Grazia Livi e Lo sposo impaziente

Paola Redaelli

 


Il mio rapporto con Grazia Livi è stato qualcosa di iniziato e non portato avanti, né compiuto. Non per responsabilità sua, ma mia. Mi sono sottratta, non ultimo per il fatto che mi sembrava che in qualche modo lei “esigesse” da me, e anche con una certa severità, che io approfondissi quella che lei riteneva una mia “vocazione letteraria” indiscutibile, mentre io avevo deciso per una vita in cui questo tipo di approfondimento aveva sempre meno spazio.
Entrambe però condividevamo l’idea che scrivere letteratura sia un impegno arduo ed esclusivo, che implica un confronto inesorabile con se stesse e con le proprie scelte anche di vita, e molto coraggio soprattutto per una donna. Non credo di aver rifuggito il confronto inesorabile con me stessa, ma non in funzione di coltivare quello che lei riteneva essere evangelicamente un mio talento: volevo “riuscire a vivere”, con meno disperazione, una vita che ho sempre concepito come assolutamente priva di qualsiasi trascendenza e tragicamente esaurita nel suo svolgersi.

Ho continuato a leggere i suoi libri man mano venivano pubblicati e lei me li mandava, anche se i nostri rapporti si erano praticamente interrotti. Fino a quando, con Lo sposo impaziente, sono stata catapultata in una storia, quella del viaggio dopo le nozze di Tolstoj e della moglie Sofia, nella quale, a prendere tutta la scena è un uomo che non esito a definire odioso, pieno di sé, e che – sebbene tormentato, consapevole delle sue colpe, e col desiderio di trasformarsi profondamente – stupra la moglie e che prega dentro di sé che lei non gli sia mai inferiore spiritualmente – come per dire che lo è –, un uomo terrificante dalla cui parte, con ogni evidenza, Livi sta. Un piccolo romanzo perfetto, di scrittura perfetta per questo (e sottolineo questo) Tolstoj? Mi sembrava inaudito!

Ricordo che, il mio primo impulso fu quello di telefonarle e coprirla di insulti. Non l’ho fatto. Però ho continuato a chiedermi che cosa mai si nascondesse in quel libro: non si trattava certo, come la stessa Livi vorrebbe far credere con la dimessa nota che suggella il romanzo, della celebrazione di un’unione tra diversi, di un legame, di un “nodo d’amore che non si sciolse mai”.

 

Quando ho saputo della morte di Grazia Livi, ho sentito immediatamente la necessità stringente di capire qualcosa di più e di venire a capo della sensazione di “dissonanza” che aveva creato in me Lo sposo impaziente. Sarebbe stato il mio omaggio sia pure tardivo a lei, in quanto scrittrice e in quanto donna.

Ho riletto con attenzione molti dei suoi testi, a partire da L’approdo invisibile. E mi ha colpito di nuovo qualcosa che già avevo notato a suo tempo, e cioè la ricorrenza di due parole – “centro” ed “equilibrio” (talvolta, e con lo stesso significato, “armonia”) – all’interno delle sue scritture creative e saggistiche (se mai è possibile distinguerle così nettamente). Scritture in cui Livi non rinuncia mai a dar conto di se stessa e della propria vita, e principalmente di quella che è ruotata attorno a due grandi e necessarie passioni: la scrittura e la ricerca del suo centro, del centro di sé. Due passioni strettamente connesse, perché, come Livi stessa ha detto,

Tutta la mia vita è una storia di parole pensate che mi hanno pungolato come uno sciame di api. Volevano essere messe in ordine e organizzate in una simmetria che desidero chiamare scrittura. Volevano dare significato a ciò che stavo vivendo. Volevano arrivare al nocciolo, alla vera ragione
(si veda Grazia Livi, Parole pensate Società delle letterate)

 

Queste, chiamiamole, tre richieste che le parole fanno a Livi implicano parecchi corollari, e in particolare che l’autrice, la donna scrittrice, non sia distratta da altro, né da ruoli imposti né da passioni fuggitive, sia cioè libera e sola, in grado di regnare al centro di sé (sebbene “solitudine e libertà [siano] due elementi che indeboliscono ogni donna”).
Ma, collocandosi in questa posizione, “il vuoto che si ha intorno spinge confusamente a rive estranee, a volte induce a scambiare la propria verità con la vicinanza di un corpo vivo, qualsiasi” ; dunque “per potersi salvare”, occorre “restringere il cerchio attorno a sé […] ridurlo a poche possibilità approfondite, indagate” .
Occorre, come fa Jane Austen, “bilanciare i venti del sentimento, riordinarne le instabili acque”. Perché “Solo chi regna al centro di sé ha diritto a una stanza”.

