Ricordando Grazia

Marisa Bulgheroni



Se penso a Grazia, ora, la vedo come una diafana, fulgida, rosa bianca, dal profumo sottile e dalle spine violette. Un’immagine luminosa e insieme pungente, come la nostra amicizia, fondata sulle affinità, ma anche sui contrasti, e quindi avida, sempre, di futuro, di una parola definitiva, di un giudizio certo.

La morte di Grazia ha privato entrambe di un confronto ultimo al quale lavoravamo da tempo. Oggetto: l’identità di ciascuna. Chi era lei? Chi ero io, al di là della passione per la scrittura che ci legava saldamente l’una all’altra? Lei, contrassegnata in ogni giorno dall’ordine, dalla disciplina, dalla compiutezza; io in eterna lotta con il disordine, la sregolatezza, l’incompiuto, eppure, come lei, tanto tenace nel sogno di perseguire la perfezione da indurla a scegliermi, all’inizio degli anni novanta, come sua prima lettrice. Grazie aveva terminato la stesura definitiva delle Lettere del mio nome, un libro scritto come in un lungo sogno vertiginoso e l’aveva consegnato al suo editore, Garzanti, che l’avrebbe ovviamente pubblicato, malgrado il giudizio espresso dal suo direttore letterario. Ernesto Ferrero, l’aveva definito “un testo sicuramente all’altezza della scrittrice, ma composito: una serie di splendidi medaglioni o ritratti di donne, inevitabilmente privo di unità.” Grazia, toccata nella certezza di aver scritto un libro del tutto nuovo, anche nella struttura, incoraggiata da me, si rivolse alla Tartaruga, allora al colmo delle sue scoperte. Così cominciò la fortuna di quest’opera straordinaria. Ricordo la notte a casa di Laura Lepetit, in cui, con Laura, con Silvia Servi, dell’ufficio stampa, con Grazia stessa, lavorammo alla ricerca di un titolo che fosse insieme suggestivo e misterioso, e lo scovammo in un verso di Adrienne Rich.

Rileggo oggi, a distanza di tanti anni, i miei appunti per la presentazione del volume: “Che cosa questo libro ha di nuovo e singolare, anzitutto formalmente?”, mi chiedevo e proseguivo: “Perché nella struttura formale va cercata la chiave interpretativa della sua complessità e, insieme, della sua necessità. E’ un testo polifonico, una polifonia di voci femminili provenienti da tempi e luoghi diversi, ma accordate l’una all’altra, cosicché, anche dove sembra di udire una sola voce (di Virginia Woolf o Colette, di Ingeborg Bachmann o Anna Frank), quella voce solitaria è in realtà risonante di echi, anticipa già le altre o le riflette, o le ha assorbite e quindi le irradia. Fin dall’inizio mi sono abbandonata a questa simultaneità delle voci. Un libro che era apparso ad altri “composito”, – costituito com’è da una serie di intense biografie di personalità del passato, alternate con lo spartito del femminismo italiano contemporaneo e confluenti nell’autobiografia dell’autrice – trova la sua unità nel tema di fondo: la ricerca della propria identità, lo scatto a soggetto del tormentato io femminile…

L’incanto della scrittura di Grazia pervade queste pagine: è l’esattezza della parola che si propone come naturale, è l’intensità dell’intuizione che si stempera in musica, è il pensiero che si fa narrazione.

Seppure ammiri molti dei suoi racconti, i libri più belli di Grazia sono per me quelli che hanno come protagonisti scrittrici o scrittori: oltre a Le lettere del mio nome, Da una stanza all’altra, e Lo sposo impaziente. La letteratura è la tela su cui Grazia intesse i suoi ricami più seducenti, la tastiera da cui fa scaturire le sue composizioni più alte. Anche dove tocca le complesse sonorità del saggio, Grazia narra secondo “il suo destino.”

C’è una foto sul numero di Leggendaria di marzo 2015 – un profilo – in cui Grazia sembra contemporaneamente in ascolto e sul punto di pronunciare una parola. Chi l’ha fotografata l’ha sorpresa nel momento magico in cui il silenzio precede l’invenzione. Così vogliamo ricordarla.

 

Milano, 15 maggio 2015

 

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