, sperpero di energie fisiche e intellettuali, ma non c’è dubbio che, insieme alla seduzione sessuale, continua ad essere per molte donne un risarcimento appagante e per l’uomo la garanzia di prerogative intramontabili.

Nei programmi del centrosinistra, e ora nelle scelte governative di Prodi, le due logiche - quella del riconoscimento dei diritti e della valorizzazione delle differenze - si alternano e si mescolano in un dosaggio che varia a seconda degli interessi e delle diversità dei singoli partiti. Ma il principio fondante è lo stesso: un passo più avanti o più indietro, le donne restano, più o meno adattate, ribelli, felici o sofferenti, nel luogo in cui sono state messe: custodi della famiglia, responsabili dei giovani, operatrici nei settori umanitari o nelle cure del corpo e della salute.

Che altro dicono i ministeri assegnati a Rosy Bindi, Livia Turco, Giovanna Melandri, Emma Bonino? Non è solo la società ad essere divisa in due. Divisi sono la politica, le istituzioni, la cultura e il senso comune, che non danno segno di sapersi scostare da una complementarietà - oggi verrebbe da dire doppiezza - distruttive. L’ipocrisia delle promesse mancate dovrebbe preoccupare molto meno di questa scissione profonda che passa, non solo tra mente e corpo ma tra i pensieri di un giorno e quelli dell’altro.

Come spiegare altrimenti che, dopo aver assicurato alle donne la metà degli incarichi nel nuovo Consiglio comunale, il candidato sindaco per la città di Milano, Bruno Ferrante, dichiari di volere avere accanto a sé un Consiglio di “saggi”, intellettuali esperti, tutti rigorosamente maschi? Che pensare di una formazione di governo che relega le donne, pochissime, nei ministeri più idonei all’idea tradizionale del femminile?

“Risorse”, in verità, le donne lo sono, ma soprattutto per la inspiegabile pazienza con cui si dispongono ogni volta ad ubbidire. Spero che da parte delle assemblee “usciamo dal silenzio” e da parte delle donne che hanno partecipato alla grande manifestazione del 14 gennaio a Milano, si ridia voce e iniziativa forte a un conflitto, come quello riguardante il rapporto uomo-donna, che sfugge almeno in parte agli schieramenti tradizionali della politica.

questo articolo è apparso su Liberazione del 18 maggio 2006