Per regnare al centro di sé occorre però avere, impugnare uno strumento. Dice la protagonista di L’approdo invisibile: “ciascuno, maturando, arriva a poco a poco allo strumento che è solo suo, inconfondibile. Per me è la disciplina … Sono anni che me lo dico, eppure il mio cuore disattento non è ancora riuscito a sposare la disciplina fino in fondo

Che il cuore sia “disattento” rimarrà un cruccio di Livi per tutta la vita, ma non il solo. Per esempiocome emerge dal racconto Un seduttore, a proposito di una madre che è appena riuscita a togliersi di torno il figlio per dedicarsi alla scrittura – un profondo senso di colpa:


“con le dita ad artiglio, lei si strinse le tempie fino a stamparvi un cerchio rosso. Non c’era nessuno che la castigasse? A causa di una dedizione ne devastava un’altra: la più carnale, la più necessaria. Quella che l’aveva ampliata, che aveva ammorbidito la sua intelligenza, che aveva congiunto il suo corpo alla mente, in pienezza. Quella che l’aveva marchiata d’ansia per sempre. Rimase così per un po’. Poi la mente, ridivenuta lucida, cercò il senso della pagina. … Voleva a ogni costo recuperare il significato per scappare via e ritrovarsi oltre. Voleva sempre andare oltre. Perché oltre c’era il fluido dominio della parola sulla vita, la calda pregnanza, la dolce denominazione che a volte poteva guarire ferite e colpe”


L’anelito insaziabile ad “andare oltre” non si limita al raggiungimento di quello che lei chiama “il fluido dominio della parola”. Livi desidera anche rimarginare “la ferita che le è stata inflitta (che è stata inflitta a ogni creatura lacerata dal mero fatto di nascere femmina o maschio)” …


Il sesso – scrive di un suo personaggio – in lei non è più motivo di sofferenza. A furia di affinare le proprie esperienze e di ampliare le proprie mansioni (erano così anguste e complesse quelle attinenti alla donna!) è riuscita a trascenderlo. In altre parole, ha potuto fare del proprio sesso un terreno ricco, vario e aperto, dove crescere le è stato possibile…. Cosicché la sua massima aspirazione, oggi, è quella di comprendere sempre. Di mettersi anche dalla parte dell’uomo che è in lei, e al medesimo tempo fuori di lei. Di integrare le varie parti di sé in una totalità d’accoglienza”.


Ma non basta. Livi è anche “in cerca di una realtà che [la] contenga pienamente, [del] progetto di una vita che porti il timbro di un ordine interno


La verità – scrive parlando di E. Dickinson – è che ogni vocazione produce una forza. Detta al proprio mondo interiore leggi intransigenti, accentranti. Da’ alla propria fisionomia una linea nuova, come di chi muova lungo la linea d’ombra d’una ulteriore certezza … solo l’esperienza interiore va posta al centro dell’essere
Il centro della … vita è l’anima, … perché l’anima è il luogo privilegiato dove la nostra consapevolezza converge e si addensa, prima di ascendere. … in verità, una volta affinata la percezione, gli accadimenti che penetrano in noi sono infiniti e arricchiscono il nostro rapporto con l’“oltre” … penetrano intuizioni, vale a dire attimi di sintesi fulminea… La vita interiore non può essere che un’avventura in se stessa. Il soprannaturale è il naturale rivelato. Essere umani è più che essere divini, perché Cristo che era divino non è stato contento fino a quando non si è fatto uomo.

 

Il cammino di Grazia Livi sulla strada che ho appena delineato giunge al termine nel suo ultimo volume di racconti, Il vento e la moto. Passioni, nostalgie, fughe, dolcezze. Questo traguardo è esplicitato nel racconto che lo chiude, scritto in prima persona, dal titolo Torna.

La protagonista entra in una chiesa e a Dio si rivolge con queste parole:

“‘Padre nostro che sei nei cieli …’ Così le voci pregano. No, Padre, tu non sei nei cieli. Quando mi fosti insegnato, eri un governatore, una potenza terrestre. Il mondo era tua proprietà. Lo dirigevi dall’alto di un assioma: il bianco è bianco, il nero è nero. Per questo non ho mai potuto dire con abbandono: ‘Padre nostro’.
Non solo. Durante gli anni della mia assenza spirituale, non ho mai avuto nostalgia di te, anzi temevo di rivederti e di subire la tua presenza azzerante …
‘No! Non venga il tuo regno!’, grido all’improvviso … ‘Non voglio!’. Tu non sei un nume. Il tuo sguardo non fulmina più …
Non è te che aspetto, ma è l’Altro che è in te, a piedi nudi, dimesso, magro, intimo, mite … Riuscirai mai a superare te stesso in lui? A perdere in lui le maschere, le fattezze, i simboli? Sì? Dimmi di sì. Poiché, se saprai farlo, puoi tornare. Anzi, torna. Così potrò finalmente liberarmi e rimetterti i debiti che hai verso di me.
‘E tu rimettimi i miei / e ricomincia dall’eterno / così sia’”
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Dunque, Livi passa dalla ricerca della necessità di porsi e regnare al centro di sé attraverso la disciplina per poter seguire la sua vocazione alla scrittura, alla scoperta della necessità di una profonda vita interiore, a un ritorno a un dio che non è più quello della sua infanzia, il Dio padre che regna e giudica, ma un dio capace di farsi uomo e di accogliere, essere l’Altro, un dio che realizza un’aspirazione da lei stessa a lungo coltivata.

Il cammino deve essere stato tormentoso, e tormentoso e non dicibile il travaglio che ha comportato; tormentosa anche la consapevolezza che non si trattava soltanto di darsi dei confini, “restringere il cerchio”, ma fare il conto con le proprie debolezze e deviazioni, con i propri limiti e incapacità nell’accogliere l’altro. Con quella che evidentemente per tutta la vita deve esserle sembrata la sua “disarmonia interiore”. Nella sua lotta contro questa disarmonia, lo strumento della disciplina forse non era sufficiente.

Capisco dunque ora perché Livi abbia scritto Lo sposo impaziente.

Lo leggo e rileggo per trovare nel testo le parole che spieghino almeno un po’ perché Livi abbia tanto lavorato a questo romanzo e con tanta simpatia (nel senso letterale) abbia sposato le ragioni del suo protagonista. Mi pare di trovarle. Tra la fine del capitolo 32 e l’inizio del 33. Cito:


Gli parve [a Tolstoj] di sentire il denso fogliame sulla testa, frusciante di parole e di compiti. Tanti! Ma pensò con fiducia a un uomo che andava e veniva sotto la luce del cielo, ampliando la coscienza sconfinata della vita fino a sentirne il principio divino in ogni cosa minima: nella noce che si spacca, nella coda del cavallo che scaccia la mosca, nella soave galla della sottogonna di Sonja.

Perfino nelle mie stesse unghie, benché siano le unghie di un uomo da perdonare, dall’indegno passato. Fa’ o Signore che io non diventi ebbro e alzi la testa vanagloriosa fino a Te. Fammi umile, insegnami l’equilibrio.

La parola equilibrio insinuò in lui una tristezza. Il suo futuro sarebbe stato una lotta fra contraddizioni, cambiamenti, abbandoni, svolte precipitose. Nessuna vera pace se non in momenti di solitudine feconda, dopo un alterco a sangue”.

 

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Le citazioni dei testi di Grazia Livi sono tratte da:
Le parole pensate, in Società delle letterate; L'approdo invisibile, Milano, Garzanti, 1980; Da una stanza all'altra, Milano, La Tartaruga, 1992; Vincoli segreti, Milano, La Tartaruga, 1994; Narrare è un destino, Milano, La Tartaruga, 2002; Lo sposo impaziente, Milano, Garzanti, 2006; Il vento e la moto. Passioni, nostalgie, fughe, dolcezze, Milano, Garzanti, 2008.

 

15 maggio 2015

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